1.
Occhio ai fantasmi
Le vecchie raccolte di documenti, le vecchie storie d’Italia, o dell’una o dell’altra città italiana, pullulano di cognomi risalenti ai primi secoli del medioevo. Percorrere quelle raccolte e quelle storie è un po’ come aggirarsi nelle stanze degli antichi castelli: ad ogni passo si fanno scoperte appassionanti; ma può anche succedere di cadere in qualche trabocchetto, e magari di incontrare un fantasma. Eccone tre esempi, rappresentativi delle principali tipologie in cui rientrano i moltissimi che si potrebbero aggiungere.
Il primo incontro è col cognome Vaistrini, portato in Romagna da un uomo di nome Pellegrino nell’anno 539, quando, secondo un papiro ravennate, una certa signora Tulgila gli vende un terreno nella zona di Faenza. Questo Pelegrino Vaistrini, scritto così, in volgare all’interno di un documento ovviamente steso in latino, meno di un secolo dopo la data convenzionale della caduta dell’Impero romano, ha suscitato viva soddisfazione in alcuni cultori delle prime tracce della nostra lingua italiana. Cito da un manuale liceale del 1916: «Il nome e il cognome sono trascritti tali e quali venivano pronunciati parlando, senza che lo scrittore faccia il menomo tentativo di latinizzarli». In effetti una coppia di nome e cognome italiani nel 539 costituirebbe uno scoop... se fosse vera. Grazie alla sua antichità il papiro ravennate è stato studiato e pubblicato da più di un erudito. Il primo che lo ha fatto con sufficiente attenzione – Gaetano Marini, nel 1805 – di fronte allo sgorbio che il testo presenta dopo il prenome del compratore si è insospettito. In seguito ad alcuni confronti con documenti e sgorbi analoghi, ha concluso in favore di una lettura ben più persuasiva: non Pelegrino Vaistrini, in italiano, bensì, in latino, Peregrino viro strenuo. Insomma la signora Tulgila, senza cognome, vende la sua terra non al signor Pellegrino Vaistrini, ma all’egregio signor Pellegrino, anche lui senza cognome. Vaistrini è un fantasma.
Ancora si aggira fra noi un fantasma di diversa fattura, chiamato Garibaldo Tosabarba, presente in un documento dell’anno 723, secondo il quale egli prende in affitto da un prete della cattedrale di Cremona un pezzo di terra vicino al torrente Morbasco. Tosabarba sarebbe la prova dell’esistenza precoce di cognomi composti con un verbo, in una sfera linguistica non più latina ma – nuovamente – d’impronta volgare. Dunque, un’attestazione onomastica anche questa di grande antichità e valore. Peccato: il documento del 723 fa parte di un gruppo di falsi fabbricati oltre un millennio più tardi da un altro prete della cattedrale di Cremona, Antonio Dragoni. Nel clima d’interesse per i Longobardi risvegliato, nel 1822, dall’Adelchi di Manzoni, Dragoni ha pensato bene di munire la sua amata chiesa e città di adozione – era un piacentino – di quell’apparato di carte d’età longobarda che le ingiurie del tempo avevano distrutto; e già che c’era, ha infarcito i suoi falsi di notizie precise: tante date e tanti nomi. In conclusione, per noi nessun cognome Tosabarba all’inizio dell’VIII secolo.
Un fantasma più o meno contemporaneo a Tosabarba è Oldradi. Ha smesso di circolare un po’ prima, ma è stato anche molto più illustre, perché corrisponde niente meno che a un arcivescovo di Milano, Pietro Oldradi, il quale nel 796 scrive una lettera a Carlo Magno per raccontargli la traslazione, avvenuta all’inizio del secolo, delle ossa di sant’Agostino dalla Sardegna a Pavia. A parte l’aspetto che riguarda le reliquie e il culto dei santi, sotto il profilo linguistico ecco un’altra preziosa attestazione di un antico cognome italiano, benché in questo caso registrato nella forma latina: Petrus Oldradus. Ulteriore delusione: la lettera all’imperatore Carlo, che fra l’altro nessuno – lui vivente – chiamava Magno, è anch’essa un falso, commissionato verso il 1587 a Roma dal chierico milanese Giacomo Oldradi. In quell’anno egli la fece inserire in una Vita di sant’Agostino scritta da un collega, opera che mentre celebrava il grande padre della Chiesa esaltava così anche il glorioso passato della famiglia Oldradi. Insomma il cognome Oldradi, di certo esistente nel 1587 (in realtà qualche secolo prima), non esisteva affatto al tempo di Carlo Magno e di Pietro, primo vescovo di Milano a portare questo prenome, senza alcun cognome.
Ma perché tornare su questi vaneggiamenti, siano essi piccoli trucchi di qualche imbroglione o imbarazzanti infortuni di qualche rispettabile studioso? Perché vicende come queste propongono con evidenza argomenti cruciali che dovremo affrontare nel corso del libro. Innanzi tutto, uno generale: il rapporto fra la storia dei cognomi e le sue fonti. Salvo che per le epoche più recenti, la pratica d’uso dei cognomi non si può infatti studiare direttamente ma solo tramite i documenti che li hanno registrati per scritto. Per l’alto medioevo ciò comporta – lo abbiamo appena visto – frequenti problemi di autenticità o anche solo di lettura. È vero che per i secoli successivi tali problemi si fanno meno frequenti e meno gravi; ma non tanto da permetterci di abbassare la guardia. Resta comunque il fatto che la registrazione di un cognome ha sempre implicato almeno una mediazione rappresentata dall’intervento del redattore del documento: un notaio, un impiegato comunale, un parroco, un ufficiale di stato civile; ma anche l’interessato o l’interessata stessi quando, più raramente, sono loro a scrivere il proprio nome e cognome. Ciò complica non poco le cose, e dovremo tenerne conto in ogni momento.
I nostri fantasmi meritavano del resto di essere evocati anche per un altro motivo, più immediato. Essi servono infatti a chiarire i termini della prima questione di fondo che dobbiamo porci. Quando hanno avuto origine i cognomi? O meglio, raffinando un po’ la domanda: quando hanno cominciato a comparire delle forme onomastiche che possiamo definire cognomi? Proprio i fantasmi possono suggerire, involontariamente, delle considerazioni utili.
Chi legge o inserisce, in buona o in mala fede, un cognome in un documento, autentico o falso, dell’VIII secolo, o addirittura dell’anno 539 (Vaistrini lo ha letto, in buona fede, un grande erudito, Scipione Maffei, nel 1727), nutre un’implicita convinzione pregiudiziale, che abbiamo visto diffusa e perdurante, e che costituirebbe un punto di partenza basilare per la nostra storia: c’erano cognomi già nei primi secoli del medioevo. Ebbene, questa convinzione è stata al centro di un attacco poderoso da parte di uno studioso contemporaneo di Maffei, e anche più grande di lui, Ludovico Antonio Muratori, il fondatore degli studi medievistici in Italia e massimo storico fra quelli che si siano mai occupati di cognomi italiani. Su questo attacco occorre soffermarsi un poco, perché permette di chiarire alcune fondamentali coordinate cronologiche. In una delle due dissertazioni di argomento onomastico comprese nelle sue Antiquitates Italicae (1740) Muratori ha scritto chiaro e tondo che i cognomi non hanno fatto la loro comparsa prima dell’anno Mille. Anzi, ha esposto un ragionamento inverso, ancora più radicale. Gli cedo la parola, o meglio la cedo al suo traduttore settecentesco:
Quello poi, a che particolarmente si dee por mente nella ricerca delle Antichità, si è, che ne’ tempi barbarici gl’Italiani si contentavano del solo Nome, né usavano quei che ora son chiamati Cognomi [seguono alcune citazioni per sostenere che l’uso dei cognomi risale a fine X, o piuttosto a inizio XI secolo] Chiunque pertanto è versato nelle antiche Memorie, confesserà, che appunto circa que’ tempi introdotto fu in Italia l’uso de’ Cognomi. Per conseguente, grossolanamente s’ingannano coloro che pensano di averli trovati ne’ Secoli precedenti, per incensare le illustri Famiglie de’ nostri tempi; e sono imposture o sogni quei che si spacciano in alcune Genealogie, di modo che regolarmente s’ha da tenere per falsa qualunque Carta, che ce li rappresenta prima del Mille.
Dunque, non esistevano cognomi prima del Mille, e se un documento anteriore al Mille contiene un cognome, si tratta di un falso. È una conclusione molto netta e severa, che ci priva di un bel pezzo della nostra storia. Dobbiamo proprio accettarla senza riserve? Va sottolineato che Muratori si mostra soprattutto preoccupato della folla dei fantasmi, ben più numerosi dei tre citati qui sopra, creati dall’ignoranza e dalla malizia degli incensatori prezzolati dalle casate nobiliari. Dietro la sua posizione rigida c’è però, oltre alla riprovazione per la cialtroneria dei singoli, un altro e più profondo motivo. Egli era convinto – si tratta anzi di un aspetto centrale nella sua visione storica – che le origini della civiltà italiana non fossero nella Roma antica, secondo la classica e mai del tutto sepolta idea degli umanisti, ma nel medioevo, da cui tutto ricominciava; e ciò proprio perché durante il medioevo si erano verificati rivolgimenti tanto forti da creare una decisiva soluzione di continuità col mondo romano, una cesura sia nella realtà dei fatti che nella loro memoria.
La prima tappa del nostro cammino, cioè l’apparizione dei cognomi prima o dopo il Mille, ha molto a che fare con questo problema della cesura o della continuità rispetto a Roma e alla sua eredità culturale. Perciò occorre intraprendere il nostro percorso di analisi dei cognomi degli Italiani con un passo indietro verso il mondo antico. Come funzionava il sistema onomastico dei Romani?
2.
Tanti nomi o uno solo?
Un esempio. Cesare aveva tre nomi: Caio Giulio Cesare. Il primo, il praenomen, è il suo nome personale. Il secondo, il nomen gentilizio, è quello del suo clan nobiliare, la gens Iulia. Il terzo è il cognomen della sua famiglia, i Cesari, un ramo della gente Giulia. A questi tre nomi un nobile romano poteva aggiungerne un quarto: l’agnomen, una specie di ulteriore cognome, commemorativo di qualche grande impresa compiuta oppure designante un’avvenuta adozione. Publio Cornelio Scipione era chiamato anche Africano per le sue vittorie nella seconda guerra punica. Suo figlio adottò un membro della gens Aemilia, il quale divenne così Publio Cornelio Scipione Emiliano.
Questo sistema a tre nomi (con l’eventuale aggiunta del quarto) colpisce perché è una rarità entro l’onomastica dei popoli indoeuropei (per esempio i Greci: solo Eschilo, o Pericle, o Aristotele). Esso denota in modo assai caratteristico l’antroponimia romana anche perché riguarda principalmente la grande aristocrazia nel periodo della tarda Repubblica e del primo Impero, l’età cruciale della storia politica e l’età aurea della letteratura latina. Perciò si è soliti insistere, giustamente, sull’importanza di tale caratteristica dei tre nomi. Tuttavia essa non fu affatto unica e dominante sul lungo periodo. Intanto va rilevato che le donne avevano un solo nome, quello del clan gentilizio, se mai arricchito di qualche elemento distintivo (Iulia Maior, Iulia Secunda ecc.): un chiaro sintomo della loro irrilevanza individuale e della loro esclusione dalla vita pubblica. Inoltre, il sistema trinominale maschile ebbe una durata relativamente breve. Si era formato lentamente, sotto l’influsso etrusco, per diventare poi davvero diffuso solo fra II e I secolo a.C. E – quel che più ci interessa in vista dei cognomi italiani – andò rapidamente in crisi già durante i primi secoli dell’Impero.
La crisi ebbe due aspetti. Da un lato, si verificò la proliferazione dei nomi degli aristocratici, provocata dal desiderio di fregiarsi di legami illustri, anche da parte materna, e dall’obbligo di assumere i nomi dei testatori e delle testatrici da cui si ereditava. Questa pratica ha prodotto risultati spettacolari, fino al caso estremo documentato in un’iscrizione di Tivoli del 169 d.C., dove compare un console definito con ben 38 elementi onomastici. Benché tecnicamente sia ancora possibile distinguerli in prenomi, nomi e cognomi, è evidente che qui la tripartizione classica aveva ormai perso il suo significato: tanto è vero che in altre fonti il console in questione si trova citato, dovendo identificarlo più in fretta che con 38 nomi, in modi diversi, sia come Quinto Sosio Prisco che come Quinto Sosio Senecione, in entrambi i casi tralasciando il nome di suo padre Quinto Pompeo Sosio Prisco.
D’altro lato, e con una portata ben maggiore, si realizzò un fenomeno di segno opposto: il sistema a tre elementi subì una drastica semplificazione verso la riduzione ad uno. Ci si può domandare quanto ciò sia dipeso dall’affermazione del Cristianesimo, la religione dell’umiltà e dell’uguaglianza fra gli uomini, che certo non favoriva la moltiplicazione orgogliosa di nomi altisonanti. L’importanza capitale dell’influsso del Cristianesimo sull’onomastica europea, ed italiana in particolare, è indiscutibile. Basti pensare a quanti nuovi nomi derivati dalla cultura giudaico-ellenistica (il Nuovo Testamento – ricordiamolo – è scritto in greco) il Cristianesimo ha immesso nel repertorio classico della latinità pagana: nomi destinati poi a una fortuna immensa e duratura, sia come nomi di battesimo che come produttori di cognomi. Quattro esempi saranno sufficienti: Giovanni, Pietro, Anna, Maria (Zannini, Pieri, Annarumma, De Maria ecc.).
Ma il discorso si fa più complicato per quanto concerne la prevalenza dell’abitudine a chiamarsi con un solo nome, a prescindere dall’origine di quest’ultimo. Tale abitudine era ancora in embrione durante l’epoca più eroica dei primordi del Cristianesimo, quando la nuova religione era più rigida nei suoi principi di umiltà ed uguaglianza. Essa divenne preponderante solo dopo che i rapporti del Cristianesimo con la cultura di Roma pagana si erano fatti assai meno conflittuali. Appare dunque improbabile che a ridurre il numero dei nomi dei Romani sia stata, o sia stata solo, una radicale esigenza di cristiana mortificazione. Per spiegare il fenomeno bisogna piuttosto far riferimento a ragioni di ordine amministrativo e anche propriamente onomastico.
Innanzi tutto, i prenomi romani erano pochissimi: nell’insieme delle iscrizioni pervenute fino a noi se ne contano 56, di cui appena 17 erano portati dal 99% dei Romani d’età monarchica e repubblicana. Prenomi così poco capaci di distinguere fra loro le persone erano destinati a perdere vigore, e infatti nel corso del II secolo d.C. il loro uso era già in declino. Quanto ai nomi gentilizi, il colpo mortale contro la loro funzione fu inferto dalla Constitutio Antoniniana, la legge del 212 con cui l’imperatore Caracalla estese il diritto di cittadinanza a tutti gli abitanti liberi del mondo romano. I nuovi cittadini assunsero di norma il nomen della gens di Caracalla, Aurelius, trasmettendolo ai loro discendenti. Per varie altre cause, fra cui la manomissione di schiavi imperiali, si diffondevano intanto nella popolazione altri nomi gentilizi degli imperatori, come Iulius e Claudius; sicché ben presto il nome, limitandosi ad indicare genericamente una condizione non servile, finì, come il prenome, col perdere ogni capacità distintiva, e di conseguenza a declinare.
Nel contesto politico degli ultimi secoli del dominio di Roma, col disordine crescente dell’apparato amministrativo, si prestò sempre meno attenzione a registrare prenomi e nomi di fatto superflui, in tal modo accentuando la tendenza in corso. Alla fine di questo complicato processo culturale – di cui ho alquanto schematizzato le fasi e cancellato le sfumature – rimaneva dunque prevalentemente in vita quello che era stato il cognomen, il quale in tarda età imperiale si avviava a diventare un nome unico, mobile e in grado di rinnovarsi così da cercare di adempiere alla sua funzione di identificare gli individui. Siccome i Romani erano stati il popolo dai molti nomi, il processo che ho appena descritto non fu mai del tutto completato; ma intanto intervenne un nuovo...