Capitolo 1. Qualche chiarimento preliminare
Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, più di un secolo fa, Saussure invitava a studiare «la vita dei segni nel quadro della vita sociale».
Sono nate discipline diverse a occuparsi della vita dei segni: molte linguistiche (da quella strutturalista, à la Hjelmslev, a quella generativa, à la Chomsky, alla psicolinguistica, l’etnolinguistica etc.), saperi che hanno preso in conto segni diversi da quelli verbali (la cinesica, la prossemica).
E si sono raffinate e differenziate forme diverse di ricerca sulla vita sociale: la sociologia (che, con Max Weber, Émile Durkheim e Georg Simmel, ha visto pubblicati i suoi lavori più rilevanti nel primo ventennio del ’900), l’antropologia, che nella prima metà del ’900 ha visto studi determinanti come quelli di Franz Boas, Ruth Benedict, Margaret Mead, l’etnografia, ma anche saperi molto più recenti come i cultural studies o tutti i media studies.
La semiotica, figlia di Saussure, ha preso sempre più esplicitamente in carico il monito del suo padre d’elezione, spostando progressivamente la sua attenzione dai testi letterari – torri eburnee della letteratura alta – verso i media, le pubblicità, gli oggetti, i luoghi, le interazioni sociali, insomma verso un eterogeneo insieme di forme e oggetti in cui la socialità si manifesta e si costruisce, come la sociosemiotica in particolare ha evidenziato.
Il nostro progetto non vuole, da parte sua, venir meno a questo invito saussuriano o ridimensionarlo, perché, anzi, ci sembra focalizzare una delle principali ragioni di interesse e attualità della semiotica. Vuole però, in qualche modo, darne un’altra flessione, spostarne leggermente l’inclinazione: provare a pensare, cioè, il senso non tanto (o non solo) nel quadro della vita sociale ma della vita culturale. Non è detto che siano esattamente la stessa cosa. Cultura e società non sono, infatti, termini coestensivi (tanto che – con molta evidenza – in una società, come quella italiana oggi, sono compresenti molte culture diverse).
Proveremo pertanto a riflettere su come funziona la semiosi dal punto di vista culturale, da un punto di vista, cioè, generale, olistico, relazionale, andando a vedere come i testi, i segni, gli atti semiosici fanno sistema rispetto a quell’entità un po’ misteriosa ma continuamente evocata che è «la cultura».
E veniamo qui a un primo punto, fondamentale, di questo nostro lavoro: chiarire cosa intendiamo per «cultura» e per «semiotica della cultura». Partiamo dalla seconda espressione, la definizione disciplinare.
Il modo in cui vorremmo intendere questa locuzione («semiotica della cultura») è un modo debole, esclusivamente prospettico, che aspira a definirsi non per una specificità di oggetto (come se la cultura fosse l’oggetto di quel particolare ramo della semiotica che è la semiotica della cultura) ma per una specificità di pertinenza: considerare culturalmente il senso («nel quadro della vita culturale», per fare eco a Saussure). Non crediamo, infatti, che la cultura sia qualcosa che abbia una natura in qualche modo sostanziale, che sia l’insieme di alcuni saperi (usi, tradizioni, lingua, memoria) o che abbia dei tratti definitori; crediamo semmai che sia più simile a un effetto di senso, a una risultante che appare a seguito di una serie di operazioni di osservazione o a un’ipotesi regolativa che ci è utile per parlare di noi, attribuirci delle identità, spiegarci il mondo. Qualcosa di cui non possiamo fare a meno discorsivamente per pensare noi stessi e parlare di noi (e anche in questo libro non ci sottrarremo a questa necessità, di fatto usando il termine «cultura» in un modo che sembra sostanzialistico) ma della cui natura è difficile sapere e discutere (meglio – teologicamente – cercarne delle «prove», delle manifestazioni e ragionare su quelle). Qualcosa, insomma, che viene vissuto e praticato senza troppa consapevolezza e intenzionalità, e di cui si rivendica l’esistenza per attribuirsi un’identità, o qualcosa che viene rintracciato ex post, dall’osservatore che collega una serie di manifestazioni coerenti.
Nel corso di questo lavoro passeremo continuamente dall’uno all’altro di questi livelli: da una parte la cultura per i soggetti che la vivono senza necessaria consapevolezza, dall’altra la cultura per i soggetti che la osservano e che, col loro sguardo, la costruiscono, la definiscono. Naturalmente ci situeremo prevalentemente a questo secondo livello, ma non potremo esimerci dal tenere presente che il modo in cui noi parleremo, da analisti, di cultura non è lo stesso modo in cui tale idea è presente nei soggetti che fanno, praticano, vivono quotidianamente quella cultura.
1. Tre testi esemplari
Per iniziare a definire il punto di vista culturale che vorremmo assumere e suggerire, in queste prime pagine ci avvarremo di tre testi (non tutti e sempre semiotici) che consideriamo «esemplari»:
– l’introduzione a L’archeologia del sapere di Michel Foucault (1969);
– il primo capitolo dell’Età neobarocca di Omar Calabrese (1987);
– uno studio sui quadretti popolari russi di Jurij Lotman (1976, ora in Lotman 1980).
In modo particolarmente chiaro, sintetico e con un lessico poco tecnico (che dunque ci consente di utilizzarli come riferimenti di avvio), tutti e tre questi testi esprimono l’approccio antisostanzialista e metodologico che vorremmo attribuire allo studio semiotico della cultura. Come una lente, la semiotica della cultura è secondo noi quell’ottica particolare che serve a mettere a fuoco certi specifici problemi; le caratteristiche di questa ottica sono la generalità, la capacità di creare correlazioni tra set di valori e serie di tratti morfologico-formali, la prospettiva funzionale. L’approccio generale è l’indicazione centrale che traiamo da Foucault; il rigoroso formalismo uno dei temi portanti di Calabrese, che ci invita a vedere il nesso fra morfologie e valorizzazioni; la prospettiva funzionale il presupposto portante del saggio di Lotman.
Ma vediamo da vicino cosa dicono questi autori. Ne proponiamo poco più che un riassunto, lasciando a loro, il più possibile, la parola.
Partiamo da Foucault.
All’inizio dell’Archeologia del sapere, Foucault, posto di fronte all’evoluzione del sapere storico (che nel ’900 ha smesso di essere so-lo storia politica, storia di guerre, battaglie e trattati di pace, per far-si sempre di più sapere di vicende lunghe, periodi lunghi, storia materiale: storia delle carestie, storia delle vie marittime, storia della siccità, storia dell’alimentazione), si chiede se si possano definire criteri per le periodizzazioni delle civiltà, come si possano collegare avvenimenti ed epoche disparate, se sia possibile ricostituire totalità o solo concatenazioni di fasi, o superposizioni di strati, e si interroga sui vari tipi di «sistemi di relazione» che in realtà complesse come quelle culturali si possono individuare: gerarchie, dominanze, stratificazioni, determinazioni univoche, causalità circolari.
Il senso in cui l’infrazione di un patto causa una guerra non è lo stesso in cui la decadenza di una via marittima determina un cambiamento nell’alimentazione, che a sua volta motiva la comparsa di una malattia. Come è possibile, dunque, creare sistemi di relazione omogenei? Che limiti si devono assumere?
Di fronte all’eterogeneità del mondo, secondo Foucault,
il problema è quello di costituire delle serie: di definire per ciascuna di esse i suoi elementi, di fissarne i limiti, di evidenziare il tipo di relazione che le è specifico, di formularne la legge, e, inoltre, di descrivere i rapporti tra serie diverse, per costituire in tal modo delle serie di serie, o dei ‘quadri’ (Foucault 1969, p. 11).
Foucault propone, insomma, di fare ordine raggruppando elementi analoghi, per fare poi confronti e stabilire quali relazioni ci siano fra le varie serie rintracciate. In questo modo, secondo lui, si può avere una comprensione generale del mondo, della cultura, della storia, senza cadere nella tentazione fallimentare di una comprensione globale delle cose.
Ecco come distingue «generale» e «globale»:
il progetto di una storia globale è quello che cerca di ricostruire nel suo insieme la forma di una civiltà, il principio, materiale o spirituale, di una società, il significato comune a tutti i fenomeni di un periodo, la legge che spiega la loro coesione, ciò che si chiama metaforicamente il ‘volto’ di un’epoca. [...Se invece si problematizza] la serie, le scansioni, i limiti, i dislivelli, gli scarti, le specificità cronologiche, le strane forme di persistenza, i possibili tipi di relazione [...] il problema che si apre è quello di determinare quale forma di rapporto possa essere legittimamente descritta tra queste serie differenti: quale sistema verticale possano venire a formare; quale sia il meccanismo delle correlazioni e delle dominanze tra le une e le altre; quale effetto possano avere gli scarti, le differenti temporalità, le diverse persistenze; in quali insiemi distinti possano figurare simultaneamente determinati elementi; insomma, non soltanto quali serie, ma quali ‘serie di serie’ – o, in altri termini, quali ‘quadri’ – sia possibile costituire. Una descrizione globale racchiude tutti i fenomeni attorno ad un unico centro, principio, significato, spirito, visione del mondo, forma d’assieme; una storia generale dovrebbe invece mostrare tutto lo spazio di una dispersione (Foucault 1969, pp. 14-15).
Questa indicazione di Foucault ci sembra di capitale importanza.
Lo studio della cultura (compreso lo studio semiotico della cultura) non può prescindere da una considerazione generale del senso; non può insomma limitarsi e accontentarsi dello studio di un microfenomeno testuale, o di un comportamento singolo, o di un particolarissimo spot. La semiotica della cultura può occuparsi di questi singoli testi solo se li vede in una prospettiva generale, ovvero per la serie di rapporti che questi oggetti singolari intrattengono con gli altri oggetti della serie cui appartengono (un genere testuale, ad esempio) o con le altre serie presenti nel sistema (altri linguaggi, altri tipi di comportamento, altri sistemi sociali). Non dunque «Sylvie» di Nerval in sé, per le dinamiche temporali che ne definiscono ritmo ed effetti di rarefazione; o «Deux amis» di Maupassant per le sequenze, i temi, le isotopie, gli investimenti assiologici che mette in scena, ma «Sylvie» o «Deux amis» come elementi di una serie culturale significativa: il rapporto vita-teatro nella Francia dell’800, la rappresentazione del sentimento di amicizia nella narrativa moderna, lo stile di comportamento dei soldati tedeschi tra ’800 e ’900 etc.
Non per questo, si deve pensare di poter mettere in relazione tutto e spiegare in modo totalizzante una cultura. Le culture non si esauriscono; non si totalizzano in una somma globale, in una descrizione d’insieme, che tutto comprenda.
Le culture si disperdono, come abbiamo letto in Foucault, e lo studioso di cultura deve rendere conto di tale dispersione, individuandone le logiche, le regole, gli spazi.
Non molto diversa è l’interrogazione di Omar Calabrese, in uno studio quasi ante litteram di semiotica della cultura.
Nel primo capitolo del suo saggio L’età neobarocca, Calabrese parte dal chiedersi se sia possibile individuare (come spesso si era fatto fino ad allora) «un carattere, una qualità, un contrassegno generale» per definire un’epoca. Esiste, insomma, qualcosa come una cultura? A suo avviso, l’idea che fenomeni diversi possano essere facilmente raggruppati sotto un’unica chiave esplicativa o un’unica etichetta è opinabile. Prima ancora di comparare e raggruppare i fenomeni, peraltro, non è affatto ovvio come fare a stabilire la rilevanza degli elementi da prendere in considerazione (chi mi dice che la laicità sia un valore rilevante dell’oggi, e non sia invece più significativo l’ecologismo?) e, di conseguenza, è opportuno chiedersi se sia lecito «etichettare» un’epoca con una serie di motivi emergenti e non altri. Calabrese pone il problema della unitarietà e definibilità di un’epoca, ovvero della coerenza e capacità totalizzante di una cultura: una cultura è davvero e solo una? Ha davvero delle qualità distintive che la definiscono?
Ovviamente la risposta è no: «la storia è costituita dall’affrontarsi di fenomeni distinti, conflittuali, complessi. Quando non addirittura incommensurabili e non confrontabili fra di loro» (Calabrese 1987, p. 6). E tuttavia, aggiunge Calabrese, «i fenomeni si costituiscono in ‘serie’ o ‘famiglie’ a causa di reciproche pertinenze» (ibid.) e queste pertinenze sono stabilite da chi osserva, dal suo punto di vista: l’epoca della Restaurazione è caratterizzata da un ritorno all’ordine e una serie di fenomeni sono leggibili così, ma solo una serie di fenomeni. Molte altre cose, che pure si sono date, non hanno avuto a che fare con il ritorno all’ordine e sarebbero invece rilevanti adottando un altro punto di vista. Lo studio della cultura ha, insomma, un netto carattere prospettico:
se il carattere dipende dal punto di vista e dalle regole di pertinenza, è pacifico che non ci possa essere un carattere solo, ma molti. E questi caratteri potranno peraltro esistere in modo molteplice anche all’interno della stessa regola di pertinenza o dello stesso punto di vista (Calabrese 1987, pp. 6-7).
Siccome ci sono livelli molteplici di organizzazione e reiterazione dei caratteri di un’epoca, pensare di ridurre la complessità a unitarietà e la totalità a controllo è utopia. In un’analisi non ci si potrà mai occupare della cultura tutta; se ne analizzerà solo una regione, una località, con la consapevolezza che anche la «località è organizzata secondo delle reti di modelli: queste reti sono la ‘qualità’ che accomuna localmente certi oggetti culturali» (Calabrese 1987, p. 8).
Tali qualità non hanno nulla di essenzialistico, ma sono aspetti resi commensurabili dall’analista, «pesati» con uno stesso criterio e così resi confrontabili, in relazione gli uni con gli altri. Ogni epoca presenta numerosi sistemi di concetti. Non si tratta di scegliere il migliore, ma di sceglierne uno e «far lavorare quello» (Calabrese 1987, p. 10). Scelto un criterio, dunque, si tratta di costruire delle serie di oggetti che non necessariamente sono stati costruiti in partenza come omogenei ma che, una volta raccolti, producono «l’effetto-cultura».
È quello che fa Calabrese nel volume sull’età neobarocca (forma culturale che forse let...