Sociologia del lavoro
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Sociologia del lavoro

  1. 190 pagine
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Sociologia del lavoro

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Un'analisi sociologica delle trasformazioni del lavoro che caratterizzano la nostra epoca. Le diverse forme di scambio sociale che regolano il lavoro. Le condizioni concrete di qualità, durata e trattamento economico prevalentemente diffuse nei posti di lavoro. Gli effetti della globalizzazione e delle nuove forme di lavoro, dalla flessibilità alla diversità, dal 'saper fare' al 'saper essere'.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858118436
Categoria
Sociology

1. I significati del lavoro

1.1. La divisione del lavoro

L’età moderna ha avuto inizio con la divisione del lavoro. L’indagine di Durkheim (1962) ha fissato in maniera definitiva tale concetto sostenendo il valore morale della divisione del lavoro, ovvero che la specializzazione sia un fatto moralmente positivo e vada perseguita in quanto corrisponde al bisogno sociale della solidarietà in una società moderna altamente differenziata (Pizzorno, 1962). La solidarietà organica, prevalente nelle società moderne, deriva proprio dalla evoluzione della divisione del lavoro ed è distinta dalla solidarietà meccanica, che caratterizzava le società primitive ed era fondata esclusivamente sulla «coscienza collettiva» intesa come «insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media della stessa società». Mentre questa «implica una somiglianza tra gli individui», quella «presuppone la loro differenza». Se la solidarietà meccanica «è possibile soltanto nella misura in cui la personalità individuale è assorbita dalla personalità collettiva», quella organica moderna «è possibile soltanto se ognuno ha un proprio campo di azione, e di conseguenza una personalità» (Durkheim, 1962, p. 145).
Il metodo cui ricorre l’indagine durkheimiana appare fondamentale e del tutto originale: è il diritto in quanto «simbolo visibile» della solidarietà che consente una classificazione dei diversi tipi di solidarietà sociale e di stabilire in quale modo la divisione del lavoro costituisca un fattore di coesione sociale (ivi, pp. 85-86). La relazione tra diritto, solidarietà e divisione del lavoro rappresenta una parte rilevante dell’indagine del sociologo francese. Mentre il «diritto repressivo» costituisce la soluzione della rottura del vincolo della solidarietà meccanica, nella quale il reato è «ogni atto che, in qualche grado, determina contro il suo autore la reazione caratteristica denominata pena» (ivi, p. 93), poiché in tale tipo di solidarietà per uniformità «un atto è criminale quando offende gli stati forti e definiti della coscienza collettiva», nel caso della solidarietà organica invece «la natura stessa della sanzione restitutiva è sufficiente per mostrare che la solidarietà sociale alla quale corrisponde questo diritto è di tutt’altra specie» (ivi, p. 129). Nel «diritto restitutivo», come insieme del diritto domestico, contrattuale, commerciale, delle procedure, amministrativo e costituzionale, le relazioni sono regolate in maniera del tutto diversa: «esse esprimono un concorso positivo, una cooperazione che deriva essenzialmente dalla divisione del lavoro» (ivi, p. 138).
Già prima di Durkheim, peraltro, Locke, Ferguson, Smith, Marx ed altri avevano contribuito a fissare l’età moderna con la divisione del lavoro e il tipo di coesione sociale per interdipendenza che ne deriva. Se Durkheim offre una rappresentazione del lavoro collegata al concetto fondamentale di solidarietà, Locke fin dal 1690 ne aveva dato un significato di libertà, in quanto è il lavoro dell’uomo ad esprimere per il filosofo inglese il mezzo e il diritto di appropriazione individuale dei prodotti della terra ed è quindi all’origine della società civile1 (Macpherson, 1973).
Adam Smith nel primo «Abbozzo» della sua opera più famosa collegherà in maniera stretta il concetto di lavoro al suo significato di produttività/felicità poiché
solo la divisione del lavoro, in base alla quale ogni individuo confina se stesso in un particolare ramo di attività, può spiegare la superiore prosperità che si verifica nelle società civilizzate e che, nonostante le ineguaglianze della proprietà, si estende fino al più infimo membro della comunità (Smith, 2002, p. 70).
L’esempio «molto frivolo» cui ricorre a supporto di tale idea è quello noto della fabbricazione degli spilli:
se tutte le parti di uno spillo fossero fatte da un solo uomo, se la stessa persona dovesse estrarre il metallo dalla miniera, separarlo dal minerale grezzo, forgiarlo, dividerlo in piccole verghe, allungare queste verghe in fili, poi trasformare questi fili in spilli, un uomo, con la sua massima industriosità, forse potrebbe fare a fatica uno spillo in un anno. In tale caso, perciò, il prezzo di uno spillo dovrebbe essere almeno uguale al costo del mantenimento di un uomo per un anno. Se ipotizziamo che questo sia uguale a sei sterline, una rendita miserabile per una persona di tale ingegnosità, il prezzo di un singolo spillo dovrebbe essere di sei sterline. Supponendo che il filo di metallo gli fosse stato fornito già fatto, come avviene al presente, anche in tale caso, ipotizzo, un uomo impiegando tutta la sua diligenza potrebbe a fatica fare venti spilli al giorno, che, stimando trecento giorni di lavoro in un anno, ammonteranno a seimila spilli in un anno; un incremento immenso! Il suo mantenimento per un giorno perciò deve essere caricato su quei venti spilli. Se supponiamo che il suo mantenimento sia uguale a dieci pence2, un compenso generosissimo in confronto al precedente, ci deve essere mezzo penny di tale carico su ogni spillo e in aggiunta il prezzo del filo e il profitto del mercante, che porteranno il prezzo di uno spillo a circa un penny. Un prezzo che appare come niente in confronto al precedente, ma che è ancora esagerato rispetto a quello praticato attualmente. Molto opportunamente, nel produrre questo piccolo oggetto di poco conto, il fabbricante di spilli ha cura di dividere il lavoro tra un gran numero di persone. Uno raddrizza il filo metallico, un altro lo taglia, un terzo lo appuntisce, un quarto lo affila in cima per l’inserimento della capocchia, tre o quattro persone sono impiegate nel fare le capocchie, l’infilarle è attività di una precisa persona, unire gli spilli è l’occupazione di un’altra e l’incartarli è un mestiere a sé stante. Quando tale piccola operazione è così suddivisa tra circa diciotto persone, queste diciotto forse faranno complessivamente più di trentaseimila spilli al giorno. Si può considerare, quindi, che ogni persona, facendo la diciottesima parte di trentaseimila spilli, faccia duemila spilli al giorno, e supponendo trecento giorni lavorativi all’anno, si può ipotizzare che ogni persona faccia seicentomila spilli ogni anno; cioè ogni persona realizza seicentomila volte la quantità di prodotto che era in grado di realizzare quando doveva provvedere da solo al materiale e all’intera operazione, come nella prima ipotesi, e cento volte la quantità di prodotto che era in grado di realizzare quando il filo gli veniva fornito già fatto, come nella seconda ipotesi. Perciò, il mantenimento annuale di ogni persona non deve essere caricato su uno spillo come nella prima ipotesi, né su seimila come nella seconda, ma su seicentomila spilli. Il padrone dell’attività, quindi, può sia permettersi di aumentare il salario del lavorante, sia di vendere il prodotto a un prezzo enormemente più basso rispetto a prima e gli spilli invece di essere venduti a sei sterline al pezzo come nella prima ipotesi, o a dodici pence la dozzina come nella seconda, sono comunemente venduti a mezzo penny per alcune dozzine (Smith, 2002, pp. 70-72).
Più in generale, Smith intende sostenere che il lavoro di un individuo solitario non riesce a soddisfare i bisogni di cibo, vestiario e alloggio richiesti in una società civilizzata anche dagli «appetiti naturali del contadino più modesto». La ricchezza delle nazioni è il prodotto della divisione del lavoro accompagnata dal progresso tecnologico, grazie al quale una piccola quantità di lavoro «appropriatamente e giudiziosamente impiegato» procura abbondanza di beni, fa ridurre il prezzo del prodotto del lavoro e fa crescere il salario del lavoratore. È importante sottolineare il fatto che l’ipotesi di Smith sul lavoro più caro e i prodotti meno costosi in una società opulenta è valida solo se vengono rispettate almeno tre condizioni essenziali: impiego del lavoro con grande abilità e giudizio; accordo e unione di forze; assistenza di molte macchine. Solo a queste condizioni sarà infatti possibile ottenere una maggiore quantità di prodotto a fronte di un più elevato costo del lavoro. E i paesi più ricchi dovranno temere la concorrenza dei paesi poveri, con salari e profitti più bassi, solo se commetteranno «alcuni rilevanti errori nella propria politica economica». Si tratta di un avvertimento tuttora valido per le ancora numerose schiere di protezionisti!
Secondo Smith, la divisione del lavoro accresce la produzione innanzitutto per tre ragioni: aumento dell’abilità del singolo lavoratore; risparmio di tempo nel passaggio da un tipo di lavoro ad un altro; supporto delle macchine che consente ad un lavoratore di svolgere l’attività di molti lavoratori. L’invenzione delle macchine per risparmiare e rendere più produttivo il lavoro è stata causata proprio dalla divisione del lavoro, grazie al fatto che le menti hanno potuto concentrarsi su un particolare oggetto e scoprire quindi i metodi migliori per realizzare l’obiettivo. Le invenzioni dell’aratro, della seminatrice e del mulino a mano costituirebbero perciò i primi esempi del progressivo ridursi della dispersione di attenzione degli uomini. La divisione del lavoro è all’origine del progresso della conoscenza scientifica, perché ha favorito l’emergere di «persone il cui mestiere non è il fare qualcosa, ma osservare ogni cosa, e che per tale ragione sono capaci di combinare assieme i poteri dei più opposti e distanti oggetti» (ivi, p. 81).
L’analisi di Durkheim sembra integrare due approcci, quello di Smith orientato a dimostrare che la divisione del lavoro serve per aumentare la felicità degli uomini mediante il buon funzionamento del «sistema dei fini egoistici» e quello di Marx che opera una distinzione tra divisione sociale e divisione tecnica del lavoro che sarà particolarmente importante nella storia del Novecento con l’affermarsi della organizzazione scientifica del lavoro, delle idee di Taylor e Ford (cfr. infra, par. 1.2). Il suo concetto di «solidarietà organica» derivante dall’evoluzione della divisione del lavoro implica infatti un «valore morale» che è stato difeso dagli autori classici.
Adam Ferguson, nel suo Saggio sulla storia della società civile del 1767, partendo da un’idea originale di felicità, legata più al «grado in cui le nostre menti vengono utilizzate appropriatamente» che non alle cose materiali che possediamo, sottolinea infatti le difficoltà a conservare la democrazia «quando vi è una disparità di condizione e un modo diseguale di coltivare la mente derivante dalla varietà di scopi e di attività che dividono gli esseri umani nello stato più avanzato delle arti commerciali» (Ferguson, 1999, pp. 173-74). Giunge quindi a mettere in dubbio, in maniera molto attuale, che il progresso possa contribuire ad elevare il livello di capacità di una nazione se non si rispetta questa combinazione che oggi potremmo definire, appunto, tra saper fare e saper essere delle persone, poiché
molte arti meccaniche in verità non richiedono alcuna capacità, e hanno esiti positivi in condizioni di totale assenza di sentimento e ragione [...] La riflessione e la fantasia sono soggette a errore, ma l’abitudine di muovere la mano o il piede è indipendente da entrambe. La manifattura di conseguenza prospera soprattutto dove l’attività mentale è meno necessaria e dove l’officina, senza grande sforzo di immaginazione, può essere considerata come una macchina le cui parti sono costituite da uomini (ivi, p. 169).
Queste affermazioni sembrano anticipare l’eco del grande automa, al quale l’uomo può offrire solo un «servizio ausiliario», che Marx descriverà nel 1867 nel primo libro del Capitale, quale evoluzione della divisione «tecnica» del lavoro. Tale evoluzione era individuata come caratteristica essenziale del capitalismo, a partire dalla duplice origine della manifattura: combinazione di mestieri indipendenti (ad esempio, per la costruzione di una carrozza) e suddivisione del lavoro per uno stesso prodotto (il processo di fabbricazione degli spilli illustrato da Smith). Nella divisione del lavoro capitalistica, Marx osserva che un operaio si trova ad eseguire per tutta la vita sempre la stessa ed unica operazione semplice, poiché ciò consente all’imprenditore di aumentare la forza produttiva del lavoro, creando un «operaio complessivo» dipendente, in sostituzione del lavoro artigianale indipendente. Sono naturalmente necessari alcuni presupposti per questa evoluzione della divisione del lavoro nella manifattura: un risultato dato in un tempo di lavoro dato; processi di lavoro che si integrano reciprocamente (dipendenza reciproca diretta dei lavoratori); intensità di lavoro differente dal mestiere indipendente o dalla cooperazione semplice; esistenza di un certo numero...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Le dimensioni del «saper fare» e del «saper essere» del lavoro
  2. Parte prima. Il lavoro nello scambio sociale
  3. 1. I significati del lavoro
  4. 2. Il lavoro organizzato
  5. 3. Lavoro, mercato, welfare
  6. Parte seconda. La costruzione sociale delle condizioni di lavoro
  7. 4. La qualità del lavoro
  8. 5. La retribuzione «equa»
  9. 6. Lavoro, tempo, cultura
  10. Bibliografia