Oltre il nulla
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Oltre il nulla

Studio su Giacomo Leopardi

  1. 108 pagine
  2. Italian
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Oltre il nulla

Studio su Giacomo Leopardi

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A differenza di Nietzsche, Leopardi non dissocia mai il suo destino da quello dell'umanità e vede, proprio nella coscienza della comune fragilità, l'unica limitata salvezza.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102312

Non mentire né rassegnarsi

Questo capitolo è una sostanziale e profonda rielaborazione del saggio Il valore e la sventura: la fondazione materialistica della virtù in Giacomo Leopardi, in «Democrazia e diritto», 1991, n. 5-6, pp. 107-159.

I. Oltre le illusioni

1. Una dolorosa saggezza

Tra le tante dimensioni in cui siamo gettati, e a cui non possiamo sottrarci, c’è quella dell’essere destinati a crescere. Ciascuno di noi è gettato nel tempo, condannato ad allontanarsi dal proprio punto di partenza e a procedere verso il punto d’arrivo. Tra l’uno e l’altro c’è la nostra vita, la ricchezza o la povertà del nostro «fare esperienza», la nostra capacità di apprendere dai tanti eventi che attraversiamo.
In questa capacità di imparare, di «fare esperienza» sta, per Leopardi, la differenza più rilevante tra l’uomo e gli animali. Mentre questi ultimi hanno una limitata capacità di apprendere e di correggersi, l’uomo è caratterizzato da un alto grado di conformabilità, è molto più capace di «assuefarsi e quindi di far progressi». Ma la capacità di apprendere è distribuita in modo ineguale anche tra gli uomini, che posseggono gradi diversi di ingegno o talento: «Il talento non è altro che facoltà d’imparare, cioè di attendere e di assuefarsi. Per imparare intendo anche la facoltà di inventare, di pensare, di sentire, di giudicare» (1661). Imparare è quindi segno di sensibilità e apertura, la capacità di ospitare al proprio interno la complessità del mondo. Impara colui che si accorge dei propri errori, e ne sa far tesoro, mutando il proprio comportamento.
Questo apprendere è però tutt’altro che un’ascesa gioiosa: l’esperienza del mondo è una cognizione del e nel dolore, perché noi impariamo soprattutto dalle delusioni. Imparare è quindi allontanarsi dal gioco (ludus) infantile, non il-ludersi, ma de-ludersi, diventare seri, adulti. Si tratta di un’esperienza dolorosa, che è difficile trasmettere a chi ancora non l’ha fatta. Ad ogni gioventù appartiene la convinzione e l’illusione di potersi sottrarre alle regole valse per le generazioni che l’hanno preceduta, perché ogni giovane pensa di costituire un’eccezione che cade fuori delle regole comuni. Ebbene, «il frutto dell’esperienza è persuadere a’ giovani, quanto alla vita umana, che il generale si verifica effettivamente in tutti o quasi tutti i particolari» (1387).
Apprendere significa quindi andar contro la tendenza naturale di ogni essere vivente, contro il suo amor proprio, che lo conduce ad «immaginarsi di essere il primo ente della natura e che il mondo sia fatto» per lui. Tutto ciò accade, dice Leopardi, ad «ogni specie d’animali», ma anche ad ogni singolo individuo, che ritiene di «essere il primo ente» rispetto agli altri. Alla base di questa auto-collocazione al centro e al di sopra, c’è la convinzione che nel nostro caso le regole valide per tutti gli altri possano subire un’eccezione. Sia chiaro: l’attribuzione di uno straordinario valore alla propria esistenza non è una banale forma di arroganza, ma la conseguenza di una contraddizione strutturale enunciata da Pascal con splendida semplicità: «Ognuno è a se stesso un tutto, perché, lui morto, tutto è morto per lui. Per questo ognuno crede di essere tutto a tutti» (1962, pp. 254, 121).
Apprendere significa andare nella direzione opposta, scoprire dolorosamente che non esistono eccezioni. Prima o poi ogni uomo dovrà apprendere che anche la sua esistenza non cade fuori della regola, non costituisce un’eccezione. Se quindi l’amor proprio ci spinge a collocarci al centro dell’universo, ad assegnarci una posizione eccezionale, fare «esperienza» vuol dire riconoscere che siamo solo un punto tra i tanti, una particella anonima e fungibile in un universo impersonale. Il Copernico delle Operette morali illustra con grande chiarezza i costi della rivoluzione che da lui prende il nome, spiegando che cosa significhi essere sradicati dal centro:
Ma ora se noi vogliamo che la Terra si parta da quel suo luogo di mezzo; se facciamo che ella corra, che ella si voltoli, che ella si affanni di continuo, che eseguisca quel tanto, né più né meno, che si è fatto di qui addietro dagli altri globi; in fine, che ella divenga del numero dei pianeti; questo porterà seco che sua maestà terrestre, e le loro maestà umane, dovranno sgomberare il trono, e lasciar l’impero; restandosene però tuttavia co’ loro cenci, e colle loro miserie, che non sono poche (I, 169).
Partirsi dal luogo di mezzo vuol dire abbandonare il posto del re ed entrare nel «numero dei pianeti»: sia la Terra (che si riteneva «imperatrice del mondo») che gli uomini (che si reputavano «più che primi e più che principalissimi tra le creature terrestri») vengono improvvisamente proiettati nell’anonimato della periferia, e devono «darsi a correre, in cambio di stare a sedere agiatamente; e darsi ad affaticare in vece di stare in ozio: massime a questi tempi; che non sono già i tempi eroici» (ibid.).
Questo sradicamento dal centro colpisce anche il singolo. Ogni uomo, infatti, attraversa una fase tolemaica, che lo fa simile al pazzo ateniese, che credeva che tutte le navi che arrivavano al Pireo gli appartenessero. Per l’individuo apprendere significa diventare copernicano, abbandonare «quella nostra follia di credere che tutta la natura senza eccezioni sia destinata ai nostri usi e consumi» (Fontenelle 1984, p. 43). Apprendimento, auto-relativizzazione e delusione vanno di pari passo e l’uomo di mondo è colui che è capace di non eccettuare:
Si può dire che la cognizione del mondo, la furberia, la filosofia ed anche generalmente lo stesso talento, consiste in gran parte nella facoltà ed abito di non eccettuare. Il giovane si trova tradito, deriso dietro alle spalle [...]. ingannato, perseguitato [...] da questo e da quell’uomo da cui meno se lo aspettava, da un amico [...]. S’egli ha talento, dopo due o tre esperienze, ed anche alla prima, conchiude che non bisogna fidarsi degli uomini, che tutti appresso a poco sono malvagi, ne deduce de’ risultati generali sulla natura del mondo e della società» (1866; corsivo mio).
Conoscere il mondo vuol dire capire che «la virtù è il patrimonio dei coglioni», e che «il giovane per bennato, e beneducato che sia, pur ch’abbia un tantino d’ingegno, è obbligato poco dopo entrato nel mondo (se vuol fare qualche cosa, e vivere) a rinunziare quella virtù ch’avea pur sempre amata» (I, 190). E questo è ciò che «accade sempre e inevitabilissimamente», questa è la regola che non ammette eccezioni. La natura del mondo e della società è tale che, per esserne cittadini pleno iure, «è assolutissimamente necessario d’essere birbo». Ed è bene adeguarsi al più presto. Il giovane, se è di talento vivace, capirà subito, mentre, se «è di corto talento, dieci, venti esperienze non basteranno a condurlo a questi risultati» e «considererà, quello che gli è accaduto, e sempre gli accade, come tante eccezioni», non riuscendo a liberarsi mai dalle illusioni.

2. Uno strano machiavellismo

La convinzione del carattere insieme necessario e doloroso dell’apprendere conduce Leopardi a concepire l’idea dei Pensieri, una collana di centoundici aforismi concentrati sul problema di che cosa significhi «fare esperienza del mondo». Il «machiavellismo di società», cui si ispira il progetto dei Pensieri, nasce da un desiderio di smascheramento e vendetta, in coerenza con il proposito, già una volta confessato al Giordani (alludendo alle Operette), di vendicarsi «del mondo, e quasi anche della virtù» (I, 1109).
Leopardi parla per fatto personale. Egli stesso confessa, proprio nel primo pensiero, di essere stato un giovane «di corto talento», che ha «lungamente ricusato di creder vere» affermazioni come quelle secondo cui «il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi». L’impatto con l’esperienza del mondo è stato doloroso e violento, perché la propensione dell’animo non era quella «di odiare gli uomini, ma di amarli». Gli uomini prigionieri di questa illusione, «i buoni e i magnanimi», sono, in una società governata dalla bassezza d’animo e dalla malvagità, dei «corpi estranei», contro i quali si esercita un rigetto collettivo. Essi sono detestati perché «ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi».
Quello di Leopardi è quindi uno strano machiavellismo: i buoni e i magnanimi sono degli inetti, condannati dalla «loro natura immutabile» a «non potere apprendere», e quindi «a riuscire male con gli uomini» (XIX), ad essere continuamente ingannati dal «vano linguaggio del mondo», incapaci come i fanciulli o gli stolti di raccordare i detti ai fatti (XXIII). Ma questa discordanza tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, già denunziata dal Machiavello delle Operette, è un difetto della virtù o un difetto degli uomini? Questa disgrazia dei buoni e dei magnanimi è colpa loro oppure dei birboni? Se nel famoso Dialogo il mondo non è galantuomo, la colpa è del galantuomo oppure del mondo? Leopardi sembra mettere sotto accusa i buoni e i magnanimi, ma il suo proposito è esattamente l’opposto: deridendo l’incapacità di apprendere dei buoni denuncia l’indegnità del mondo. Questa indegnità accompagna il mondo dalle origini, così come il disprezzo per coloro che non apprendono è antico e diffuso:
Non fa molto onore, non so s’io dica agli uomini o alla virtù, vedere che in tutte le lingue civili, antiche e moderne, le medesime voci significano bontà e sciocchezza [...] Tanta stima della bontà è stata fatta in ogni tempo dalla moltitudine; i giudizi della quale, e gli intimi sentimenti, si manifestano, anche mal grado talvolta di lei medesima, nelle forme del linguaggio. Costante giudizio della moltitudine, non meno che, contraddicendo al linguaggio il discorso, costantemente dissimulato, è, che nessuno possa eleggere, elegga di essere buono: gli sciocchi sieno buoni, perché altro non possono (XLVI; corsivo mio).
Da un certo punto di vista la moltitudine, che accosta i buoni agli sciocchi, ha ragione, perché sia gli uni che gli altri sono incapaci di apprendere. Di fronte al ripetersi delle delusioni, essi pensano di essere stati sfortunati, di essersi imbattuti in circostanze eccezionali, e vanno avanti come se nulla fosse accaduto. L’uomo buono e magnanimo, che non si adegua all’infamia del mondo, diventa ben presto, proprio per questa sua resistenza, inviso agli occhi della moltitudine. Essa, infatti, di fronte a «quelle cose che altrimenti gli converrebbe ammirare ride; e biasima, come la volpe d’Esopo, quelle che invidia» (CVI). Ammirare qualcuno è scomodo ed impegnativo, e quindi, invece di ammirare, conviene deridere, trasformare le qualità altrui in difetti, in tratti ridicoli: «Una consuetudine generosa, una azione eroica, dovrebb’essere ammirata: ma gli uomini se ammirassero, specialmente negli uguali, si crederebbero umiliati; e perciò, in cambio d’ammirare, ridono» (ibid.).
La lega dei birbanti è quindi molto estesa e ben organizzata, ma soprattutto capace di screditare le «creature d’altra specie», di far scomparire gli esempi scomodi. Dice Cicerone: «Ci sono quelli che lodano solo ciò che pensano di poter imitare». E proprio partendo da questa massima Montaigne aveva osservato quanto fosse difficile «non dico la pratica, ma l’idea stessa della virtù»:
I nostri giudizi sono anch’essi malati e seguono la depravazione dei nostri costumi. Io vedo la maggior parte degli ingegni del mio tempo adoperarsi in ogni modo ad oscurare la gloria delle belle e generose azioni antiche, dandone qualche bassa interpretazione e inventando per esse occasioni e cause vane [...] per quel vizio di riferire la loro opinione alla loro misura, oppure, come sono più propensi a credere, perché non hanno la vista abbastanza acuta e abbastanza chiara per concepire lo splendore della virtù nella sua purezza originaria, né il loro occhio vi è abituato (Montaigne 1966, I, XXXVII, pp. 302-303; corsivo mio).
Questa denunzia è ricorrente: anche Hegel (1981) e Nietzsche (1968), denunciando il punto di vista del cameriere e il risentimento, hanno mostrato che l’angustia mentale e l’invidia riescono a far scomparire la grandezza d’animo, perché è sempre meglio presentare come acerba l’u...

Indice dei contenuti

  1. Premessa. Il pensiero e i luoghi
  2. Il problema dell’eminenza meridionale
  3. Non mentire né rassegnarsi
  4. Riferimenti bibliografici