Prima lezione di medicina
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Prima lezione di medicina

  1. 126 pagine
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Prima lezione di medicina

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La guarigione, la terapia, la cura dei malati, la prevenzione, la funzione della ricerca e della tecnica. Infine la voce dei doveri, dei principi morali, della coscienza: l'arte medica nelle pagine di uno scienziato filosofo.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858101919

Filosofia della medicina

La medicina, che si riferisce a una propria «filosofia morale», fa anche riferimento a una propria «filosofia teoretica»? La filosofia morale originaria ha un suo terminus a quo nell’etica dei medici ippocratici condensata nel Giuramento d’Ippocrate, «un testo senza età, le cui origini si situano ben prima del grande Ippocrate e si confondono con le origini stesse della stirpe degli Asclepiadi»1.
Si tratta di un testo composito, dalle molte incrostazioni aggiuntive e successive, che attraversa – oltre a temi contrattuali (patto o contratto di associazione tra maestro e allievo) e deontologici (regole di comportamento e di rispetto per la proprietà altrui) – problemi etici di gran mole, apparentati agli attuali problemi etici di frontiera: «Giammai, mosso dalle pressanti richieste di alcuni, propinerò medicine letali [...]. Mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire». Più che di espliciti divieti verso forme di eutanasia attiva e passiva e verso pratiche abortive, si tratta di norme morali rivolte, rispettivamente, contro la procedura giuridica del suicidio per avvelenamento assistito dal medico quale mezzo di esecuzione capitale (si pensi alla cicuta data a Socrate) e contro la cultura che considerava lecito perfino l’infanticidio qualora il padre del bambino lo ritenesse opportuno.
L’incipit dei «problemi etici», per i primi interpreti della medicina laica (da laós, «popolo») pertinente a tutti senza distinzione di ceto e di censo (né tantomeno di confessione e di fede), fu sincrono e parallelo all’emergere dei «problemi teoretici» d’inquadramento della téchne ippocratica. Accanto alla problematica del rapporto interumano tra medico e paziente emersero subito il metodo peculiare – «metodo clinico» – e l’altrettanto peculiare concezione dell’uomo e del mondo basata sulla «quadratura» antropologica e cosmologica dei quattro elementi primordiali (acqua, terra, aria, fuoco), delle quattro qualità elementari (umido, freddo, secco, caldo), dei quattro umori somatici (sangue, flegma, bile, atrabile), dei quattro visceri funzionanti da laboratorio (cuore, cervello, fegato, milza), dei quattro temperamenti psichici (sanguigno, flemmatico, biliare o collerico, atrabiliare o melancolico), delle quattro stagioni climatiche (primavera, estate, autunno, inverno), delle quattro età esistenziali (infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia).
La «quadratura» aveva un referente numerologico (aritmo-geometrico) e simbolico nella filosofia di Pitagora (570-505 a.C.), che dalla Magna Grecia forniva un quadro teoretico ad alto tasso d’astrazione; e aveva un referente empirico (osservativo-descrittivo) nella filosofia di Empedocle (483-423 a.C.), che dalla Sicilia forniva le prove – che potremmo dire «basate sull’evidenza» – della terra bagnata dall’acqua del mare e dell’aria riscaldata dal fuoco dei vulcani. La «filosofia della natura» era la physiologia che il genero di Ippocrate, Polibo, fece oggetto di descrizione nel trattato sulla Natura dell’uomo, databile tra il 410 e il 400 a.C.
Questa filosofia medica delle origini ebbe definitiva consacrazione in Galeno, assertore dell’istanza per cui optimus medicus sit quoque philosophus. Tale aforisma galenico, liberamente tradotto, poneva l’esigenza che «un medico, per essere annoverato tra i migliori, dev’essere anche filosofo». Il medico doveva, in altri termini, possedere tutt’intera la philosophia, cioè l’«amore per la sapienza», comprensivo dell’«amore per la tecnica» (tecnofilia) e dell’«amore per l’uomo» (filantropia). Doveva conoscere a fondo la natura, ivi compresa la natura umana: essere amico dell’uomo (filantropo) era il modo migliore per essergli d’aiuto usando le risorse dell’arte (tecnofilo).
Isidoro di Siviglia, nel già citato libro IV della sua altomedievale opera enciclopedica, dopo aver affermato che la medicina riassume e compendia le arti del trivio (grammatica, retorica, logica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia), dice che «per questo la medicina è chiamata seconda filosofia – philosophia secunda – poiché entrambe le discipline [filosofia e medicina] sono complementari all’uomo».
L’antico aforisma galenico in versione aggiornata – nullus medicus nisi philosophus, «nessuno è medico se non è filosofo» – conservò tutto il suo valore nel Medioevo: il medico doveva essere non solo doctus et expertus, cioè un «dottore ricco di sapienza ed esperienza», ma anche physicus philosophus, depositario di una cognizione globale del mondo, e dell’uomo quale parte mondana corrispondente al fine dell’arte esercitata.
L’aforisma conservò valore anche nel Rinascimento, quando, permanendo stretta la relazione tra medicina e filosofia, il naturalismo animistico e panteistico, che rendeva immanente il divino in un’anima mundi onnipervasiva, inscriveva uomo e natura in una filosofia delle universali analogie dove l’uomo era assimilato a un microcosmo e il cosmo era assimilato a un macroantropo. In un’ottica pansofica, Paracelso (1493-1541) vedeva corrispondere il macroantropo astrologico-astronomico dell’universo cosmico al microcosmo alchemico-chimico del corpo umano. Con l’astronomia, con la protochimica e con l’etica della virtù, quarto pilastro della paracelsiana medicina nova era, più che mai, la filosofia.
In piena età della rinascenza, la «rivoluzione antigalenica» di Andrea Vesalio (1514-1564), fondatore della moderna anatomia, fu perfettamente sincrona alla «rivoluzione antitolemaica» di Niccolò Copernico (1473-1543), fondatore della moderna astronomia. I sette libri vesaliani De humani corporis fabrica videro la luce, a Basilea, nello stesso anno 1543 in cui videro la luce, a Norimberga, i sei libri copernicani De revolutionibus orbium coelestium. L’«anima del mondo» rinascimentale si avviava a diventare la machina mundi, et hominis teorizzata dal meccanicismo seicentesco.
René Descartes (1596-1650), Cartesio, nel suo grande disegno filosofico de L’homme (Parigi 1630-31) pose le premesse dell’homme machine, organismo-macchina suscettibile di misurazione, manutenzione, riparazione e, in prospettiva, sostituzione delle parti avariate, come d’altronde preconizzato da Francis Bacon (1561-1626), Bacone, nella sua utopistica New Atlantis (Londra 1627). Il medico era in procinto di diventare uno «iatromeccanico»? Se nel dualismo cartesiano tra res extensa e res cogitans, tra soma e psiche, si intravvedeva il rischio di un medico futuro nei panni del «somatologo», contrapposto allo «psicologo», l’irriducibilità dell’arte medica ad arte meccanica prometteva di preservare quel che sarebbe andato perduto e di prevedere per il medico il ruolo dello «iatrofilosofo», fisiologo del corpo e psicologo della mente tanto quanto l’antico curante del corpo e dell’anima.
Dal Settecento in poi, mano mano che le nuove scienze sperimentali – fisica, chimica, biologia – arricchivano di contenuti scientifici la medicina, questa fece propria, quasi per equilibrio bilanciato, la categoria filosofica della totalità, utile all’ampliarsi e disegnarsi ex novo di aree concettuali di stretta pertinenza medica. L’area concettuale di ambiente si ampliò da naturale ad artificiale: l’attenzione per «l’aria, le acque e le terre», consegnata all’antica opera d’Ippocrate De aëre, aquis et locis, si arricchì dell’attenzione per i luoghi e i modi del lavoro, consegnata all’opera moderna Sulle malattie degli arteficiDe morbis artificum diatriba (Modena 1700, Padova 1713) – del medico carpigiano Bernardino Ramazzini (1633-1714). L’ecologia ippocratica originaria si arricchì delle nozioni di pericolosità lavorativa e d’inquinamento ambientale.
Risalgono al trattato ramazziniano la prima denuncia di una nube tossica industriale inquinante l’aere padano (a Finale nel Modenese) e la domanda rivolta per la prima volta dal medico al paziente: «Che lavoro fai?». Nello stesso arco di tempo secolare la domanda di salute si ampliò da individuale a sociale e come tale fu recepita e problematizzata da Johann Peter Frank (1745-1821), clinico medico a Pavia e governatore della sanità asburgica in Lombardia, il quale, con il «sistema completo di polizia medica» del quale s’è detto, fornì il primo abbozzo di una «medicina politica» intesa come illuminata filosofia di governo della salute collettiva, tutelata lungo tutto il percorso esistenziale, dalla nascita alla morte.
Tralasciando per brevità espositiva gli apporti forniti in questo stesso campo dai médecins-philosophes portatori dei «lumi della ragione» e delle istanze della rivoluzione francese, l’Ottocento romantico fu aperto, in medicina, da una definizione filosofica della vita di portata rivoluzionaria: «la vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte». L’idea di definire la vita partendo dalla sua negazione fu del medico idéologue François-Xavier Bichat (1771-1802), da questi enunciata in apertura delle sue Recherches physiologiques sur la vie et la mort (Parigi 1800). La morte veniva intesa non più come un’entità opposta alla vita in una sorta di dualità metafisica, ma come un processo intrinseco alla vita sotto forma di malattia.
Il concetto della malattia come morte resa possibile nella vita era un concetto assai fertile. Sul versante tecnico, la morte diventava l’area concettuale dove si profilava la nascita della clinica2, un’area dove i segni patologici, rilevati in vita tramite la semeiotica sul malato, venivano «comparati» con le lesioni anatomiche, osservate post mortem tramite la dissezione del cadavere. La «comparazione anatomo-clinica», tra la pratica clinica al letto dell’ammalato e la pratica anatomica al tavolo d’autopsia, costituì la base di lancio della moderna medicina tecnopratica.
La fertilità della nuova concezione filosofica fu tale anche sul versante antropologico. Nell’epoca in cui Giacomo Leopardi si accingeva a «esplorare il proprio petto» attraverso l’introspezione, uno strumento come lo «stetoscopio», inventato nel 1819 dal medico bretone René Théophile Hyacinthe Laënnec (1781-1826), consentì ai nuovi clinici di «scrutare il petto» (stetoscopìa significa letteralmente «osservare il torace»). Lo stetoscopio (progenitore del fonendoscopio usato dai medici d’oggi) fu uno «strumento filosofico», collegandosi a una rottura epistemologica, a una mutata visione globale della malattia. Tramite l’«auscultazione mediata» dal nuovo strumento, il rilievo acustico del respiro soffiante nella caverna polmonare scavata dal processo di consunzione, corrispondente alla natura della malattia, permise ai medici aggiornati di diagnosticare quest’ultima come «tisi» (tisi significa appunto «consunzione»), malattia il cui substrato anatomo-patologico veniva identificato nella necro-biosi ricavante il proprio modello interpretativo ed esplicativo dall’antropologia bio-tanatologica della coppia vita-morte.
La morte, o meglio il tempo del morire, era da sempre l’area di misura qualitativa o pietra di paragone di una medicina avvezza a confrontarsi con essa come con un evento naturale e cruciale, connaturato alla vita dell’uomo di cui rappresenta la natura degradabile e di cui costituisce l’esperienza esistenziale massima ed estrema. Essa era gran parte della cultura medica, integrata al modo di pensare e di comportarsi del medico e alla sua pratica dell’ad-sistere, dello «stare continuativamente e ripetutamente accanto» a chi muore, per breve o lunga che fosse la malattia terminale.
A questo punto del suo svolgimento storico, la medicina, nell’offrire se stessa a un multisecolare bilancio, poteva legittimamente rivendicare una propria, duratura filosofia. La legittimità era ribadita dal fatto che la categoria filosofica della «to...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Parte prima. Una attività a valenza multipla
  3. Il medico guaritore
  4. Terapia della malattia e cura del malato
  5. Prevenire è meglio
  6. Il ritorno alla «norma»
  7. Parte seconda. Una pratica fra scienza e tecnica
  8. Le vie della ricerca
  9. La rivoluzione della (bio)tecnologia
  10. Una scienza esatta?
  11. Medicina come professione
  12. Parte terza. In un mondo di doveri e di valori
  13. Educare ad autoeducarsi
  14. Da Aristotele alla bioetica
  15. Filosofia della medicina
  16. «Religio medici»
  17. Conclusione