La nazione cattolica
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La nazione cattolica

Chiesa e dittatura nell'Argentina di Bergoglio

  1. 296 pagine
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La nazione cattolica

Chiesa e dittatura nell'Argentina di Bergoglio

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Ha benedetto militari e cresciuto guerriglieri, ha protetto operai e confessato industriali, ha invocato il Cristo rivoluzionario e il Dio antisovversivo: la Chiesa e la cattolicità sono state al cuore della storia argentina. Compresa la dittatura militare.

Dio vuole la patria unita e in ordine, dicevano i militari. Dio è dove c'è giustizia sociale, ribattevano gli studenti. Una patria cattolica non può licenziare i lavoratori, gridavano gli operai in sciopero. Pur di ottenere la civiltà dell'amore cara a Dio, rincaravano i gruppi armati, è lecito sacrificare vite nella rivoluzione. Il peronismo è un movimento umanista e cristiano; no, il peronismo è la via attraverso cui il popolo edifica il socialismo. Tutti in nome di Dio, tutti in nome del popolo.
Questo libro indaga l'intreccio di storia politica e religiosa in Argentina, dagli anni Sessanta fino all'ultima dittatura militare, e scopre che all'origine della sua storia è il mito di una nazione cattolica. Un mito divenuto presto una camicia di forza; un mito che, nato per unire, ha diviso fino all'odio fratricida: cattolica si proclamava la dittatura del 1966, cattolica e cresciuta nelle parrocchie era la guerriglia, cattolico il peronismo tornato al potere nel 1973, cattoliche le sue fazioni in guerra tra loro, fino al regime cattolico che pretesero di incarnare i militari giunti al potere nel 1976. Solo allora, dinanzi alla tragedia, una parte crescente della Chiesa e degli argentini iniziò a scoprire le virtù della laicità, della democrazia politica e dello Stato di diritto.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116487
Argomento
Economics

Capitolo 1. L’Argentina cattolica

1. Il peso della storia

La sindrome dell’unanimità Il XIX secolo volgeva al termine e un’ombra incombeva sul progetto nazionale delle élite liberali. La loro Costituzione, approvata nel 1853, era ibrida: aveva impianto liberale, ma riconosceva alla Chiesa e alla religione cattolica un ruolo privilegiato. Eppure liberale era il sogno di una nazione aperta e plurale, accogliente verso gli immigranti e fondata sulle libertà civili, compresa quella di culto: cosa tutt’altro che scontata in un paese nato dal crollo della monarchia spagnola, dove unità politica e unità religiosa erano state per secoli una cosa sola. Non era semplice creare su tali basi il paese che avevano in mente. Ma tale era la scommessa, legata all’imperativo di colmare quello spazio immenso e spopolato con genti provenienti da ogni parte del globo; specie, se possibile, da quelle dove la rivoluzione agraria e industriale e l’etica protestante del lavoro stavano assicurando grandi progressi economici e civili. Gobernar es poblar, aveva detto Juan Bautista Alberdi, che di quella élite era brillante interprete. Ma per attrarre in quella remota landa gli uomini necessari a plasmarne il futuro, urgeva garantirvi tolleranza per tutti i culti e per le libertà individuali. Appariva perciò un peso l’eredità ispanica, rea di comprimerle, di ostacolare quelle economiche e di imporre l’unanimità di fede a perno della comunità politica.
Sul finire del secolo, il progetto aveva dato frutti. L’Argentina pareva votata a un futuro radioso: la ricchezza vi lievitava grazie alle massicce esportazioni di beni alimentari, le ferrovie solcavano la pampa e lo spazio si colmava di migranti. Non era tutto oro, va da sé: l’unificazione del paese s’era fatta imponendo a forza l’obbedienza alle popolazioni autoctone, il legame con la Gran Bretagna aveva tratti neocoloniali e l’accesso alla terra era assai meno libero del previsto. Ma l’Argentina era un treno in corsa e anche la Chiesa dovette piegarsi al suo incedere. Simbolo della nazione liberale e fumo negli occhi del clero fu la legge che nel 1884 introdusse l’insegnamento laico nelle scuole pubbliche. Ovvio che la Chiesa insorgesse contro quegli aristocratici che attentavano alla cattolicità del popolo, per i quali tanto valeva la verità come l’errore. Ma troppo fragile era per bloccare la sanzione delle libertà condannate da Pio IX nel celebre Syllabus.
Eppure, mentre fervevano i preparativi per celebrare il centenario dell’indipendenza nel 1910, molte nubi si addensavano su quel progetto. Profeta o pessimista, ne colse bene il senso un deputato che opponendosi a una delle tante leggi adottate all’epoca per nazionalizzare gli immigrati, lanciò un monito: «dopo l’unità di lingua si chiederà l’unità di fede, l’unità di razza e altre unità ancora». La tendenza era già in atto e nulla l’avrebbe più fermata: il caotico succedersi di ondate migratorie, la miscela di lingue e dialetti, la sommatoria di genti eterogenee e le tensioni che tutto ciò generava, fornivano argomenti a chi esigeva di ricondurre il caos ad ordine, il plurale all’unità, lo straniero a nazionale. Il sogno della nazione aperta cedeva il passo al desiderio di identità e coesione.
Cosa, in quel paese in cerca di baricentro e privo di grandi tradizioni da evocare, vi si prestava più della cattolicità? Cos’altro prometteva di ancorare la fragile unità nazionale a un principio di unità spirituale? Solo la religione poteva fare da collante tra gli immigrati rimasti senza patria e i criollos spaventati e ansiosi di assimilarli. Dalle viscere dell’Argentina liberale stava partendo l’inesorabile marcia del cattolicesimo verso il centro dell’identità nazionale; la progressiva diffusione dell’idea che nella cattolicità risiedeva la più intima garanzia di unità di un paese che ne era alla ossessiva ricerca. Erano i primi sintomi della sindrome dell’unanimità che avrebbe sotterrato il progetto di un paese plurale e aperto.
Vari fattori fecero sì che tale sindrome assumesse in Argentina una forza sconosciuta altrove. Il fatto che nessun altro paese fosse mai stato così rivoluzionato dall’immigrazione fu fondamentale: la sensazione dell’unità spezzata fu brutale e per reazione generò il bisogno di ricucirla e la costante ricerca di fattori di coesione. Ma altri se ne aggiunsero. Prima di tutto l’origine degli immigrati, che nel 90% dei casi provenivano da Italia e Spagna; da paesi cattolici, insomma. Non era un potente motivo in più per elevare la cattolicità a fondamento del nascente mito nazionale argentino? Tanto più che spagnoli e italiani condividevano coi creoli argentini l’esperienza della cristianità: l’eredità cioè di una lunga storia di intimo intreccio tra ordine politico e sfera religiosa.
C’era infine un ultimo fattore a spingere con forza la cattolicità al cuore dell’identità nazionale. Era all’epoca in embrione, ma prometteva di lievitare in fretta. Quel paese giovane e ricco, popolato da molti europei e attorniato da nazioni meticce e più arretrate, espresse presto un destino manifesto. E iniziò a competere con l’altra grande potenza emisferica, gli Stati Uniti. Quale ideale poteva mai vantare l’Argentina per legittimare l’ansia di primato sui paesi latini d’America? Ci volle un po’ perché ne prendesse coscienza. Ma iniziò a crescere la marea nazionalista che le assegnava il ruolo di guidare in America un fronte cattolico opposto alla potenza protestante del Nord.
Viaggio al centro della nazionalità Quando l’Argentina compì un secolo di vita, lo spirito liberale vi era sopito e il mito della nazione cattolica faceva già capolino. La salute della libertà di culto la diceva lunga in proposito. Non che fosse stata derogata, ma il modo di intenderla era cambiato. Da perno ideale della nazione plurale, s’era ridotto a mera garanzia giuridica per le minoranze religiose giunte nel paese. Un paese che intanto riconosceva alla religione il ruolo di puntello dell’ordine politico e dell’integrazione degli immigrati.
Il viaggio del cattolicesimo alla conquista della nazionalità muoveva i primi passi. Ma i limiti del progetto liberale gli spianavano la via. Come costruire una nazione plurale dove ne mancava una premessa chiave: il pluralismo religioso? Perfino ciò che era stato pensato per arginare la reazione cattolica finì per ritorcersi contro le élite liberali. Il loro rifiuto di spingersi a sancire la separazione tra Stato e Chiesa e la decisione di avvalersi dell’antica istituzione del Patronato per controllare le nomine episcopali, si trasformarono in boomerang. Toccò infatti presto alla Chiesa invocare l’unione con lo Stato per avere il sostegno alla sua funzione di cemento dell’unità nazionale.
Perché però il mito unanimista della nazione cattolica si imponesse, molti altri passaggi dovevano prodursi. Dovette accadere che l’Argentina entrasse nella democrazia di massa con l’approvazione del suffragio maschile obbligatorio e segreto e l’elezione, nel 1916, del leader della Unión Civica Radical, Hipólito Yrigoyen. E che sulle coste del Plata sbarcasse il conflitto tra capitale e lavoro, il quale sfociò presto in violenti scontri. Dovette anche accadere che s’inceppasse la gallina dalle uova d’oro del commercio coi britannici; che le ideologie rivoluzionarie, sospinte dalla rivoluzione bolscevica e diffuse da migranti anarchici o socialisti, acuissero le divisioni sociali; che, infine, la civiltà liberale si suicidasse nelle trincee della Grande Guerra, trascinando con sé il suo bagaglio di idee e valori.
Sommati tra loro, tali fenomeni così eterogenei scavarono la fossa all’Argentina liberale. Ne trasse invece frecce l’arco del mito nazional cattolico. Se montavano le divisioni tra partiti e avvampava lo scontro ideologico e sociale, ancora più urgente diveniva porre l’unità politica, l’identità nazionale e la pace sociale al riparo di un mito condiviso, di un ferreo legame spirituale. Della cattolicità, per l’appunto. Iniziò allora l’esodo verso le file cattoliche di tante personalità un tempo entusiaste degli ideali di libertà e progresso: sia per effetto di conversioni religiose, sia perché decise a fare della religione lo strumento per imporre l’ordine sociale. La corsa di buona parte delle élite al riparo della Chiesa e del cattolicesimo fu il miglior sintomo del nuovo clima; del passaggio dalla speranza alla paura, dal sogno di una società aperta all’urgenza di imporle un principio di unanimità.
Il revival cattolico All’indomani della guerra si aprivano all’influenza cattolica praterie impensabili appena pochi anni prima. Per seminarle, però, e lanciarsi alla conquista del mito nazionale, la Chiesa doveva prima potenziare le sue strutture istituzionali, creare nuovi strumenti di apostolato, unire le sue truppe. La situazione era propizia: la Santa Sede promuoveva la centralizzazione dottrinale, la riorganizzazione istituzionale e l’unione delle forze cattoliche contro liberalismo e comunismo in nome di un nuovo ordine cattolico.
Dagli anni ’20 cominciò così in Argentina un revival cattolico in campo sociale e intellettuale e un robusto rafforzamento della Chiesa. Furono anni di maturazione del cattolicesimo argentino e di conquista di spazi pubblici che l’auge del liberalismo aveva fino ad allora precluso ai cattolici. I Cursos de Cultura Católica divennero il laboratorio del mito della nazione cattolica dove si formò una nuova generazione di militanti, perlopiù benestanti. Furono loro a postulare per primi in modo organico la fusione di nazione e cattolicità; e a combattere le ideologie secolari definendole estranee all’identità eterna dell’Argentina. Il liberalismo altro non era in tale ottica che un anello della catena di eventi che dalla Riforma protestante in poi avevano separato l’uomo da Dio. Non a caso i Cursos furono la fucina del nazionalismo argentino, che nella cattolicità individuò il perno della sua visione del mondo.
Il risveglio intellettuale della Chiesa poggiò su radicali mutamenti istituzionali. Tutte le iniziative cattoliche furono accentrate sotto l’autorità della gerarchia ecclesiastica, che divenne così il cuore pulsante del «mondo cattolico». Un mondo forte di scuole e opere pie, giornali e sindacati, di figure capaci di disputarsi le piazze con i partiti politici e di conquistare ascolti sempre più vaste attraverso la radio. Imporre un calco univoco a una galassia eterogenea di iniziative nate in svariati ambienti sociali, mosse da intenti diversi e gelose della propria autonomia, non fu affatto facile per la Chiesa. Alla fine ebbe però successo e lo sforzo culminò nella nascita dell’Azione Cattolica argentina: era il 1931. Le sue migliaia di militanti inquadrati da assistenti ecclesiastici divennero l’esercito della Chiesa, il veicolo della nazione cattolica, la forza d’urto con cui si fece spazio nella vita del paese.
Quando, di lì a poco, Pio XI nominò Santiago Copello primo cardinale argentino e creò numerose diocesi, si capì che i tempi bui del cattolicesimo argentino erano finiti e che la Santa Sede vedeva ormai in quel paese remoto e pulsante una frontiera chiave della riconquista cattolica del mondo. Lo confermò il tripudio del Congresso eucaristico internazionale del 1934, che proprio Buenos Aires ebbe come teatro e dove il papa inviò il cardinal Pacelli. Il quale, divenuto Pio XII, mai cessò poi di rievocare quei giorni e di assegnare all’Argentina il ruolo di avamposto della cristianità in America. Le folle oceaniche riunite intorno alla croce eretta nella capitale, l’immagine di una società ordinata in corporazioni – i militari, i lavoratori, i bambini, le donne – e devota a Cristo rimasero per decenni l’emblema del rinascimento cattolico argentino. Eppure vi era in quel fenomeno assai più che un rigurgito di fede collettiva. Tanto più che nulla induceva a pensare che la società argentina fosse più religiosa di altre. Quel che lì si vide fu la rappresentazione del mito nazionale che stava maturando. Credenti o no, molti argentini riconoscevano nella cattolicità ciò che più faceva di loro una nazione e che più le dava una missione storica.
La politica come religione A spingere la Chiesa e il cattolicesimo al cuore dell’identità nazionale, contribuì l’agitazione sociale del primo dopoguerra nel nome dell’anarchismo o del bolscevismo. A difesa delle gerarchie sociali in pericolo nacquero allora i primi nuclei di una reazione dove a sostegno della nazione cattolica si unirono ufficiali dell’esercito, sacerdoti e militanti nazionalisti. Ne fu emblema la Liga Patriótica Argentina, un gruppo paramilitare piuttosto forte negli anni ’20. Per quanto però quella reazione nazionalista iniziasse a indicare nella democrazia liberale la causa dei conflitti che dividevano il paese, le istituzioni repubblicane godevano ancora di largo credito. Buona parte della stessa Chiesa, che aveva in Miguel De Andrea la sua figura di spicco, ambiva a cattolicizzare la democrazia più che a soppiantarla con un nuovo ordine integralmente cristiano.
Vi erano però già allora sintomi di un’altra via attraverso cui la sindrome dell’unanimismo minava il progetto di nazione aperta e plurale. Emergevano nell’ideologia e nello stile di governo del partito radicale, il più popolare del paese. Non di tutto il partito, in realtà, ma della sua anima più popolare, quella incarnata da Yrigoyen in persona, per il quale il radicalismo era lo «spirito della nazione», ciò che ne incarnava unità, coesione, identità. Il suo partito non era per lui parte di un insieme plurale, ma un’ideologia nazionale oltre la quale cominciava il territorio della antinazione, la trincea nemica di chi spezzava l’unanimità della nazione. Tanto Yrigoyen era popolare quanto impermeabile a una visione pluralista del mondo. Già negli anni ’20, quando le masse fecero ingresso nella vita politica, ciò che rimaneva dello spirito liberale era l’involucro dello Stato repubblicano: i poteri separati, le libertà individuali, la democrazia parlamentare. Non era poco, ma non sembrava un edificio stabile.
Al di là dei rapporti di Yrigoyen col cattolicesimo, v’era grande affinità tra la sua pretesa di ergere il radicalismo a spirito della nazione e quella della Chiesa di fare lo stesso con la cattolicità. L’uno e l’altra erano mossi dalla stessa credenza che l’ordine politico e l’unità nazionale dovessero poggiare su un principio di unanimità spirituale. Ebbene, sia la popolarità del revival cattolico sia i trionfi di Yrigoyen stavano lì a provare che la sindrome unanimista che stava sotterrando il sogno pluralista dei vecchi liberali catturava il consenso della gran parte degli argentini. Quel che stava accadendo nel delicato passaggio dalla politica di pochi alla politica di tutti era chiaro: il progetto di fondare un ordine politico libero da ipoteche religiose stava fallendo. S’imponeva invece la poderosa domanda di unità spirituale. Non era la politica a emanciparsi dalla religione, ma la religione a colonizzare la politica.
Se ciò faceva già presagire la marcia trionfale del mito della nazione cattolica negli anni ’30, è però vero che l’afflato religioso, il ruolo spirituale e la popolarità di Yrigoyen anticipavano gli enormi problemi cui la Chiesa andava incontro. Era ovvio che se il grosso del paese era ricettivo ad un mito nazionale unanimista, se ne giovava l’ambizione ecclesiastica di incarnarlo evocando la cattolicità degli argentini. Ma lo era altrettanto che quel mito si prestava a trasformarsi in religione politica; in base del potere politico esercitato in forma religiosa. Se tra gli argentini prevaleva un immaginario unanimista, cosa avrebbe impedito che si esprimesse ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo 1. L’Argentina cattolica
  3. Capitolo 2. La Rivoluzione Argentina. 1966-1973
  4. Capitolo 3. Perón-Perón, 1973-1976
  5. Capitolo 4. Il Proceso
  6. Conclusioni