Teorie e metodi delle Relazioni Internazionali
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Teorie e metodi delle Relazioni Internazionali

La disciplina e la sua evoluzione

  1. 228 pagine
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Teorie e metodi delle Relazioni Internazionali

La disciplina e la sua evoluzione

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Una riflessione sullo 'stato dell'arte' delle Relazioni Internazionali, aggiornata alle teorie più recenti e svolta da affermati studiosi americani e italiani. Una franca ridiscussione che, a partire dalla volontà di far chiarezza sul metodo, mette a confronto le teorie più tradizionali e consolidate della disciplina con quelle più radicali e recenti. Uno strumento didattico che parla in maniera semplice e piana, ma allo stesso tempo in grado di evitare la superficialità e le eccessive semplificazioni, come pure gli inutili accademismi; fondamentale per lo studente e ricco di spunti per lo studioso.

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Informazioni

Capitolo 1. Relazioni Internazionali: il nome e la cosa

di Fabio Armao

1. Un nome un destino?

Una nuova disciplina, non diversamente da un nuovo Stato, nasce solitamente per sottrazione di territorio ad altre più antiche e consolidate materie, dalle quali pretende di distinguersi per metodo e/o per specifico campo d’indagine. La sua lotta per l’autodeterminazione potrà assumere, di volta in volta, le forme della secessione o della nuova indipendenza: nel primo caso, si tratterà di affrancarsi da una disciplina preesistente entro la quale era compressa, in seguito alla presa di coscienza di una propria acquisita autonomia; nel secondo, di rivendicare la propria identità nei confronti di discipline «straniere» che fino a quel momento si sono ritenute legittimate a «colonizzare» quel determinato ambito di studi. Per quanto riguarda le Relazioni Internazionali, sembra lecito affermare che esse abbiano sperimentato entrambe le forme di lotta: la decolonizzazione nei confronti di più «potenze», tutte peraltro sopravvissute, che pretendevano di occuparne il campo – Diritto internazionale e Storia diplomatica, in particolare – e la secessione (forse non dappertutto ultimata) dalla Scienza politica interna che le negava dignità scientifica (né è da escludere che una nuova battaglia debba tra poco essere combattuta per sfuggire ai tentativi di annessione dell’Economia internazionale, che dispone di non poche quinte colonne dentro le stesse Relazioni Internazionali).
Le Relazioni Internazionali nascono in Gran Bretagna nel 1919, l’anno dell’istituzione della prima cattedra in International Politics (e non Relations, quindi, ma sul problema del nome torneremo tra breve), affidata ad Alfred Zimmern presso l’University College of Wales a Aberystwyth [vedi Box 1, La storia della disciplina]. Perché nasca, sembra ormai altrettanto scontato. L’idea del suo creatore, David Davies, era che «il titolare di quella cattedra dovesse viaggiare per il mondo per diffondere il messaggio che la guerra non era un tratto in qualche modo irreversibile del corpo politico internazionale, ma, piuttosto, qualcosa che avrebbe potuto essere gradualmente estirpato da una conoscenza fondata sull’esperienza» (Smith, Booth e Zalewski, 1996: xi). Nasce, quindi, per motivi ideali e al tempo stesso concreti. Lo conferma autorevolmente Edward H. Carr quando rileva che «la scienza della politica internazionale [sic!] è sorta, allora, in risposta a una domanda popolare. È stata creata per perseguire uno scopo e ha, da questo punto di vista, seguito il modello delle altre scienze. [...] Lo scopo, che ne siamo o meno consapevoli, è una condizione del pensiero; e il pensare fine a se stesso è anormale e sterile quanto l’accumulazione fine a se stessa del denaro da parte dell’avaro» (Carr, 1981: 4). Ma lo scopo di chi?
La scienza medica, osserva ancora Carr, sorge e progredisce per migliorare le condizioni di salute, e l’ingegneria al fine di costruire i ponti. Ma, realisticamente, si potrebbe osservare che la qualità dell’assistenza sanitaria ha subito un significativo miglioramento soltanto quando lo Stato si è trovato nella necessità di costituire e mantenere in condizioni di efficienza eserciti di massa; e così pure che i ponti (e le ferrovie) sono serviti a facilitare la mobilitazione delle truppe e il trasporto delle vettovaglie in guerra almeno quanto a favorire il commercio. Se è importante rilevare l’esistenza di una finalità del sapere, lo è anche osservare a vantaggio di chi, di quale progetto, questo sapere si esercita. Il caso della costruzione della prima bomba atomica e della corsa agli armamenti che ne è conseguita nel secondo dopoguerra è lì a dimostrarcelo: mai nessun altro progetto scientifico è stato perseguito con altrettanta determinazione, testimoniata dalle dimensioni degli investimenti e dal numero e dalla varietà degli scienziati coinvolti, e con pari chiarezza di intenti. E tali intenti, vista la natura bellica dell’ordigno, non potevano certamente essere definiti pacifici, a meno di non cavarsela con l’ossimoro «bellicosamente pacifica»: si voleva (e si doveva) vincere la guerra in corso, e prepararsi alle successive. Che poi gli armamenti nucleari abbiano di fatto garantito la pace è stata una conseguenza del tutto imprevedibile (e paradossale) dell’incommensurabile distruttività di quegli ordigni.
Se, allora, nel ricostruire le origini della disciplina gli studiosi concordano nell’osservare che le Relazioni Internazionali nascono al termine della prima guerra mondiale con lo scopo di evitare il ripetersi di simili tragedie – «la campagna per la divulgazione della politica internazionale ha inizio nei paesi di lingua inglese nella forma di una mobilitazione contro i trattati segreti, che venivano contestati, sulla base di dati insufficienti, come una delle cause della guerra» (Carr, 1981: 3) – e cioè come idealismo, non si vede perché non si dovrebbe riconoscere anche al realismo, destinato di lì a poco a conquistare un dominio quasi monopolistico all’interno delle Relazioni Internazionali [vedi cap. 2] un’intenzionalità altrettanto evidente, seppure opposta. In estrema sintesi, è la pura e semplice presenza della guerra nel mondo a legittimare la pretesa di dar vita a una nuova disciplina che la ponga al centro dei propri interessi [vedi Bonanate, 2001]. Al suo interno, gli idealisti combattono per proporne il superamento, i realisti perché venga accettata. Avrebbe forse un effetto chiarificatore sulle vicende delle Relazioni Internazionali definire il binomio idealismo-realismo non nei termini prevalentemente accettati di dibattito tra due scuole, ma come preliminare e prescientifica assunzione di una prospettiva valoriale (non quindi banalmente ideologica): ex parte populi, per quanto riguarda l’idealismo; ex parte principis, per quanto attiene al realismo. Con buona pace di tutti, si potrebbe anche arrivare a concordare che il cosiddetto idealismo abbia peccato e pecchi ancora a volte di un certo ingenuo utopismo che non giova sicuramente a rafforzare una posizione che è già in partenza minoritaria e, se vogliamo, di opposizione; tanto più che, al contrario, il cosiddetto realismo si è rivelato sempre abilissimo a spacciare per necessità imposte dalla storia e per verità fattuali e incontrovertibili le scelte e le opinioni delle élite al potere (e in questo senso certamente egemoniche). Si dovrebbe cioè accettare di considerarle due prospettive parimenti legittime, ma ben sapendo che nulla ci dicono ancora sulle peculiarità relative ai concreti campi d’indagine e alla metodologia (ovvero sul programma di ricerca), che sono invece i veri aspetti su cui si gioca l’originalità di una nuova disciplina.
Ciò, probabilmente, permetterebbe alle Relazioni Internazionali di liberarsi infine da un handicap che risulta iscritto nel loro codice genetico al punto da riecheggiare nel proprio stesso nome: la difficoltà di scindere lo studio della realtà dalla realtà stessa. Con malizia pari a quella di un novello Ulisse che pretendesse di sfuggire nuovamente alla vendetta del Ciclope che ha appena accecato dicendogli di chiamarsi Nessuno, i fondatori della nuova disciplina, una volta ottenuto il diritto all’autodeterminazione, hanno dissimulato la propria identità accontentandosi di assumere il nome dell’oggetto che avrebbero dovuto studiare. Alle autorità accademiche che avessero chiesto a giuristi e storici chi li avesse scalzati dalla propria posizione di potere, questi avrebbero potuto rispondere soltanto: «le relazioni internazionali», cioè i fatti. È come se, per riprendere la metafora statalistica, un’entità politica di nuova formazione, al termine di un lungo cammino verso la propria indipendenza, decidesse di chiamarsi semplicemente «Stato», rigettando qualunque altro criterio di autoidentificazione: oggi, all’interno di una comunità internazionale di circa duecento altri «Stati», per di più invece forti di un nome che è anche il primo principio identitario, essa non avrebbe alcuna possibilità di essere riconosciuta.
L’espressione «Relazioni Internazionali» si dimostra in effetti soltanto l’etichetta di un contenitore – o per usare un eufemismo una «inter-disciplina» (Olson e Groom, 1991: 68) – i cui contenuti, peraltro, non sembrano aver subito molte modifiche negli oltre ottant’anni della sua storia. I sommari dei primi manuali degli anni Trenta non erano poi così diversi dai programmi che contraddistinguono oggi i più prestigiosi dottorati di Relazioni Internazionali: storia diplomatica, diritto internazionale, economia internazionale, studio delle guerre, e così via. Il fatto è che l’economia evoca le leggi (nomos) dell’amministrazione domestica; la sociologia, il discorso (logos) sulla società; il diritto, la ricerca di ciò che è giusto (directum). La scienza (della) politica, poi, ambisce a trasformare l’arte del governo della città (techne politike) in sapere (scire). La storia dichiara di voler osservare: il greco historia è un derivato di istor, «colui che ha visto». Relazioni Internazionali, invece, ha tutt’al più l’efficacia retorica di una sineddoche che identifica il tutto con la sua parte più evocativa: il «focolare» della «casa» degli internazionalisti rimangono, appunto, le relazioni tra nazioni – ma allora, come è stato osservato con accenti diversi (Burton, 1972: 19; Bonanate, 1996: 16-18), sarebbe più corretto parlare semmai di «relazioni inter-statali» – pur sapendo che esiste una rete complessa e almeno altrettanto ricca di rapporti che vede come protagonisti organizzazioni internazionali governative e non, multinazionali, gruppi etnici, per citarne soltanto alcuni. La sensazione, tuttavia, è che la scelta della denominazione nasconda due vizi le cui conseguenze sono di ben più grave portata per lo sviluppo della disciplina, anche perché destinati a rafforzarsi a vicenda: il mito induttivista che la conoscenza possa procedere soltanto a partire da un’adeguata descrizione dei fatti a cui si aggiunge, in questo caso, l’idea che non ci sia in realtà nulla da spiegare dal momento che, per usare le parole di un realista eterodosso, «qualunque definizione che non riconoscesse più il carattere specifico delle relazioni internazionali dovuto alla legittimità del ricorso alla forza da parte degli attori trascurerebbe contemporaneamente un dato costante delle civiltà, i cui effetti sono stati immensi nel corso della storia, nonché il significato umano dell’attività militare. [...] Fino a quando la società internazionale rimarrà ciò che è, vale a dire una società asociale, [...] la teoria sarà scientificamente vera nella misura in cui non darà l’equivalente di ciò che sperano i cuori nobili e le menti superficiali, cioè una ideologia semplice, che dia garanzia di moralità e di efficacia» (Aron, 1967; trad. it. 1992: 393 e 403).

2. Un dibattito a tre dimensioni

Questa sudditanza della disciplina nei confronti degli eventi che dovrebbe invece contribuire a spiegare lascia ampie tracce anche nel modo di raccontarne l’evoluzione. Non ci si riferisce qui tanto al superficiale determinismo di coloro che esauriscono il vivace dibattito intellettuale nella cronologia delle vittorie e delle sconfitte, attribuendo, ad esempio, al fallimento della Società delle Nazioni e allo scoppio della seconda guerra mondiale le ragioni del trionfo del realismo, ai successi dei processi di istituzionalizzazione transnazionale e della globalizzazione la successiva crisi del realismo stesso e, infine, al crollo del Muro di Berlino e alla fine della Guerra fredda il disorientamento complessivo che animerebbe aujourd’hui gli internazionalisti, proprio per non aver previsto simili sviluppi. Il pensiero va, piuttosto, all’uso ancor più diffuso nella letteratura – a partire da Hedley Bull (1972) – di individuare delle fasi successive (e progressive) caratterizzate dal predominio di una scuola e scandite dai cosiddetti grandi dibattiti. Il primo sarebbe quello tra idealisti e realisti della fine degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta del Novecento; il secondo, quello tra realisti e comportamentisti tra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta. Più contestata, invece, la natura del terzo dibattito che, a seconda delle fonti, viene identificata con la querelle tra i realisti stato-centrici e i transnazionalisti degli anni Ottanta, che evolverà in quella tra neorealisti e neoliberali degli anni Novanta [vedi cap. 2 e cap. 3]; oppure con la contesa sul metodo e/o sull’epistemologia tra diversi paradigmi che, nella forma più elementare, vedrebbe la contrapposizione di positivisti e postpositivisti [vedi cap. 5]. Il difetto di questa ricostruzione consiste, innanzitutto, nel creare l’illusione che ci sia un vincitore e che lo sconfitto abbandoni il campo: «la cronologia è affascinante, ma anche fuorviante. La teoria internazionale non evolve attraverso le tre fasi senza incontrare ostacoli [...]. Una simile versione degli eventi mette a tacere tutti i dibattiti e il conflitto tra interpretazioni rivali e di fatto assegna la medaglia di vincitore alla voce dominante» (Smith, 1995: 16). Ma, ciò che più conta, in tal modo si confondono discorsi che, al contrario, sarebbe opportuno mantenere ben distinti.
Le dimensioni del dibattito teoricamente ammissibili e concretamente praticate sono tre: l’ontologia, l’epistemologia e la metodologia. Non tutte sono costantemente sotto indagine; e così pure non tutti i ricercatori manifestano le proprie posizioni relativamente a ciascuna di esse. Più che servirsi della metafora delle ondate (di dibattito) bisognerebbe immaginare le tre dimensioni come altrettanti torrenti sotterranei, che per tratti anche lunghi del proprio percorso scorrono in superficie per poi tornare a inabissarsi. I problemi che esse pongono, in realtà, non scompaiono mai; e nell’affrontare lo studio della politica internazionale (non diversamente da quel che capita nelle altre discipline) si è costretti a compiere delle scelte, consapevolmente o meno, ad ognuno di quei livelli: «la metodologia (perché si usa quel metodo?) ha bisogno della garanzia di un’epistemologia (che risponde al perché questo metodo discrimina tra ‘vero’ e ‘falso’ all’interno della gamma di ciò che possiamo conoscere come ‘vero’ e ‘falso’); mentre gli assunti ontologici (com’è il mondo e qual è il suo equipaggiamento?) privi di una garanzia epistemologica sono dogmi e non potranno essi stessi legittimare una metodologia» (Smith, 1996: 18).

2.1. L’ontologia

La prima dimensione, quella ontologica, è relativa al giudizio sulla natura della politica internazionale. In questa prospettiva è possibile immaginare che il dibattito esprima n posizioni lungo un continuum che ha come estremi l’anarchia e l’ordine. Da un lato, avremo chi considera l’assenza di un tertium super partes come una condizione ineliminabile e logicamente deducibile dall’intangibilità della sovranità nazionale, da cui fa derivare la regola aurea che la politica di potenza sia l’unico strumento utile a perseguire il proprio interesse e per taluni, in conseguenza di ciò, l’unica scelta moralmente valida. Dall’altro, chi considera lo Stato non una istituzione permanente, bensì storicamente determinata e, in quanto tale, superabile. Ciò significa assumere che non esistano ostacoli teorici che impediscano di prefigurare un governo mondiale che garantisca l’ordine con la stessa efficacia e, soprattutto, con pari legittimità del suo omologo statale. Cambia, rispetto a prima, il linguaggio sia nella grammatica sia nella sintassi: il federalismo sostituisce il nazionalismo, l’interesse nazionale cede il posto al bene comune dell’umanità; e il tempo passato (la lezione della storia) viene soppiantato dal futuro (l’utopia, nel senso letterale di «ciò che ancora non ha luogo», ma non è detto non possa averlo).
Vari autori si sono cimentati nella costruzione di tipologie fondate su questa componente ontologica. Ad esempio, Martin Wight, capostipite riconosciuto della cosiddetta scuola inglese, distingue tre tradizioni: realisti (o machiavelliani), razionalisti (o groziani) e rivoluzionisti (o kantiani) (Wight, 1991) [vedi cap. 8]. I primi vedono la politica internazionale come un potenziale stato di natura di tutti contro tutti, i secondi come una realtà di conflitto e di cooperazione, i terzi come la civitas maxima dell’umanità. Similmente, in uno dei manuali di Relazioni Internazionali più diffusi negli Stati Uniti, si distinguono realisti, transnazionalisti (eredi degli idealisti, «sconfitti dalla storia» oltre che dai realisti, e rinati a nuova forza negli ultimissimi decenni) e radicali (per lo più neomarxisti) (Russett e Starr, 1992) [vedi cap. 2]. Il difetto di queste classificazioni – tanto più evidente se le si interpreta in termini di pura storia delle idee, come tentativo cioè di individuare le scuole e i rispettivi membri – consiste nel fatto che tendono a ricondurre entro una stessa categoria posizioni effettivamente eclettiche. Ma, se si adotta una prospettiva teorica, tra quei due estremi dell’anarchia e dell’ordine è possibile cogliere una ben più ampia serie di sfumature.
Ci sarà, così, chi assume che l’anarchia internazionale venga di fatto mitigata da una componente giuridica. E, all’interno di questo gruppo, vi potrà essere chi ritiene che l’effetto moderatore sia attribuibile esclusivamente allo Stato, in particolare quello democratico, che per la maggior parte del suo tempo agisce seguendo delle norme; e/o al processo di istituzionalizzazione che comu...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Capitolo 1. Relazioni Internazionali: il nome e la cosa
  3. Capitolo 2. Realismo e neorealismo
  4. Capitolo 3. L’istituzionalismo neoliberale
  5. Capitolo 4. Il costruttivismo
  6. Capitolo 5. La teoria critica e le teorie postmoderne
  7. Capitolo 6. Struttura interna e politica estera
  8. Capitolo 7. Interdipendenza, sanzioni economiche e sicurezza nazionale: i temi di indagine dopo la Guerra fredda
  9. Capitolo 8. Gli Studi strategici
  10. Capitolo 9. L’International Political Economy
  11. Glossario
  12. Gli autori