IX. Nascita degli eroi italiani
Si è sempre attribuita grande importanza alla natura inattesa del trionfo garibaldino in Sicilia nel 1860. Come abbiamo visto, tuttavia, è giusto parlare di sorpresa solo in considerazione della disorganizzazione iniziale e dell’enormità del compito che la spedizione si era prefissa. Da altri punti di vista, Garibaldi e coloro che lo affiancarono al comando avevano in realtà una strategia che sul piano militare era adeguata alla instabile situazione del Meridione rurale, e sul piano politico e sociale rifletteva una chiara consapevolezza della necessità di ottenere il sostegno anche materiale dei siciliani comuni – e in seguito dei napoletani.
Com’è ben noto, i provvedimenti economici e sociali introdotti dalla dittatura di Garibaldi comportarono più di un problema1. Si deve però rilevare che quelle riforme costituivano solo un aspetto di una più generale strategia volta a incoraggiare il sostegno popolare, e in effetti l’attenzione agli aspetti pratici della rivoluzione siciliana venne affiancata da un forte appello alle emozioni della gente e da una serie di tentativi tesi a dare visibilità alla rivoluzione utilizzando feste e altre cerimonie in cui si celebrava l’«appartenenza» alla nazione, al fine di favorire il processo di identificazione popolare con il nuovo regime e con l’idea di «Italia» più in generale. Ciò che qui più sorprende è il tentativo di coinvolgere settori il più possibile ampi della popolazione e il ricorso all’uso dell’iconografia religiosa. In particolare, Garibaldi e il suo governo fecero continui sforzi per non offendere la Chiesa e il clero siciliani, e molte delle loro azioni mostrano che vi fu un esplicito riconoscimento del fatto che nel Sud si sarebbe potuto realizzare ben poco senza il sostegno della Chiesa.
La religione della rivoluzione
Come già nel 1848-49 e nel 1859, l’avanzata di Garibaldi attraverso la Sicilia e fino a Napoli venne accompagnata da una serie di entusiasmanti discorsi e proclami. Proprio come aveva fatto in apertura della campagna di Lombardia nel 1859, egli rivolse un appello alla popolazione perché si unisse a lui. Questa volta, tuttavia, non fece riferimento ai miti settentrionali di Pontida e di Legnano, ma all’episodio centrale della storia «nazionale» siciliana, la duecentesca rivolta dei Vespri contro il governo francese2: «All’armi tutti! e la Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera un paese dagli oppressori»3. Durante tutto il corso della campagna siciliana, fece riferimenti ai Vespri e all’orgoglio dei siciliani. Alla fine dei combattimenti per Palermo si rivolse così alla folla assembrata sotto il palazzo Pretorio: «Io e i miei compagni siamo festanti di poter combattere, accanto ai figli del Vespro, una battaglia che deve infrangere l’ultimo anello di catene con cui fu avvinta questa terra del genio e dello eroismo» (il discorso venne anche pubblicato dal «Giornale di Sicilia» il 2 giugno)4. Qualche tempo dopo, parlando ai «cittadini di Palermo», disse che durante la battaglia per conquistare la città aveva capito «che avev[a] al [suo] cospetto i discendenti del Vespro»5. I siciliani erano «un popolo grande e generoso [...]. In questa classica terra, il cittadino s’innalza sdegnoso dalla tirannide, rompe le sue catene, e con ferrei frantumi trasformati in daghe, combatte gli sgherri»6. Più di una volta li ringraziò per il loro entusiasmo, per i «fratelli della città» che avevano combattuto a fianco dei «robusti e coraggiosi figli del campo», per il sostegno che gli era arrivato dai preti («Che differenza [con] il dissoluto prete di Roma») e per l’atteggiamento di sfida mostrato dalle donne, «belle di sdegno e di patriottismo sublime»7. «La Sicilia è tale paese», scrisse nel Proclama alle donne siciliane,
che non abbisogna di ricorrere alla storia degli stranieri per trovare esempio di virtù cittadine di ogni genere. Il sesso gentile di tutte l’epoche, ha dato prove in quest’Isola benedetta da Dio di tale coraggio, da stupire il mondo [...]. Il Vespro, fatto unico nella storia delle nazioni, ha pur veduto, a fianco dei combattenti per l’indipendenza patria, le vezzose isolane.
«Donne vezzose e care della Sicilia», continuava, «udite la voce dell’uomo che ama sinceramente il vostro bel paese a cui è vincolato di affetto pell’intiera sua vita», un uomo che non aveva mai chiesto niente per sé, ma solo per «la Patria comune». Richiamando l’esempio di Adelaide Cairoli di Pavia («ricchissima, carissima, gentilissima matrona») che aveva mandato i suoi quattro figli a combattere e a morire per l’Italia, le esortò: «Donne, mandate qui i vostri figli, i vostri amanti!»8.
I discorsi e i proclami che Garibaldi rivolse ai siciliani sono interessanti in quanto seguono una formula canonica affermatasi nel Risorgimento – con i loro riferimenti all’eroismo innato, a una storia gloriosa e alla rinascita nazionale – e appaiono pensati per blandire e suscitare l’entusiasmo di un uditorio particolare, fosse esso composto dai siciliani in generale o da donne, contadini o preti. Come nel 1859, inoltre, i discorsi di Garibaldi si ponevano due obiettivi collegati, in quanto miravano a rappresentare e a rendere popolare un ideale di italianità virile, popolare e inclusivo e, in tal modo, a cercare di rendere attraente ed emotivamente coinvolgente la prospettiva di arruolarsi volontari per combattere in suo nome; parallelamente, altri soggetti (le donne) venivano incoraggiati a partecipare fornendo il loro sostegno materiale e morale alla campagna garibaldina. In questo modo, il consenso politico veniva trasformato in un impegno politico attivo. Particolarmente significativa, poiché alquanto insolita, è poi la specifica attenzione rivolta ai preti al fine di spingerli a unirsi a Garibaldi. Infatti, uno dei suoi primi proclami, emanato in apertura della campagna di Salemi (o forse addirittura prima, a Marsala), conteneva un appello ai «preti buoni» affinché seguissero «la vera religione di Cristo», e attribuiva proprio ad essi un ruolo guida nella guerra «per combattere gli oppressori» e nel compito di liberare dalla dominazione straniera la Sicilia («la nostra terra [...] nostri figli [...] nostre donne [...] nostro patrimonio e [...] noi!»)9.
Il proclama di Garibaldi da Marsala riutilizzava una delle più vivide espressioni del suo appello del maggio 1859 al «popolo Lombardo»: «chi non impugna un’arma, è un codardo o un traditore della patria»10. A Palermo, ripeté lo stesso messaggio: «Armi adunque, ed armati, arrotar ferri e preparar ogni mezzo di difesa ed offesa [...]. Armi ed armati, ripeto [...]. Chi non pensa ad un’arma in questi tre giorni è un traditore od un vigliacco»11. Quando avanzò verso lo stretto di Messina e poi verso Napoli, i suoi proclami cominciarono a essere indirizzati ai «napoletani»: «Io vorrei [...] evitare fra Italiani lo spargimento del sangue, e perciò mi dirigo a voi, figli del continente Napoletano. Io ho provato che siete prodi, ma non vorrei provarlo ancora. Il sangue nostro, noi lo spargeremo insieme sui cadaveri del nemico dell’Italia, ma tra noi [...] tregua!»12. «Noi vinceremo senza voi; ma io sarei superbo di vincere con Voi», scrisse ai «Militari napoletani» in un volantino a stampa che conteneva anche un manifesto politico inneggiante alla rivolta contro il re («il destino è nelle vostre mani, o soldati di Napoli!»), facendo appello all’orgoglio e al sentimento religioso della popolazione. «Voi potrete domani essere rispettati come i soldati del primo paese del mondo, come soldati italiani», si leggeva nel programma, mentre chi avesse opposto resistenza a questa prospettiva si sarebbe trovato a combattere contro l’Italia, la Francia e l’Inghilterra e contro la Provvidenza stessa, che aveva protetto l’Italia, posto Napoleone sul trono e «salvato Garibaldi da mille morti»13. I riferimenti insolitamente positivi alla Francia e a Napoleone sono per noi di particolare interesse, in quanto presumibilmente riflettono la consapevolezza della nostalgia dei napoletani per il bonapartismo, in particolare nella sua versione murattiana.
La dittatura faceva appello al popolo anche attraverso la stessa figura di Garibaldi. Nel 1860 per il Meridione egli non era semplicemente il dittatore della Sicilia (e poi di Napoli), ma divenne anche il simbolo della rivoluzione e, assieme al re piemontese, del «risorgimento» italiano. Come si legge in una lettera al giornale radicale «Il movimento», «la rivoluzione siciliana trionfò con lui e per lui»14. Proseguendo la prassi adottata durante il 1859 in città come Varese e Como, le apparizioni pubbliche di Garibaldi e le altre occasioni commemorative a lui associate divennero occasione per grandi feste pubbliche. Come per il 1859, ovviamente, queste e altre scene di entusiasmo per Garibaldi ci sono note in gran parte grazie alle descrizioni di osservatori parziali, che avevano interesse a esagerare il grado di coinvolgimento popolare e l’ampiezza della partecipazione; ciò nonostante, possiamo trarne utili indicazioni sull’atmosfera frenetica che si era determinata e sulle modalità con cui veniva pubblicamente alimentato e rappresentato il culto per Garibaldi.
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