V. Le ragioni dello spazio
Farsi carico delle inquietanti ragioni dello spazio come costruzione sociale, politica e culturale: questa è la tensione etica che muove la riflessione dei geografi culturali. Lo spazio, come già accennato, diventa centrale nel pensiero teorico e nelle scienze sociali. È il tratto peculiare della nostra epoca, ed è il supporto metaforico che concorre alla definizione di un nuovo progetto di pensiero, insubordinato rispetto all’egemonia della storia.
Lo spazio è una sorta di invocazione che assume significati differenti, in differenti contesti, anche se per tutte le discipline vale come strategia rappresentazionale, e nella teoria sociale critica è generalmente inteso come dimensione profondamente implicata nell’ambito dei processi culturali. Come tale, lo spazio non è mai un medium neutro rispetto ai modi con i quali si tracciano limiti o si negoziano dispute, si definiscono identità, cittadinanze e si rappresentano territori. Qui vale un’avvertenza: è impossibile esaurire ciò che è stato scritto e pensato sullo spazio, svolgere la molteplicità delle «specie di spazi» costruiti, interrogati e praticati dalla teoria sociale critica. Di fatto si è svolto un intenso traffico tra i teorici e i geografi culturali. Le manovre intellettuali dei primi sono state naturalmente incorporate nel discorso geografico dei secondi, i quali si distaccano radicalmente dalla prospettiva kantiana sullo spazio, quella implicitamente assunta dalla produzione geografica precedente, abbandonando così l’idea che esso sia un medium geometrico, estraneo alla produzione e alle pratiche delle politiche culturali. Esemplare di tale traffico è la sistematica presenza della geografia nel lavoro di Edward Said e, di converso, l’impulso che il suo pensiero ha fornito agli studi postcoloniali in geografia, stabilendo i termini del legame tra immaginazione geografica, letteratura e consenso:
ho cercato di condurre una sorta di indagine geografica sull’esperienza storica tenendo sempre presente l’idea che la terra è in effetti un mondo unico, nel quale in teoria non esistono spazi vuoti e disabitati.
L’intenzione, qui, è presentare le tre modalità di pensare lo spazio che hanno stabilito percorsi significativi nell’ambito della produzione geografica. Di nuovo, si tratta di operare una scelta, di stabilire una posizione e una versione parziale vicina all’origine. Prima di delineare i percorsi dentro la geografia, è necessaria una breve narrazione di alcuni punti teorici che hanno informato la teoria culturale del Cccs e che i geografi hanno fatto propri. Se i Cultural Studies mappano i nuovi significati, spazializzando la teoria, i geografi culturali, per la loro origine, sono coloro che meglio di altri maneggiano gli strumenti logici e concettuali che hanno costruito le mappe da riscrivere. È da molto tempo che conoscono il funzionamento di ciò che Richard Bernstein definisce l’«ansietà cartesiana», o cartografica, responsabile non soltanto della scrittura geografica del mondo, ma anche del pensiero moderno sul mondo. A riprova di una simile conoscenza, basterebbe qui citare il passo di Kant, il più noto tra i geografi, nel quale la pratica cartesiana dell’esclusione si eleva a teoria conoscitiva universale, per la capacità di stabilire il limite a ciò che vale la pena (o il valore) conoscere:
Ormai, non soltanto abbiamo percorso il dominio dell’intelletto puro, esaminandone accuratamente ogni parte, ma l’abbiamo altresì misurato, ed abbiamo assegnato ad ogni cosa che vi si ritrova il suo posto. Questo dominio, tuttavia, è un’isola, e risulta rinchiuso dalla natura stessa entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettante), circondata da un oceano vasto e tempestoso, che è la vera e propria sede dell’illusione, dove molti banchi di nebbia e numerosi ghiacci, che presto saranno liquefatti, suggeriscono falsamente nuove terre, e incessantemente ingannando, con vane speranze, il navigatore errabondo e avido di scoperte, lo invischiano in avventure, che egli non potrà mai troncare, ma neppure potrà mai condurre a termine. Tuttavia, prima di arrischiarci su questo mare, per esplorarlo in lungo e in largo, e per accertare se da qualche parte vi sia da sperare in alcunché, sarà utile anzitutto gettare ancora uno sguardo sulla carta di questa terra, che vogliamo appunto abbandonare. È allora opportuno domandare a noi stessi, in primo luogo, se a rigore non ci si possa accontentare di ciò che questa terra contiene, o anche, se non sia giocoforza accontentarci di questo, nel caso in cui da nessuna parte vi sia altrove un terreno, su cui poter edificare; in secondo luogo, a quale titolo noi possediamo proprio questa terra, e possiamo considerarci garantiti contro ogni pretesa ostile.
Scendendo dalle vette teoriche dell’immaginazione geografica kantiana, sulle quali torneremo in compagnia di chi le ha percorse, troviamo però la rappresentazione cartografica al lavoro nella pratica conoscitiva del mondo e delle popolazioni. Qui lo spazio agisce attivamente sul piano giuridico in vista dell’appropriazione delle terre appena scoperte (Cuius carta, eius regio), così come su quello ideologico responsabile di mappare corpi e culture. Perché, come nota Sloterdijk, «chi disegna la carta appare come se avesse ragione dal punto di vista culturale, storico, giuridico e politico». Oppure, il che è uguale, chi vince vuole anche avere anche la ragione, e questa ragione è pura.
Sono le coordinate cartografiche a dare la linea politica e a definire il valore economico delle posizioni. Insomma, la geografia è stata per secoli radicalmente militante. E altrettanto militanti, anche se in direzione contraria, sono i geografi culturali che adesso esplorano da vicino il pensiero critico di coloro che ragionano sui modelli di costruzione sociale dello spazio e su come lo spazio partecipi alla struttura del nostro pensiero. In una simile esplorazione, o traduzione, essi trovano parole e paradigmi contro l’egemonia del pensiero geografico ufficiale. Ed è nel poststrutturalismo francese che si trovano i modelli cui la geografia culturale attinge, ed è a Michel Foucault, Jacques Derrida (con una deviazione verso la teoria psicoanalitica di Jacques Lacan) e Henri Lefebvre che i geografi fanno sistematico riferimento.
Al primo, la cui critica filosofica è definita da Jean-Loup Amselle «con le tendine del tutto abbassate», si deve l’intera riflessione sulla produzione delle forme moderne di conoscenza. A Foucault si riconosce anche la paternità del concetto strategico di «pratica discorsiva», nell’accezione di discorso che iscrive le relazioni sociali, attivando l’esercizio del potere sui corpi e attraverso lo spazio. Per queste posizioni teoriche, diviene uno degli ispiratori degli studi postcoloniali e della questione della subalternità, essendo i soggetti della sua attenzione i folli, i malati, i criminali. Insomma, i silenziosi che vivono ai margini. E la struttura del funzionamento dello spazio, come strumento attivo per il controllo, la disciplina e la politica dei corpi, è fondamentale e centrale nella riflessione geografica di Foucault.
Jacques Derrida, il teorico della dif-ferenza, insegna la tattica dello smascheramento, insistendo sulla funzione della traccia nella scrittura. La differenza tra ciò che appare e l’apparire, cioè tra il mondo e il vissuto, è la condizione della traccia che va radicalmente e rigorosamente indagata come funzione significante. L’indagine passa attraverso la sistematica e radicale decostruzione della metafisica occidentale e del suo logocentrismo. È soltanto nella risalita verso la fluidità di un pensiero svincolato dalle categorie, che il filosofo può sperimentare qualcosa che è come l’al di qua dei limiti tra estetica, logica e retorica. Per sentire l’inversione della tattica decostruzionista, accostiamo l’immaginazione geografica di Cartesio, il continente della certezza, quella di Kant, l’isola della verità, e infine quella decostruzionista di Derrida. Quest’ultima accoglie le sabbie mobili e le onde scartate dai primi, e immagina un’origine fluida del luogo del nominare: Khôra, il terzo genere di logica, illegittima e bastarda.
Per dirla con Lacan, uno dei teorici di riferimento della produzione geografica femminista, la tattica dello smascheramento (della decostruzione o distruzione) è consegnata alla funzione del cosiddetto algoritmo. Funzione equivalente a quella della logica simbolica, la stessa che ordina ogni scrittura cartografica. Lacan ricorre a tale funzione per smontare criticamente il concetto di segno e la natura impermeabile della barra, la linea su cui si è fondata l’epistemologia dell’intera modernità. Applicando la logica algoritmica al segno, Lacan ne rovescia lo schema e raddoppia il significante in due opposti (operazione possibile, evidentemente anche in Saussure, dice Lacan). Ma se in Saussure questa giustapposizione conduce al consolidamento della differenza tra i due significanti, in Lacan tale raddoppio esprime la complementarietà del loro valore. Il significato, così come accade sulla carta, viene poi sostituito da una funzione: la simbolizzazione di una legge.
Contro lo schema saussuriano, che subordina la costituzione del significante e del significato alla linea che taglia il segno, Lacan oppone l’idea che il significante sia sempre indipendente e preesistente al significato, il quale scivola o precipita senza fine, a meno di non fermarlo mediante una sorta di ancoraggio teorico definito impuntitura: il punto capitone dei materassi. Come dire che il mondo, il significato, è comunque assente. L’uso di questa strategia la vedremo più avanti.
L’altro teorico è Henri Lefebvre, il filosofo che ha legato la produzione dello spazio urbano alla teoria marxista, e si è impegnato a riflettere sul significato dell’opposizione binaria tra la trasparenza dello spazio (idealismo) e la sua opacità (materialismo). Così la sua riflessione investe le categorie di pensiero solitamente adoperate per la descrizione dello spazio urbano, anche se i suoi modi rappresentano uno scarto. Come scrive Andy Marrifield:
Lefebvre è stato un così buon pensatore Marxista, perché il suo Marxismo era cattivo ed eterodosso. [...] Il suo Marxismo è anarchico. Questo lo rese un uomo di Partito problematico e riluttante: di lui non ci si poteva fidare. [...]. Il suo è un Marxismo ambiguo, festivo e urbano. Insieme a Marx t...