I giorni di Milano
  1. 240 pagine
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Dai racconti sulla nascita di Milano al suo divenire una delle capitali dell'impero romano; dalla fine dell'indipendenza del ducato milanese - sotto il dominio prima spagnolo, poi austriaco e francese - alla vivacità della cultura milanese testimoniata da "Il Caffè", il più prestigioso periodico dell'Illuminismo italiano, e all'incoronazione di Napoleone Bonaparte nel Duomo; dalle Cinque Giornate del marzo 1848, anno di rivolte e di speranze, fino al 25 aprile 1945, la Liberazione, con Milano che insorge contro il nazifascismo, memore di sé e della sua storia.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858101155
Categoria
Archaeology

1º novembre 1535-19 dicembre 1548. Dagli Sforza agli Asburgo di Spagna
di Giuseppe Galasso

Due eventi di grande rilievo spiccano nella storia di Milano, e non solo nella storia della città lombarda. Il primo è costituito dalla morte del suo ultimo duca indipendente, Francesco II Sforza, nella notte tra 1° e il 2 novembre 1535; il secondo è l’ingresso dell’allora ancora principe e poi re di Spagna Filippo II d’Asburgo nella città, il 19 dicembre 1548, durante il viaggio che allora faceva in Italia. Due avvenimenti, uno funerario, l’altro trionfale, che, tuttavia, erano strettamente legati fra loro, tanto che li si può considerare come un unico evento, o, meglio ancora, come le due facce di uno stesso evento.
Cominciamo dal primo, dalla morte del duca. Chi era Francesco II? Secondogenito di Ludovico il Moro e di Beatrice d’Este, era nato il 4 febbraio 1492. Poiché la successione nella sovranità su Milano toccava al fratello maggiore Massimiliano, il padre gli assegnò come appannaggio alcuni feudi posseduti dagli Sforza nel Regno di Napoli, tra i quali Bari, per cui Francesco portò a lungo il titolo di duca di Bari. Conquistata Milano dai francesi nel 1499, andò esule col padre e col fratello nelle terre imperiali e asburgiche del Trentino e del Tirolo. Poi l’anno dopo il padre tentò la riconquista del suo ducato, ma fallì miseramente e fu portato prigioniero in Francia, dove si spense nel 1508. I due fratelli restarono nelle terre degli Asburgo, ridotti quasi senza mezzi, malgrado le ingenti somme e i valori portati con sé nel partire da Milano.
Francesco pareva destinato alla carriera ecclesiastica e – secondo il costume del tempo – a diventare cardinale. Poi la ruota della fortuna girò. Nel 1512, nelle intricate vicende della politica italiana ed europea di quegli anni, il fratello Massimiliano riottenne il trono paterno e divenne duca di Milano. Il suo governo fu, peraltro, molto agitato sia per le pressioni esterne, nascenti dalla costante aspirazione francese a riprendersi Milano, sia per il malcontento interno, per cui egli si vide costretto a rinunciare ad alcuni tributi e ad altre prestazioni finanziarie. Quando nel 1515 i francesi rinnovarono il loro tentativo, Massimiliano poté, tuttavia, arruolare ben 30.000 svizzeri. Questi il 13 e 14 settembre combatterono per lui a Melegnano contro un esercito franco-veneziano di forza doppia in quella che fu definita la «battaglia dei giganti» per l’asprezza e il valore con cui dalle due parti si combatté. Gli Sforzeschi persero e, come il padre, Massimiliano dové prendere la via dell’esilio in Francia, dove morì nel 1530.
Con l’esilio di Massimiliano, Francesco, che già aspirava a sostituire il fratello nella successione al padre, divenne, in pratica, il titolare dei diritti degli Sforza su Milano, e già ormai si firmava dux Mediolani et Barii. Si spiega che su di lui puntasse il papa Leone X, il figlio di Lorenzo il Magnifico, che voleva evitare che Milano cadesse in signoria di stranieri, francesi o spagnoli o tedeschi che fossero, e voleva ristabilirvi un signore italiano che vi avesse un chiaro diritto, come appunto era il caso di Francesco, che così nel 1521 poté cingere, di nuovo per la sua Casa, la corona ducale. Secondo il cronista degli Sforza Scipione Barbuò Soncino, egli fu allora «molto amorevolmente richiamato» anche dai milanesi, «i quali, odiando il dominio superbo de’ Francesi, molto di più amavano quello del lor natural signore, e perciò discacciarono i Francesi».
A Milano Francesco II arrivò solo il 4 aprile 1522. Nel frattempo aveva affidato il governo del ducato a Girolamo Morone quale suo luogotenente e poi come cancelliere e membro del Senato istituito in Milano dai francesi nel 1500. Il Morone era partito da posizioni filofrancesi, ma si era poi accostato al partito imperiale, ritenendo che senza un tale appoggio l’indipendenza milanese non si sarebbe potuta mantenere. Carlo V era, dal 1516, sovrano dei reami spagnoli di Castiglia e d’Aragona e, dal 1519, del Sacro Romano Impero, ormai ristretto alla Germania, che però conservava molti titoli di diritto in Italia (tra questi titoli era anche quello della sovranità imperiale su Milano). La politica dell’imperatore cominciava ora a seguire un suo disegno di egemonia in Italia e in Europa di cui ben presto si sarebbero visti tutti i contorni.
Intanto, però, fu l’appoggio imperiale a proteggere il duca dai ritorni offensivi dei francesi fino a quando nel 1524 essi si impadronirono di Milano, anche se Francesco riuscì a tenere nelle sue mani il Castello della città. La lotta era ormai apertamente tra Carlo V e il re di Francia, Francesco I, e fu decisa, sostanzialmente, nella grande battaglia che si svolse il 24 febbraio 1524 sotto le mura di Pavia. Assediata, la guarnigione spagnola, comandata da Antonio de Leyva, resisteva, ma era ormai allo stremo quando sopravvenne un esercito di soccorso al comando di Alfonso d’Avalos. I francesi, presi in mezzo tra il de Leyva e il d’Avalos, subirono una delle più grandi sconfitte della loro storia militare. Lo stesso re Francesco I fu preso prigioniero, e appunto in quella occasione egli avrebbe scritto alla madre Luisa di Savoia: «tutto è perduto, fuorché l’onore».
Il trionfo di Pavia delineò chiaramente l’egemonia spagnola in Italia. Preoccupati, gli Stati italiani, intorno al papa Clemente VII, tentarono un’intesa con la Francia. A questa lega antispagnola stretta nel 1526 tra il re di Francia, il papa, Venezia e Firenze contro Carlo V partecipò anche Francesco Sforza, nonostante fossero stati gli spagnoli a riportarlo a Milano, dopo la grande rotta francese di Pavia. Gli spagnoli avevano avanzato, però, enormi pretese in cambio dell’appoggio che così gli avevano dato, fra cui anche la cessione dei diritti di Francesco sul ducato di Bari nel Regno di Napoli. Francesco aveva tentato di resistere, e si spiega così il suo indulgere al tentativo della lega antispagnola, di cui Girolamo Morone fu gran parte. La reazione di Carlo V fu poderosa e violenta. Il Morone fu fatto arrestare dal d’Avalos, e fu sul punto di pagare con la vita la sua condotta; il ducato fu tutto occupato dalle milizie di Carlo V; e a stento Francesco II riuscì a scampare al sospetto di aver preso parte alla «congiura» (come la definirono gli spagnoli) del Morone. In quei frangenti Francesco II dové badare a non cadere prigioniero delle truppe imperiali, comandate allora da Carlo di Borbone, uno dei maggiori nobili francesi, che si era ribellato al suo re passando al servizio di Carlo V. Si chiuse perciò nel castello e vi restò fino al luglio 1526, quando si accordò col Borbone e si rifugiò in territorio veneziano. Seguirono tre anni difficili, tra guerre, e accordi e disaccordi coi suoi stessi alleati franco-veneziani.
Intanto le truppe di Carlo di Borbone si congiunsero con quelle che venivano dalla Germania e marciarono su Roma. Travolsero la resistenza dell’esercito pontificio, comandato dal valoroso Giovanni de’ Medici (Giovanni dalle Bande Nere), piombarono su Roma, espugnandola il 5 maggio 1527, e procedettero al terribile «sacco» della città, che rimase memorabile negli annali romani e pontifici, ma fece anche grandissima impressione in tutta Italia e in Europa e contribuì a diffondere the Spanish Terror, il terrore delle armi spagnole, che per oltre un secolo avrebbe dominato la scena politico-militare europea. I francesi tentarono ancora la riscossa e un loro esercito, al comando di Odet de Foix, visconte di Lautrec, antenato del grande pittore, uno dei loro migliori capitani, scese in Italia e andò nel 1528 ad assediare Napoli. Sennonché la peste devastò e distrusse l’armata francese, mentre il passaggio di Genova all’alleanza con la Spagna l’aveva già lasciata senza alcuna copertura navale. Fu giocoforza riconoscere allora la supremazia spagnola. Con la pace di Cambrai del 5 agosto 1529, la pace detta delle due Dame perché negoziata da Luisa di Savoia per il figlio Francesco I e da Margherita d’Austria, zia di Carlo V, per il nipote, i francesi riuscirono a salvare la Borgogna, pretesa dagli Asburgo, ma dovettero rinunciare a ogni loro pretesa in Italia e nei Paesi Bassi e pagare una enorme indennità di 2 milioni di scudi d’oro.
Anche Clemente VII dovette piegarsi alla superiorità di Carlo V, che incontrò a Barcellona nello stesso 1529 e poi nel febbraio 1530 incoronò imperatore a Bologna, nel corso di una serie di negoziati durata più mesi. Nella sistemazione delle cose italiane allora stabilita, Milano, soprattutto per l’insistenza del papa, toccò ancora una volta a Francesco II.
Questa volta, però, il ritorno dello Sforza sul trono milanese fu pesantemente condizionato. Il duca si era recato di persona a Bologna a ossequiare il papa e l’imperatore, e Carlo V lo aveva accolto con grande cortesia. Tuttavia, lo Sforza fu obbligato a pagare entro un anno una indennità di 400.000 ducati, e poi altre dieci rate annuali di 50.000 ducati: in tutto, quindi, 900.000 ducati.
Il duca tornò a Milano nel luglio del 1530, e dovette per prima cosa imporre ai suoi sudditi di sostenerlo nel pagamento della pesantissima indennità che gli era stata imposta. Il ducato rispose ancora una volta a una richiesta finanziaria non meno gravosa delle precedenti, e davvero si resta ammirati della capacità contributiva della Lombardia, e in particolare di Milano, in questi anni. Era dal 1521, ossia dall’inizio della guerra tra Carlo V e la Francia, che le richieste ora degli Sforza, ora dei vincitori del momento, spagnoli o francesi che fossero, assillavano i lombardi, e specialmente i milanesi, con la riscossione di enormi somme, molto spesso da pagarsi a scadenza immediata; e si riuscì sempre a farvi fronte.
Cominciò così il secondo governo di Francesco II nel ducato. Vari elementi lo contraddistinsero, e concorsero a dare un certo volto alla personalità politica del duca, che il marchese di Pescara aveva giudicato un codardo e che tutti trovavano esitante, infido, ma che evidentemente – se si pensa al mondo politico italiano del Rinascimento – non mancava, su questo sfondo, di una sua accortezza politica.
Colpisce anzitutto la sua ricerca di una riorganizzazione del governo del ducato. Ne aveva già abbozzato un anticipo in un suo provvedimento del 1528, disegnando un apparato di governo, con la Cancelleria segreta, con il Senato, con la Tesoreria, con il Magistrato ordinario e straordinario e vari altri uffici, nonché coi podestà di Milano, Pavia, Cremona, Alessandria, Como, Lodi e Novara, a cui nel 1530 si aggiungerà Vigevano elevata al rango di città. Su questa linea Francesco II proseguì, incaricando una commissione di giuristi – fra i quali Francesco Grassi, maggiore curatore di questa riorganizzazione, e presieduta dal presidente del Senato, Gian Filippo Sacchi – di definirne il progetto.
Francesco II cercò pure di venire incontro alle necessità della popolazione del ducato, oppressa da un fiscalismo senza limiti, ridusse dopo un po’ qualche prestazione, e nel 1533 elargì pure un privilegio agli ebrei davvero degno di nota.
Del resto, pur fra le enormi difficoltà del suo governo, Francesco non mancò di continuare la politica di mecenatismo artistica e culturale dei principi italiani del Rinascimento. La cappella musicale ducale subì una grave decadenza, ma il duca ebbe vivi interessi artistici. Addirittura gli è stata attribuita una linea meditata di politica artistica. Egli, a detta di Rossana Sacchi, fu «poco incline ad accettare gli schemi del montante manierismo e attratto invece da un compromesso fra l’arte della generazione precedente alla sua e un ‘moderno’ votato alla rappresentazione del decoro e della devozionalità». Poi il suo disegno sarebbe rimasto interrotto dal corso degli eventi, ma l’arte lombarda avrebbe preso allora un nuovo cammino, volgendosi «alla produzione di preziosi oggetti suntuari e da Kunst-und-Wunderkammern». Certo è che il duca si interessò della facciata del Duomo, donò alla diocesi di Vigevano una serie di arazzi di grande valore, e anche nelle sue monete notiamo una grande cura estetica.
Si ebbe poi nel 1533 una visita di Carlo V a Milano, o meglio un suo passaggio nel suo itinerario italiano di quell’anno. Formalmente Francesco II lo poté ricevere da sovrano indipendente. La realtà era, però, ormai diversa, e tutti lo sapevano. Come garanzia dell’indennità stabilita a Bologna, gli spagnoli presidiavano alcune piazze importanti come il castello di Milano e quello di Como, ma in effetti tenevano in pugno, dopo la pace di Cambrai del 1529 e gli accordi di Bologna del 1530, l’intera situazione italiana. La visita di Carlo V, sovrano del Sacro Romano Impero, dal quale in diritto dipendeva Milano, era, perciò, la visita di un protettore-padrone, e seguiva la stipulazione, nel febbraio 1533, di una sua lega con vari principi italiani, e fra gli altri lo Sforza, per cui si convenne che i collegati formassero un esercito comune che avrebbe alloggiato in Lombardia al comando di Antonio de Leyva. E non a caso, dunque, fu proprio allora che, per impulso dell’imperatore, si decise il matrimonio di una sua nipote, Cristina, figlia del re di Danimarca Cristiano II, con Francesco II.
Il duca aveva allora 41 anni. Si sapeva bene che la sua salute era malferma. Già nel 1528 il veneziano Marco Foscari lo aveva descritto «infirmo del corpo» e «di complexione malinconica», con «mal color nel corpo», e «molto timido et sospettoso», per nulla sereno, data la sua «mente presaga di male, di sorte che sempre el pronostica male». Quando era stato a Bologna nel 1530 e aveva incontrato papa Clemente VII, aveva cercato di genuflettersi secondo il cerimoniale per il bacio della pantofola pontificia, ma non era riuscito a «piegar gambe e piedi» e il papa, comprensivo, lo aveva esentato da quell’atto di omaggio e gli aveva impartito lo stesso la sua benedizione. Ormai poteva camminare soltanto col bastone e appariva sempre debole, malaticcio, fisicamente insicuro. Il suo umore pessimista e malinconico si poteva ben capire.
La sposa Cristina aveva allora 13 anni. Quale potesse essere il frutto di un tale matrimonio non si poteva prevedere. Era chiaro soltanto che il matrimonio voluto da Carlo V, stabilendo una stretta parentela del duca con la famiglia imperiale, tendeva a immobilizzare Francesco II in una politica filoimperiale e filospagnola. La sposa fu prelevata dal conte Massimiliano Stampa a Bruxelles, dove si celebrarono per procura le nozze col duca, rappresentato dallo stesso Stampa; e, infine, Cristina giunse a Milano nel maggio dell’anno seguente, 1534. Fu ricevuta, comunque, con uno splendido corteo che la accompagnò, «tutta vestita de brochato d’oro e alla franzetta», prima al Duomo e poi al Castello; e qui, dicono i cronisti, «le venne stentatamente incontro il duca sposo, che appena reggevasi col bastone in piedi». Non fu dunque un caso se si disse che il matrimonio non venne consumato, per cui il Verri osservava che «il successivo silenzio de’ nostri cronisti, soliti a tener registro de’ ...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’editore
  2. I miti di fondazione di Eva Cantarella
  3. 7 dicembre 374. Ambrogio vescovo di Milano di Franco Cardini
  4. 29 maggio 1176. Barbarossa sconfitto a Legnano di Alessandro Barbero
  5. 9 febbraio 1498. Il «Cenacolo» svelato di Pietro C. Marani
  6. 1º novembre 1535-19 dicembre 1548. Dagli Sforza agli Asburgo di Spagna di Giuseppe Galasso
  7. 1° giugno 1764. La nascita del «Caffè» di Marco Meriggi
  8. 26 maggio 1805. Bonaparte incoronato in Duomo di Antonino De Francesco
  9. 18-22 marzo 1848. Le Cinque Giornate di Ernesto Galli della Loggia
  10. 28 aprile 1906. L’Esposizione internazionale di Giuseppe Berta
  11. 25 aprile 1945. La Liberazione di Sergio Luzzatto
  12. Gli autori