La Sinistra nella storia italiana
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La Sinistra nella storia italiana

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La Sinistra nella storia italiana

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Offrire un'interpretazione sintetica, ma non schematica, delle vicende della sinistra italiana è, senza alcun dubbio, un'impresa difficile non priva di rischi. A Massimo L. Salvadori, che quest'impresa ha tentato e portato a termine con risultati assai brillanti, va il merito di averlo fatto con grande chiarezza e limpidità di scrittura, proponendo una tesi centrale che può essere certo discussa e magari respinta, ma che è caratterizzata da una sua interna, sostanziale coerenza.Nicola Tranfaglia, La Stampa.Aggiornato agli ultimi risultati elettorali del maggio 2001, il primo bilancio del ruolo della Sinistra italiana nel Novecento.

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Informazioni

XII. Il duello Pci-Psi nell’era del craxismo
e la comune disfatta

Nel decennio che seguì il 1973 la strategia berlingueriana del «compromesso storico» e l’eurocomunismo andarono incontro al fallimento; mostrando chiaramente l’una e l’altro di essere non già strumenti di un mutamento qualitativo, bensì un tentativo di innovazione nella continuità da parte di un comunismo italiano e occidentale preso tra ingovernabili contraddizioni.
Dopo il grande successo elettorale del 1976 il Pci, di fronte alla gravità della situazione interna italiana, scelse la strada della collaborazione con la Dc e i suoi alleati, appoggiando dall’esterno il monocolore presieduto da Giulio Andreotti. Fu la fase della cosiddetta «non sfiducia». L’ipotesi comunista, basata sulla convinzione espressa da Moro che fosse tempo di fronteggiare la crisi nazionale con il coinvolgimento del Pci in modi tutti da chiarire, era che successivamente si potesse passare alla fase «compromesso storico» con la formazione di un governo di unità nazionale espressione dell’«arco costituzionale». Ma le resistenze all’interno della Dc erano assai forti e a esse si aggiungeva, determinante, l’opposizione dell’amministrazione statunitense. Dopo la caduta del quarto governo Andreotti nel 1978, la Dc chiese al Pci l’ingresso non già al governo, bensì nella maggioranza. Un passo che Berlinguer percepiva quanto potesse essere rischioso per il suo partito, ma a cui il Pci si piegò con riluttanza nella persuasione che esso aprisse la prospettiva di un futuro governo di coalizione. Formatosi il quinto governo Andreotti, a far cadere le resistenze a votare la fiducia a causa della sua insoddisfacente composizione fu il rapimento di Moro a opera delle Brigate rosse. A quel passo, in una situazione di vera e propria emergenza, il Pci si decise per un senso di responsabilità, profilandosi il rischio del collasso istituzionale. Ebbe così inizio la fase della «solidarietà nazionale». Quando all’inizio del 1979 il governo di solidarietà nazionale cadde, il Pci appariva pesantemente logorato e nel partito la frustrazione era molto diffusa. Lo scacco era bruciante. La proposta, lanciata nell’autunno del 1978, di avviare una politica di «austerità» per affrontare le difficoltà dell’economia e del bilancio pubblico, la linea della fermezza a difesa dello Stato durante la prigionia di Moro, il successo conseguito nel sostegno aperto all’elezione di Sandro Pertini a presidente della Repubblica, non poterono essere capitalizzati da un partito che, mentre respingeva una strategia di «normale» alternativa riformatrice e il valore della conquista del 51 per cento dell’elettorato, per un verso, teneva un profilo troppo «alto», presentandosi sulla scena come fautore di una «terza via», diretta al superamento del capitalismo in una non abbandonata solidarietà di fondo con i paesi socialisti, e, per l’altro, si adattava a fare il «portatore d’acqua» a sostegno di governi diretti da un esponente democristiano come Andreotti.
Tutte le contraddizioni della strategia berlingueriana emersero al XV Congresso del Pci della primavera 1979. Qui il segretario polemizzò contro chiunque parlasse di «fallimento» del pensiero e dell’opera di Lenin1; diede per definitivamente accertata l’«ormai storica incapacità del capitalismo», esortando a non smarrire «mai» la «qualitativa differenza» tra le crisi organiche dei paesi capitalistici e quelle parziali dei paesi socialisti, nei quali lo sviluppo restava la tendenza dominante; sottolineò che i paesi socialisti non avevano risolto i problemi della democrazia e della libertà e dovette prendere atto, di fronte all’erompere del conflitto tra Cina e Vietnam, che anche tra paesi socialisti potevano darsi guerre ingiuste2; rassicurò i dubbiosi che il partito non aveva intrapreso «una via opportunistica» di rinuncia ai fini rivoluzionari3 e che la proposta di un «governo di coalizione democratica» non contraddiceva «le prospettive di avanzata democratica e socialista in Italia»4. Nelle tesi approvate al Congresso, si ripeteva la critica ai partiti socialdemocratici per non aver «portato la società fuori dalla logica del capitalismo»5.
Le elezioni del 1979 dimostrarono come la via seguita producesse non maggiore ma minore consenso. Il Pci subì una forte perdita passando dal 34,4 per cento al 30,4, mentre la Dc rimase stabile col 38,3. Il Pci pagò lo scotto sia a quanti giudicavano un insuccesso aver appoggiato il governo Andreotti senza che quest’appoggio avesse poi aperto la strada all’ingresso al governo sia a coloro che da sinistra protestavano per la «subalternità» alla borghesia di un partito che continuava a definirsi rivoluzionario. A non raccogliere consenso era anche il Psi, fermo al 9,8 per cento.
Mentre Berlinguer ancora inseguiva la linea del compromesso storico che poco dopo sarebbe stato costretto ad abbandonare, il Psi nel 1976 si era dato una nuova direzione politica, affidando la segreteria a Bettino Craxi, il leader che avrebbe portato i socialisti a una nuova stagione del centro-sinistra e avrebbe aperto una lunga fase di ininterrotta ostilità nei confronti del Pci.
Allorché si prenda a considerare il Partito socialista italiano durante gli anni di Craxi, di molte cose si può dubitare, ma non che esso non sia stato un partito nuovo. Fu nuovo nel senso che operò in modo da segnare una netta svolta, che per molti aspetti assunse il volto di una rottura, rispetto al suo passato. Nuovo per il suo identikit politico-ideologico, caratterizzato dal deciso abbandono del marxismo e del classismo. Nuovo per il modo in cui impostò i suoi rapporti con i due maggiori partiti che avevano fino ad allora dominato il sistema politico italiano. Nuovo per il ruolo, a partire dal 1983, di guida del governo, che non aveva precedenti nella storia del Psi e della Sinistra italiana. Nuovo per il tipo di leader rappresentato da Bettino Craxi, il quale arrivò a tenere nelle proprie mani il partito come nessuno prima di lui aveva fatto nella storia del socialismo italiano. Per certi aspetti Craxi esercitò una leadership che, per il suo carattere indiscusso e incontrastato, aveva un precedente e un punto di paragone possibile, nell’ambito della Sinistra italiana, soltanto in quella di Togliatti; la differenza è che la leadership craxiana giunse ad assumere aspetti, consapevolmente e attivamente perseguiti, di un forte personalismo plebiscitario, espressione di un clima politico e psicologico lontano da quello dei riti di legittimazione propri del partito e del gruppo dirigente comunisti.
Quando Craxi venne eletto segretario del Psi nel luglio del 1976, il socialismo italiano stava attraversando un momento di crisi profonda, rispecchiata dal quanto mai deludente risultato elettorale alle elezioni politiche del giugno; le quali, mentre avevano visto la Sinistra nel suo complesso conseguire un risultato assai notevole, col 44 per cento dei voti, mostravano uno stridente e crescente divario tra i socialisti, fermi al 9,6 per cento, e i comunisti giunti al maggior successo da essi mai ottenuto con il 34,4. La risposta all’interno del Psi fu inevitabile e, in effetti, del tutto fisiologica, vale a dire la ricerca di una nuova leadership. In questo contesto cadde l’elezione al Midas di Bettino Craxi, giovane dirigente autonomista milanese, che Nenni aveva allevato nella sua ultima stagione. Craxi diventò segretario in un clima interno al partito che ne rifletteva il carattere accentuatamente correntizio; ma al tempo stesso, segno assai indicativo della ricerca di una diversa strada, la sua elezione fu il frutto di una larga intesa, seppure gravata da certe riserve, tra le correnti. Insieme al giovane segretario, a farsi avanti furono altri giovani, coloro che formavano la leva che fu detta dei «quarantenni». Craxi era uno di loro; e tutti condividevano la convinzione che i grandi vecchi, Nenni, Lombardi, De Martino, avessero ormai, nel bene e nel meno bene, giocato le proprie carte. Il bilancio con cui essi si trovarono a fare i conti mostrava un partito deluso, frustrato, sotto la soglia del 10 per cento, ridotto a subire l’iniziativa politica della Dc e del Pci.
L’ascesa di Craxi alla segreteria era stata il prodotto di un compromesso tra le correnti. Nel giro di pochi anni, tra il 1976 e il 1981, vale a dire tra il Midas e il Congresso di Palermo, egli riuscì ad assumere il pieno controllo del partito, secondo un’efficace e spregiudicata strategia fondata sulla prassi del divide et impera, gettando le basi di quella che sarebbe divenuta la sua leadership incontrastata. Nel corso del 1977, in nome della piena vittoria dell’autonomismo, Craxi condusse la battaglia contro l’ala demartiniana, considerata troppo subalterna al Pci, alleandosi con la Sinistra lombardiana di Claudio Signorile; il nuovo assetto venne sanzionato al Congresso di Torino del 1978. Ma gli equilibri interni restavano fragili. Infatti, all’inizio del 1980 egli dovette affrontare, in relazione alla questione delle prospettive di governo, una minaccia quanto mai seria alla sua leadership, non ancora consolidata, quando una coalizione che comprendeva lombardiani, demartiniani, manciniani, Sinistra di Michele Achilli, oppose a Craxi, la cui segreteria aveva alle spalle un nuovo insuccesso elettorale – quello subito alle elezioni politiche del 1979 – il progetto di formazione di un governo con il Pci. La reazione di Craxi – favorita in maniera determinante dall’avvento alla guida della Dc di Flaminio Piccoli e Arnaldo Forlani decisamente contrari all’ingresso comunista nel governo – fu rapida, decisa e vincente; e poco dopo, una volta che ebbe preso consistenza la prospettiva della partecipazione socialista al governo con la Dc e dell’esclusione del Pci, la coalizione dei suoi avversari interni era dissolta.
Nei primi anni Ottanta Craxi portò a compimento tre operazioni strettamente collegate. La prima fu la messa in soffitta della linea dell’alternativa di sinistra alla Dc, che il Psi aveva abbracciato per rispondere al compromesso storico di Berlinguer ed esorcizzare l’ipotesi di un accordo tra Pci e Dc che lo emarginasse, e la sua sostituzione con quella dell’alternanza al governo di Psi e Dc, rivolta a creare le condizioni per la presidenza del Consiglio socialista sulla base della solidarietà dei partiti del «polo laico» e della costituzione di un patto con il Psdi. La seconda fu la rottura ideologica con la residuale matrice marxista e la proclamazione del Psi quale partito «riformista». La terza fu la definitiva trasformazione del Psi in un partito che, lasciandosi alle spalle i vecchi moduli organizzativi, puntava su un modello leaderistico e assembleare. In base a questo un capo forte, posto in posizione di assoluta preminenza, veniva attorniato da una cerchia ristretta di collaboratori in posizione subalterna. Una tale cerchia, a sua volta, poggiava sull’Assemblea nazionale, formata da una seconda élite, assai più larga della prima e composta, oltre che dai notabili del partito, da simpatizzanti di «area», esponenti autorevoli delle professioni, e destinata a fare da elemento intermediario tra il vertice del partito, la sua base, l’elettorato e più in generale l’opinione pubblica. La funzione dell’Assemblea non era quella di rappresentare un elemento attivo di elaborazione politica, bensì di fare da cassa di risonanza del leader e della cerchia stretta intorno a lui. Tipico fu il ricorso alle tecniche di una ritualizzazione che metteva da canto il precedente simbolismo ideologico-politico e ne adottava un altro direttamente orientato a esaltare il segretario nel quadro di assemblee-«feste» aventi primariamente la funzione di attirare l’attenzione dei mass-media.
Si trattò – dopo quella operata nel Pci negli anni Quaranta, con la linea espressasi nel «partito nuovo» – della più importante innovazione organizzativa compiutasi all’interno della Sinistra italiana, finalizzata al superamento del partito classista. Essa rispondeva a un modello americanizzante, consapevolmente accettato e perseguito, come ebbe a dichiarare nel 1983 Claudio Martelli, il quale parlò a proposito di «una ventata di modernizzazione e di americanizzazione» che si era abbattuta sulla «vecchia macchina» legata al partito di massa a base classista e alle sue strutture tradizionali di organizzazione e rappresentanza. Togliatti aveva puntato ad allargare la base del partito soprattutto alle grandi masse dei lavoratori e agli intellettuali. Il partito socialista craxiano puntò su un elettorato interclassista e sul voto di opinione da ottenersi con i messaggi e le immagini lanciate dal leader, dai suoi stretti collaboratori e dagli «opinionisti» legati direttamente o indirettamente al partito tramite le tecniche tipiche della società mediatica.
La riforma del partito venne condotta tra il Congresso di Palermo del 1981 e il Congresso di Verona del 1984. Nell’uno fu decisa l’elezione diretta del segretario nazionale a opera del Congresso; nell’altro quella dei segretari periferici dai congressi regionali e federali e la sostituzione del vecchio Comitato centrale con la nuova Assemblea nazionale. Il progetto avrebbe dovuto altresì comportare in prospettiva la costituzione di assemblee regionali. Importante completamento fu la formazione di clubs, di suggestione francese, destinati a costituire, secondo lo schema della raggiera, avente il suo centro nell’Assemblea nazionale, uno schema in grado di raccogliere e attivare su scala locale il consenso socialista, puntando non più sulla vecchia base formata prevalentemente da operai, funzionari e intellettuali di partito, ma in primo luogo su un nuovo «notabilato» composto da esponenti della politica, della cultura e del mondo delle professioni collocati negli strati sociali medio-alti. Il modello era frutto della consapevolezza della crisi oggettiva, sempre più rapida, pro­fonda e irreversibile, del partito basato sulle sezioni territoriali e sull’ideologia del primato del proletariato di fabbrica. Esso era destinato a fare molta strada e a essere fatto proprio nelle linee essenziali anche dal partito post-comunista, nella sostanza e nella forma, in corrispondenza con il cedimento e il superamento del carattere classista dei partiti della Sinistra. E in effetti nel 1987 il Psi mostrava una composizione sociale nettamente interclassista, con il 35 per cento di operai, il 27 per cento di impiegati, il 17 per cento di commercianti e artigiani, il 12 per cento di liberi professionisti e imprenditori, il 5 per cento di insegnanti e il 4 per cento di agricoltori. Il processo di terziarizzazione risultava quanto mai evidente.
Un aspetto caratterizzante del partito craxiano fu il modo in cui venne affrontato il problema, di cruciale e tradizionale importanza, delle correnti. Il segretario lo risolse per un verso accettando le correnti stesse con le loro rispettive reti di influenza locale, per l’altro addomesticandole sempre più efficacemente grazie al successo conseguito nell’affermare una posizione di preminenza personale indiscussa nel partito, al ruolo centrale assunto dal partito all’interno del sistema politico e al formarsi di un consenso forte non tanto in campo ele...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione alla nuova edizione
  2. Introduzione alla prima edizione
  3. I. Il Partito Socialista nella crisi di fine secolo. L’eredità dell’anarchismo e le radici dell’antistatalismo
  4. II. L’appuntamento mancato con Giolitti
  5. III. Guerra e dopoguerra. L’attacco del massimalismoallo stato debole e la reazione nazionalisticae autoritaria
  6. IV. 1920. La disfatta del massimalismo
  7. V. La battaglia non combattutaper la difesa della democrazia: la ragione senza storia e la storia senza ragione
  8. VI. Il socialismo liberale. Il progetto di una «terza via»tra liberalismo conservatoree socialismo autoritario
  9. VII. La sinistra e l’antifascismo. Le luci, le ombre e le tenebre
  10. VIII. Resistenza e costruzione della democrazia. La lotta ambigua
  11. IX. Dal Fronte Popolare al centro-sinistra. Crisi e fine dell’unità
  12. X. Le ambizioni del primo centro-sinistra e lo scacco socialista
  13. XI. L’esaurimento del centro-sinistra, il sessantottismo, l’eurocomunismo. L’occasione perduta del Pci
  14. XII. Il duello Pci-Psi nell’era del craxismo e la comune disfatta
  15. XIII. La sinistra degli anni Novanta alla ricerca incompiuta di un’identità
  16. XIV. La sinistra dalla guida del governo alla vittoria del centro-destra