Immagine Linguaggio Figura
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Immagine Linguaggio Figura

Osservazioni e ipotesi

  1. 132 pagine
  2. Italian
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Immagine Linguaggio Figura

Osservazioni e ipotesi

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Questo breve libro si presenta come una costellazione unitaria di alcuni temi di fondo. Innanzi tutto vi si affronta l''enigma' della percezione: le immagini che essa produce sono internamente mobili e sono capaci di interpretare gli oggetti. Pur non essendo ancora linguaggio, esse sono focalizzate su oggetti determinati, ricomprendendone l'intero contesto fino ai limiti dell'indeterminato. Ci si occupa poi del linguaggio in quanto la percezione è ad esso correlata e gli offre i precedenti indispensabili per una significazione. Infine si distingue l'immagine dalla figura, spesso confusa con quella. Si delinea su questa base, in forma discorsivamente osservativa, una semantica, un abbozzo di epistemologia, una propedeutica alla considerazione delle figure – in particolare quelle artistiche – e della configurazione della cultura in tutti i suoi aspetti, operativi, tecnici, mitici, emozionali, conoscitivi.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122501
Argomento
Filosofia

1.
L’immagine e le cose

Per un verso, l’enigma dell’immagine può parere risibile. Quale enigma in ciò che ci accade tutti i giorni e che è anzi alla base delle esperienze più comuni? Per altro verso, le difficoltà connesse alle nostre domande, può non vederle solo chi professi un referenzialismo talmente ingenuo da concepire il percepito come il doppio complessivo e puntuale dell’oggetto.
È mai esistito un referenzialismo così spinto e intenibile? Più no che sì. Tuttavia alcuni aspetti di esso affiorano in trasparenza, qua e là, nella tradizione filosofica e, incredibilmente, riaffiorano e anzi si dichiarano quasi apertamente e ingenuamente anche ai nostri giorni. Senza dubbio, anche chi ha pensato e pensa che la percezione abbia una portata esclusivamente oggettiva ha concepito e concepisce in generale tale portata come un rapporto semiotico, tale che l’immagine è il segno iconico dell’oggetto. E un segno di tipo iconico ha tratti che traducono visivamente la struttura e i rapporti interni dell’oggetto di cui è immagine, ma non è senz’altro il doppio complessivo e puntuale del suo oggetto. Restituisce di esso qualcosa che gli appartiene, ma secondo un filtro che è del percipiente, non della cosa. Diciamo allora che si tratta di un referenzialismo ideale, più supposto tra le righe che ipotizzato e professato esplicitamente, ma tuttavia latente o presente in forme semiesplicite. Esso è intenibile anche nella sua idealità, esattamente come lo è il suo contrario. Infatti non è che la posizione opposta e complementare all’idea di una totale indipendenza del percepire, come se questo non ci aprisse alle cose e fosse un’attività tutta rinserrata nel soggetto e che in esso si esaurisce.
Infatti, secondo quella bizzarra coppia di idee, o la percezione ci fornirebbe in sostanza le cose stesse oppure le cose che percepiamo sarebbero solo nostre formazioni interne che non informano di nulla di ciò che c’è (o piuttosto non c’è) all’esterno dei percipienti. Con un oggettivismo estremo e contraddittorio si coniuga dunque in un nesso oppositivo e complementare un soggettivismo altrettanto estremo, la cui espressione più nota e più ingenua è l’‘Unico’ stirneriano (o, alla Berkeley, addirittura dio in persona in cui le nostre idee-percezioni-cose avrebbero l’unica consistenza, sede e legittimazione possibile). È in questo senso che, pur opponendosi l’uno all’altro, si richiedono a vicenda. L’assurdità dell’uno rimanda all’assurdità dell’altro, e viceversa.
Ora, l’idea, pur vaga e solo sfiorata, che l’immagine interna sia in tutto e per tutto corrispondente alla cosa dipende forse dall’identificazione abbastanza comune di essa con una figura, il cui realismo ci comunica talvolta un senso di presenza, come se la figura fosse appunto la cosa stessa. In realtà la figura sarebbe semmai identica all’immagine percepita della cosa. Ma neanche questo è vero. Un’immagine-segno, concepita come una figura effettivamente esistente (una specie di disegno mentale), ha non molto a che fare con la genuina immagine interna che si costituisce in noi con la percezione. Infatti una figura è, vedremo, una specifica riduzione ed esteriorizzazione dell’immagine interna dell’oggetto, ed è di fatto statica, anche se non può non essere stata costruita dinamicamente, con o senza intenzione. È, una volta prodotta, ciò che è, mentre l’immagine interna è essenzialmente dinamica, cioè non solo si forma, ma anche sussiste come il risultato cangiante di ispezioni sempre diverse dell’oggetto.
Insomma: quelle due posizioni alternative, pur se in parte solo ideali, non sono che modi di minimizzare la questione della percezione, o di non vederla affatto, come se essa non ponesse alcun problema alla riflessione. Non fanno che facilitare il nostro comprendere fino al punto di annullarlo, e non gettano la minima luce su che cosa è effettivamente il percepire oggetti.
Fu la filosofia critica kantiana ad aprire decisamente una nuova prospettiva, tale da riaffermare la portata oggettiva della sensazione e dell’intuizione, evitando da una parte una loro nullificazione in un soggettivismo assoluto, dogmatico e neppure seriamente discutibile, e dall’altra senza annegarle in un oggettivismo incomprensibile, altrettanto dogmatico e per di più contraddittorio. Talvolta la filosofia critica è stata sbrigativamente giudicata come soggettivistica e idealistica: il che dimostra precisamente che una qualche idea di referenzialismo radicale doveva pur alloggiare nella mente di certi interpreti. In realtà la filosofia critica ha sostenuto piuttosto questo: che noi abbiamo coscienza sensibile degli oggetti tra i quali siamo immersi sia attraverso le affezioni dei sensi, sia attraverso un’organizzazione di esse mediante forme, spazio e tempo, concepite come forme a priori. Ora, si potrà senza dubbio discutere e meglio precisare se e come spazio e tempo siano forme a priori, ma sarebbe difficile negare che esse siano non risultati dell’esperienza, ma piuttosto presupposizioni dell’intuizione che l’esperienza richiede, mette in atto e sviluppa. Probabilmente, come del resto fu allora suggerito in anticipo su ogni concezione evoluzionistica moderna, si tratta di forme a priori che fanno parte della nostra, umana, dotazione genetica, non di forme trascendentali per ogni tipo di coscienza sensibile. Le migliori espressioni della moderna psicologia della percezione e degli studi etologici hanno spesso accettato e sviluppato in diversi sensi, consapevolmente o no, questa impostazione di fondo.
Ormai è comunemente accettato che il modo di avvertire le cose fuori di noi è diverso da specie a specie, e che tale diversità dipende non dal numero e dall’accumulazione dei dati sensibili, ma piuttosto dalla capacità di filtrarli e adoperarli in modo specifico. Sta il fatto che non tutti i viventi hanno esperienza sensibile al modo degli animali umani, che è soprattutto visiva, organizzata inoltre spazio-temporalmente, ma l’hanno per esempio di tipo chimico, auditivo o di altro tipo: il pipistrello è fornito di una specie di radar, il cane ha una vista modesta e si affida principalmente all’odorato, il cosiddetto ‘porcellino di terra’ reagisce agli stimoli dell’umidità e sopravvive o no se, muovendosi a caso, trova o non trova il luogo con l’umidità giusta. Quindi, in ogni caso, decisiva è la specificità dell’avere coscienza e avvertimento delle cose, o almeno una tendenza a essa che l’esperienza rende operante.
La prima, ma solo apparente, difficoltà della percezione sta dunque in questo: che, se non ci si nasconde il problema che la riguarda, essa ci appare come soggettiva e oggettiva insieme. Ma non si tratta di una sorta di ossimoro. Tale duplicità non ha niente di contraddittorio e anzi non può non convenire al nostro essere coinvolti essenzialmente nelle cose stesse o nel mondo. Fornisce (salvo alterazioni gravi degli organi di senso, che in ogni caso non è pensabile che la soggettivizzino radicalmente) valori oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere poi esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad evidenza delle cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori oggettivi è nostro e, tanto più, la nostra misurazione non sta nelle cose, ma dipende da una unità di misura da noi stabilita, idonea per l’esplicitazione di quei rapporti.
Vere e proprie difficoltà incontreremo in seguito. Ma, precisiamo subito, esse non sono affatto di natura stratosferica. Non sono difficoltà simili a quelle, solo metafisiche, apparenti e superflue, dell’alternativa ‘essere o nulla’, della questione se ci sia un dio o se l’anima sia per caso immortale. La difficoltà è bassa, non alta: nasce dal fatto che proprio ciò che appartiene intrinsecamente alla stessa vita quotidiana e dovrebbe essere quindi affatto evidente, e che anzi sta alla base di ogni nostra esperienza, quotidiana e no, semplice o complicata, passa in generale inosservato. Resta oscuro, pur se ritenuto evidente.
Così, la sua mancanza di chiarezza viene trasformata in evidenza o, meglio, in ovvietà. Ma, con ciò, non stiamo prendendocela con i non-filosofi. I più, nel corso della loro vita, non pensano affatto a quei problemi, e fanno pragmaticamente benissimo, nella misura in cui operano. Sta il fatto però che quella presunta evidenza sollecita invece nei non distratti o nei petulanti, a piacere, domande a cui non si può rispondere con chiarimenti completi e con descrizioni conclusive. In realtà la facoltà dell’immagine è qualcosa di non definitivamente chiaribile, di non propriamente descrivibile, di non completamente afferrabile nella sua intera determinatezza. Ma una cosa è accettare passivamente una difficoltà come un sorta di oscuro destino, risolto per di più in ovvietà, una cosa è sforzarsi nei limiti del possibile di chiarirla e comprenderla proprio nella sua enigmaticità.
E diciamo subito, per non suscitare nel lettore aspettative infondate, che la questione della vera natura dell’immagine e della stessa percezione che la produce è aperta e forse è destinata a restare in qualche misura sempre aperta.

2.
Classe, famiglia, aggregato

Per cominciare a renderci conto di che cosa percepiamo quando percepiamo, è opportuno esaminare le percezioni non quando operiamo e siamo interessati innanzi tutto a orientarci nell’ambiente in cui operiamo, ma nelle pause di riposo o di momentaneo distacco. Lo facciamo continuamente, anche quando siamo indaffarati, basta che la tensione si rilasci per un attimo.
Nel primo caso, come si è già accennato, gli scopi che ci guidano tendono a nascondere sotto la loro cogenza la questione della percezione e il suo enigma. Questa è la buona ragione dei più. Abbiamo, per così dire, altro da fare che preoccuparci di uno degli ingredienti che stanno alla base di ogni minima, quotidiana o impervia, esperienza operativa o intellettuale. Ma, quando semplicemente ci guardiamo attorno e mettiamo a fuoco questo o quell’oggetto senza un interesse determinato, quando cioè gli scopi non occultano ciò che è percezione, il quesito s’impone quasi inevitabilmente, se soltanto non ci accontentiamo di accettarla così come di fatto, ovviamente e tuttavia oscuramente, essa si produce.
Per esempio: giriamo lo sguardo intorno e ci soffermiamo via via su alcuni oggetti, e aspetti di oggetti, che incontriamo – un vaso, un gatto, una sedia, una tenda, una finestra, e così via – e li riconosciamo pur senza dircelo esplicitamente. Ora, il riconoscimento sembra essere una caratteristica funzionale importante della percezione, tale da avere conseguenze decisive nella comprensione del problema. Il riconoscimento infatti già comporta che noi, pur senza un intervento esplicito del linguaggio e dei significati o concetti di cui esso è portatore, cogliamo quegli oggetti come casi taciti, non, certo, di una ‘classe’ o anche di una ‘famiglia’, nel senso di Wittgenstein, ma di qualcosa che chiamiamo qui un ‘aggregato’. Altrimenti come potremmo riconoscere un gatto o un vaso, senza nello stesso tempo notare in qualche modo certe somiglianze (o anche dissomiglianze) che li legano ad altri oggetti dello stesso aggregato? Si tratta, certo, proprio di quel gatto o di quel vaso singoli, ma resta il fatto che il gatto o il vaso, sono proprio un gatto o un vaso, e non rispettivamente un vaso o un gatto. Quindi in un certo senso una percezione, senza essere per se stessa linguaggio e senza rifarsi esplicitamente al linguaggio, in qualche modo, vedremo, lo anticipa e lo richiede. E questo, in tale forma preliminare e approssimativa, è un primo aspetto dell’enigma della percezione.
Abbiamo introdotto il termine ‘aggregato’ per escludere possibili confusioni con il termine ‘classe’ e il termine ‘famiglia’, anche se esso indica qualcosa di simile al significato di ‘famiglia’ e ‘classe’. Una classe di oggetti, che si colloca in un dominio concettuale, è definita da un esplicito criterio di appartenenza, tale che i suoi membri, possibili e non solo reali, cioè non solo effettivamente sperimentati o usati, sono di solito di numero indefinito e addirittura infinito; e deve quindi soddisfare, per essere ben formata, la condizione di contenere tutti e soli i membri, reali o possibili, concreti o astratti, che abbiano almeno una nota in comune. Parimenti la ‘famiglia’, pur essendo apparentemente più informale della classe e sembrando per ciò quasi indefinibile, si colloca in un dominio linguistico e di essa si deve poter dare una qualche definizione esplicita, così che anch’essa contiene anche casi solo possibili, non effettivamente sperimentati o usati. Per esempio, si può dare la seguente definizione: una famiglia contiene membri che non hanno, tutti, almeno una medesima nota in comune, ma ciascuno dei suoi membri ha una o più note in comune con alcuni membri e una o più note in comune con alcuni altri membri; tra almeno due membri, quindi, c’è sempre almeno una nota in comune e tra almeno altri due membri non c’è alcuna nota in comune; ma deve essere sempre possibile collegare due membri qualsiasi disgiunti, assunti come primo e ultimo, mediante un numero finito di membri, ordinati in modo tale che abbiano, ciascuno, almeno una nota in comune con il precedente.
Ora la differenza decisiva, rispetto a classe e famiglia, è che dobbiamo supporre che un aggregato venga costruito solo percettivamente e costituisca un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Non può quindi essere definito in modo esplicito senza trasformarsi senz’altro in un significato linguistico o in un concetto, che si riferiscono anche a casi solo possibili. Naturalmente la facoltà dell’immagine può aggregare anche ulteriori membri solo immaginati, ma, in assenza ideale di un’azione inevitabile, almeno implicita, del linguaggio, essi sono solo duplicati o combinazioni di oggetti effettivamente percepiti.
Un’ulteriore differenza rispetto alle classi e alle famiglie, che discende subito dal modo di formarsi degli aggregati, è che questi possono anche essere costituiti da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità, non chiaribile intellettualmente, di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. È plausibile ipotizzare che qualcosa del genere accada soprattutto nella primissima infanzia, prima che il linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione di un’intelligenza prevalentemente senso-motoria che, nella manipolazione degli oggetti, produca riconoscimenti, usi e aggregati di oggetti, in essi variamente disposti. Un burattino può essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una copertina o un lenzuolino possono essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero della madre, il suo abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non ancora pienamente riconosciuto e dominato; e così via. In questi casi l’aggregato è lontanissimo dalla formazione di una futura tassonomia intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non fosse preceduta da quello. Ciò che conta, al di fuori della nostra esperienza prevalentemente intellettuale, è semplicemente la capacità di riconoscere e di aggregare, comunque tale capacità sia poi svolta in età adulta. È appunto un indizio della capacità di riconoscimento propria della percezione.
È parimenti plausibile, vedremo, che ciò sia accaduto anche nei tempi dell’origine dell’umanità, quando cioè non è pensabile che esistessero, nella forma attuale, linguaggi storico-naturali del tipo ormai diffuso universalmente. Qui possiamo dire, a titolo di ipotesi, che la funzione dell’immaginazione, pur legata a un qualche linguaggio, deve aver avuto una portata assai più ampia e significativa nella costruzione di una cultura osservativa, interpretativ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. L’immagine e le cose
  3. 2. Classe, famiglia, aggregato
  4. 3. Interpretazione percettiva e ambiente linguistico
  5. 4. Incompletezza dell’immagine
  6. 5. Il contesto e i sensi
  7. 6. Determinato, indeterminato, totalità
  8. 7. Correlazione immagine-linguaggio
  9. 8. Plurinterpretabilità della figura
  10. 9. Significati oggettuali e meta-oggettuali
  11. 10. L’immagine-schema
  12. 11. Esempio e analogia
  13. 12. Immagini oniriche
  14. 13. Figura e immagine: arbitrarietà/motivazione
  15. 14. Figura e immagine: somiglianza/dissomiglianza
  16. 15. Le figure dell’arte
  17. 16. Lo stile: perfezione/imperfezione
  18. 17. La forma: completezza/incompletezza
  19. Osservazioni finali sull’oggi