L'Impero romano. 1
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L'Impero romano. 1

  1. 362 pagine
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L'Impero romano. 1

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«L'Impero romano, lungi dall'essere la roccaforte della conservazione, è piuttosto l'immagine della disgregazione di un mondo, la storia della classicità che si disfa e muore: il fatto sociologico più rilevante nella storia della nostra cultura.» In quest'opera, Santo Mazzarino affronta i grandi temi della civiltà occidentale, dal saeculum Augustum alla fondazione degli Stati romano-barbarici nel V secolo d.C., in una sintesi che salda la storia dell'Impero alla storia della Chiesa cristiana. Il racconto della cultura romana, dell'economia, della religione e la storia politica e militare si intrecciano in questa organica e brillante narrazione dell'apogeo e della lunga crisi del mondo romano. Questo straordinario classico della storia antica è firmato dal più autorevole dei suoi studiosi.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116791
Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

Capitolo secondo. La rivoluzione spirituale: ψυχή ed ἐξουσίαι (Paul., Rom. 13, 1)

19. La grande antitesi: gli «evangelii di Augusto» (OGIS 458, 40) e l’evangelio di Gesù. La Palestina all’epoca di Gesù. Il logion «Rendete a Cesare»

Se la nostra interpretazione della tavola di Heba (cfr. cap. prec.; infra, App. i) coglie nel vero, noi possiamo definire l’epoca di Tiberio, nella sua ultima fase, come una definitiva rinuncia ad alcuni motivi che avevano caratterizzato l’atteggiamento spirituale e la concezione sociale di Augusto. In un certo senso, questo giudizio può estendersi a tutta l’epoca tiberiana: la rigida distinzione fatta da Tiberio (iscrizione di Gytheion) fra la εὐσέβεια per il morto Augusto e le semplici τιμαί per l’imperatore vivente significa la rinuncia ad una gran parte dell’ideologia augustea del culto imperiale: a differenza da Tiberio, l’Imp. Augustus vivente aveva ricevuto nelle province templi e culto, accanto alla dea Roma, ed in Italia sacerdoti e culto, di cui il documento più insigne è il calendario cumano (C X, 8375) delle ἡμέϱαι Σεβασταί. Ed anche nel semplice culto del numen Augusti, com’esso è a noi attestato per esempio dall’ara di Narbona, si erano fatte sentire concezioni sociali-religiose tipicamente augustee: nella citata ara di Narbona, avvicinamento, di equites a plebe e di libertini nell’offerta del sacrificio (tre equites e tre libertini come rappresentanti della plebs), avvicinamento della plebs ai decurioni nei iudicia (quod iudicia plebis decurionibus coniunxit): quella stessa esigenza di componimento di «classi» sociali che ispirava, su un piano di gran lunga più rilevante, l’avvicinamento di senatori e cavalieri nelle centurie intitolate ai morti principes iuventutis Gaio e Lucio Cesari. Della teologia (se così possiamo chiamarla) del culto imperiale augusteo, Tiberio conservò la parte che gli sembrava più costituzionale, vale a dire l’adorazione per l’imperatore morto, sì che il culto del divus Augustus si aggiunse a quello del divus Iulius; ma la limitazione del culto dell’imperatore vivente a semplici τιμαί, e la scomparsa (d’intorno al 30) dell’ideologia dei morti principes iuventutis come titolari delle centurie destinanti consoli o pretori, erano entrambe il segno di una parziale «demitizzazione» della teologia imperiale augustea. L’imperatore vivente scendeva dal mondo degli dèi al costituzionale (e razionale) mondo degli uomini mortali. Ancora una volta: si demitizzava, se pur in parte, quell’esaltazione religiosa che, dal 27 a.C. in poi, aveva accompagnato la fondazione del principato.
Ma quell’esaltazione religiosa, che aveva «fatto» il principato, non era un capriccio di Augusto e degli Augustei. Essa era radicata nel travaglio spirituale di tutto il mondo antico, da gran tempo sconvolto e stanco. Tiberio riduceva il principato a forme costituzionali, strappate alla stanca attesa religiosa dei tempi augustei: ma non poteva sopprimere quella stanchezza e quella soteriologica attesa. Qual era stato lo sviluppo più originale del culto di Augusto vivente? Noi abbiamo, a questo riguardo, un importantissimo documento epigrafico bilingue, pervenuto frammentariamente in varie copie: una lettera del proconsole d’Asia nel 9 a.C., Paullus Fabius Maximus1, e le connesse deliberazioni del koinon d’Asia. Questa iscrizione, che introduce nella provincia d’Asia il calendario giuliano-asianico, ci rivela l’aspetto più significativo del nuovo culto: l’importanza ideologica del giorno natale dell’imperatore (ἡμέϱα Σεβαστή) l’iscrizione è tutta un inno all’èra nuova, che è cominciata con Augusto. «Ormai gli uomini non si pentivano più d’esser nati», ed il giorno natale di Augusto (che viene introdotto come principio del nuovo anno giuliano-asianico) si può considerar uguale, quanto a importanza, «al principio del mondo». Il proconsole del 9 a.C., che così formulava l’interpretazione del principato augusteo, era imparentato con Augusto, e può considerarsi un autorevolissimo esponente della religiosità romana; egli morì poco prima di Augusto; ma il concetto del saeculum Augustum (Suet., Aug. 100, 3, cfr. supra, § 4), concetto che fu espresso subito dopo la morte di Augusto, rientra in qualche modo nella ideologia espressa dalla sua lettera e dalle applicazioni di essa in terra asianica. Per questa concezione, «il giorno natale del dio Augusto» (23 sett. 63 a.C.) «fu, per il mondo, il principio degli evangelii» (annunzi di felicità) «trasmessi per opera di lui (τῶν δι’ αὐτὸν εὐαγγελί[ων])». Anche in questo caso, solo oggi noi possiamo intendere appieno l’importanza di una tale «teologia» imperiale: solo oggi, perché nel 19402 è stato pubblicato il Feriale Duranum, uno dei più importanti testi papiracei provenienti dagli archivi della cohors XX Palmyrenorum di Doura Europos. Il Feriale Duranum si data al periodo 224/235 (224/227?) più che due secoli dopo la morte di Augusto: è un elenco di giorni sacri, ufficialmente osservati dall’esercito romano, giorni fra i quali emergono le ricorrenze di pubblici anniversarii3. Ma fra gli anniversarii di dies natales, quello di Augusto4 non occupa, nel Feriale Duranum, un posto maggiore che la ricorrenza di dies natales di altri imperatori. L’antica venerazione per i giorni 23 e 24 settembre è ridotta alla celebrazione del solo giorno 23 settembre, sommersa tra la folla degli altri anniversarii e conguagliata con essi. Lo spirito della esaltazione di Paullus Fabius Maximus se ne è andato: dov’è più il rilievo particolare del dies natalis augusteo, che gli uomini della cerchia di Paullus Fabius Maximus consideravano pari, per importanza, al principio del mondo? L’aspetto soteriologico del dies natalis di Augusto si era attenuato, nel corso della storia imperiale, in una rituale celebrazione. Non poteva essere altrimenti: ogni imperatore ha i suoi εὐαγγέλια, e fra questi molti εὐαγγέλια non si può isolarne uno, per porlo a fondamento di una rivoluzione spirituale. Per una rivoluzione spirituale, com’essa era chiesta dal secolare travaglio ellenistico-romano, occorreva un εὐαγγέλιον, che non fosse «divisibile» nel tempo, ma si ponesse alla fine dei tempi, che non «sminuzzasse» l’attesa soteriologica in una commemorazione, sia pure rituale, di plurimi anniversarii5. Solo in questo caso, un εὐαγγέλιον, avrebbe potuto sollevarsi all’altezza richiesta dagli uomini di Paullus Fabius Maximus: all’altezza e all’importanza del giorno della creazione del mondo. Ed un tale εὐαγγέλιον non poteva venire dall’esperienza religiosa-soteriologica del mondo classico greco-romano.
Nel grande impero, solo un popolo – senza dubbio, il più travagliato (e perciò il più ricco di vita religiosa) nella storia del mondo ellenistico-romano – restava estraneo all’ideologia del culto imperiale: il popolo giudaico. La sua attesa soteriologica si volgeva in senso messianico: essa si partiva dal messianismo profetico, e culminava ora nell’attesa del Figlio dell’Uomo, che sarebbe apparso, al compiersi dei tempi, come Messia. L’ellenismo aveva messo gli Ebrei a contatto con idee nuove; resurrezione dei corpi (alla maniera iranica) e astrologia erano entrate nella viva problematica del giudaismo; anche l’accentuato dualismo Jahve-Beliar si deve, forse, ad influssi iranici. E persino motivi pitagorici entravano fra le idee del nuovo giudaismo. Erano sorte, o sorgevano, quelle che lo storico Flavio Giuseppe chiamerà poi le «filosofie» degli Ebrei: preminenti su tutte, e già da tempo precisate, la «filosofia» dei Farisei – ellenisticamente preoccupati di precisare e completare la Thora, sicuri di una vita futura con distinzione dei buoni e dei malvagi – e la «filosofia» dei Sadducei, che viceversa si limitavano al puro rispetto della Thora scritta, e decisamente negavano, quasi epicurei del giudaismo, vita futura e resurrezione dei corpi. Ma messianismo e apocalittica erano sostanzialmente il volto di questo travagliato giudaismo. Nel 63 a.C. si era compiuto il grande fatto nuovo: Pompeo aveva distrutto lo stato seleucidico, aveva ordinato lo stato giudaico nel sistema dei territorii vassalli. Messianismo ed apocalittica si trovavano in presenza del grande fatto nuovo: gli pseudepigrafi «Salmi di Salomone», in un canto che sarà stato composto subito dopo il 48 a.C., vedevano in Pompeo il «serpente». A meno di un secolo di distanza dalla conquista di Pompeo, si verificò nel mondo giudaico l’avvenimento più rivoluzionario della storia mondiale: la predicazione di Gesù (biennale o triennale?) e la sua condanna (probabilmente nel 30 o 31; 27 o 29 o 33, secondo altri studiosi).
L’ambiente in cui s’inquadra la predicazione dell’evangelio di Gesù era a noi noto, fino ad alcuni anni fa, soprattutto dai testi neotestamentarii cristiani e dalle informazioni dello storico Flavio Giuseppe, il quale però solo occasionalmente6 ha fatto menzione di Gesù. Le condizioni in cui lo storico lavora sono, oggi, di gran lunga migliorate, in seguito alla scoperta, nel 1947 sgg., dei «manoscritti del Mar Morto»7. Noi possiamo finalmente intendere l’antico problema della «Palestina all’epoca di Gesù», se inquadriamo nella narrazione di Flavio Giuseppe questi «manoscritti del Mar Morto», provenienti da una setta giudaica (una «filosofia», direbbe Flavio Giuseppe) detta della Nuova Alleanza – una setta, la quale già nel suo nome ricorda il concetto neotestamentario della «Nuova Alleanza nel sangue del Cristo» (ἡ ϰαινὴ διαθήϰη ἐν τῶι αἵματί μου, Luc. 22,20; ἡ ϰαινὴ διαθήϰη ἐν τῶι ἐμῶι αἵματι, Paul., 1 Cor. 11,25; cfr. Marc. 14,24; Matth. 26,28). Manoscritti del Mar Morto, testi neotestamentarii, Antichità e Guerra giudaica di Flavio Giuseppe, vanno ormai studiati in un nesso inscindibile – pur tenendo conto della loro diversa ispirazione (rispettivamente: «protozelotica» [infra, App. ii], cristiana, farisaico-romanofila) e delle diverse epoche in cui i singoli testi furono redatti. Nella seguente esposizione si tenta una sintesi sulla base della considerazione unitaria dei testi suddetti; i dati illustrati (o, in qualche caso, addirittura rivelati) dai «manoscritti del Mar Morto» (secondo l’interpretazione che noi giustifichiamo infra, App. ii) sono segnati con asterisco.
La conquista pompeiana della Siria, nel 63 a.C., aveva dato Gerusalemme nelle mani del sommo sacerdote Ircano ii; le speranze di Aristobulo, fratello e accanito nemico di Ircano ii, erano andate deluse. Poco a poco, Ircano ii e la gran parte dei Farisei assunsero, nel paese, il ruolo di leali alleati dei Romani; ministro di Ircano ii era l’idumeo Antipatro, coi suoi figli Fasael ed Erode. Il territorio giudaico comprendeva, grosso modo, Perea e Giudea, e d’altra parte Galilea; era nel mezzo la Samaria, eterna dissidente dalla comunità cultuale di Gerusalemme, ed indipendente dal territorio giudaico*. Nel 47 a.C. si verificò il primo grande conflitto tra il jahvismo intransigente e la tendenza romanofila rappresentata da Antipatro e dai suoi due figli. Un galileo, di nome Ezekia, si ribellò; Erode lo fece uccidere; i sacerdoti non riuscirono ad ottenere che Ircano ii, sommo sacerdote, condannasse Erode per l’uccisione del ribelle. D’allora in poi, gli jahvisti di tendenza antiromana videro in Erode «l’uomo di menzogna», in Ircano ii il «sacerdote empio»; si cominciò a formare un movimento di pensiero, il quale accentuava il dualismo fra mondo della luce e mondo delle tenebre; esso sperava ansiosamente nella caduta del dominio romano, e nella corrispondente sconfitta di Erode e del suo sostenitore Ircano ii. Così, attorno alla figura del ribelle giustiziato da Erode e dei suoi seguaci, si creò un’atmosfera di postuma esaltazione. Nel 40 a.C. Ircano ii fu spodestato da Antigono, figlio del morto Aristobulo; Antigono gli inflisse una mutilazione («vendette sul suo corpo di carne»)*, che lo rendeva incapace di assumere oltre il sommo sacerdozio; Erode fuggì a Roma; la vittoria di Antigono si era compiuta con l’aiuto dei Parti, e dunque assumeva un chiaro carattere di ostilità ai Romani. Ma nel 37 a.C. Erode, che i Romani avevano già nominato re di Giudea, riconquistò il paese; Antigono fu ucciso; Erode godeva la piena fiducia del pacator orbis Antonio, prima, e poi (dal 30 a.C.) di Ottaviano, divenuto ormai unico signore della res publica romana. Con l’aggiunta della Samaria, di territori del Nord-Est (Gaulanitis, Trachonitis, Batanaia), delle città costiere, delle poleis di Gadara e Hippos, il nuovo stato di Erode, ordinato e come protetto da Ottaviano, formò un grande complesso unitario di tendenza romanofila, di coloritura ellenistica*. Ma i vecchi nemici di Erode, che non riuscivano a dimenticare la condanna di Ezekia il galileo, continuavano a vedere nello stato erodiano il mondo delle tenebre; il loro movimento predicava la Nuova Alleanza tra Jahve e il suo popolo, e sperava in una sconfitta dei Romani ad opera dei Parti; il loro rituale era caratterizzato dal battesimo e dai pasti in comune*. Erode, con le sue nuove fondazioni (soprattutto Samaria-Sebaste e Cesarea sulla costa), diede un carattere ellenistico allo stato; a Gerusalemme costruì a nuovo il Tempio, nel cui penetrale nessun estraneo alla comunità giudaica poteva entrare8 – ma d’altra parte fondò un tempio di Augusto*; gli uomini della Nuova Alleanza, naturalmente, non amavano questa città erodiana, «città di vanità» costruita da un «uomo di menzogna»*. Nel 4 a.C. Erode morì. Il suo regno andò diviso fra tre suoi figli: Archelao, etnarca, ebbe Giudea, con Samaria e Idumea, ma fu deposto nel 6 d.C. da Augusto, e la Iudaea divenne procuratela romana; Erode Antipa, tetrarca, ebbe Galilea e Perea, territori in cui si mantenne fino al 39 d.C. (in questo anno fu deposto da Caligola); Filippo, tetrarca, ebbe i territori del Nord-Est (Gaulani...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Opere generali sulla storia dell’impero
  2. Parte prima. Saeculum Augustum
  3. Capitolo primo. Dopo Cesare
  4. Capitolo secondo. Dalla «potestas» triumvirale alla «potestas» eccezionale di Ottaviano
  5. Capitolo terzo. La fine della «potestas» eccezionale e lo stato dell’«auctoritas»
  6. Bibliografia e problemi
  7. Parte seconda. L’epoca giulio-claudia. Il «Luxus» senatorio e la rivoluzione borghese
  8. Capitolo primo. Il principato di Tiberio
  9. Capitolo secondo. La rivoluzione spirituale: ψυχή ed ἐξουσίαι (Paul., Rom. 13, 1)
  10. Capitolo terzo. La rivoluzione borghese e la riduzione del «denarius»
  11. Bibliografia e problemi
  12. Parte terza. I Flavii e gli Antonini: l’εὐταξία come ideale umanistico
  13. Capitolo primo. I Flavii e gli Antonini
  14. Bibliografia e problemi