I contadini nella storia d'Europa
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I contadini nella storia d'Europa

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I contadini nella storia d'Europa

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Non sono lontani i tempi in cui i contadini rappresentavano la maggioranza della popolazione europea. Le campagne, con i loro ritmi, le forme di produzione, l'organizzazione sociale, hanno mantenuto – si potrebbe dire fino all'altro ieri – un peso preponderante nella storia d'Europa. L'analisi di Werner Rösener traccia con rigore l'evoluzione della vita rurale europea lungo dodici secoli di storia e tocca tutti i profondi cambiamenti che hanno interessato le campagne in questo esteso arco cronologico: dal sorgere della signoria fondiaria all'introduzione della rotazione obbligatoria, dall'inclusione in un'economia di libero mercato al traumatico impatto con la modernità.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858134665
Argomento
History

1.
Posizioni a confronto sul mondo contadino

La politica agraria europea e i sempre maggiori problemi che investono l’azienda contadina di tipo familiare sono da qualche tempo nuovamente al centro dell’attenzione, e dominano il dibattito sul mondo contadino europeo. L’agricoltura della Comunità europea sta attraversando un profondo mutamento strutturale che diverrà ancora più evidente nel futuro mercato unico europeo. La minaccia portata all’equilibrio dell’ambiente naturale, un’agricoltura che tende alla sovrapproduzione e il degrado dell’ecosistema terrestre costituiscono alcuni dei problemi posti da queste trasformazioni socio-economiche; essi mettono a dura prova la capacità di risolverli da parte del contadino e del consumatore, del politico e dello scienziato. A ciò si aggiungono il declino delle aziende agricole e una insensata sovrapproduzione, l’inquinamento dell’ambiente e uno sfruttamento agricolo distorto dei paesi in via di sviluppo, riconducibili tutti a un’unica matrice e strettamente collegati tra loro. Queste sono le inevitabili conseguenze della meccanizzazione e della diffusione della chimica seguite alla rivoluzione agraria del XIX e del XX secolo, e dell’industrializzazione dell’agricoltura dei decenni passati. Il progresso dell’economia agraria, che sulla base degli alti incrementi produttivi che garantiva si presentava come una ambita meta futura, si rivela oggi controproducente; i suoi costi economici, sociali ed ecologici superano attualmente, nei maggiori paesi europei, i benefici iniziali e sollevano interrogativi circa le cause di fondo di questa evoluzione «fatale» per il ceto contadino ­europeo.
Il mondo contadino, però, attira già da lungo tempo l’interesse tanto dell’opinione pubblica quanto della ricerca scientifica. Evidentemente il possibile declino del tradizionale ceto contadino, il pericolo della scomparsa degli antichi villaggi e i problemi della salvaguardia della natura e dell’ambiente, hanno richiamato l’attenzione di una più ampia opinione pubblica sul problema costituito dal mondo contadino e rurale. La ricerca scientifica sul ceto contadino e sul fenomeno delle comunità rurali ha come sfondo lo sviluppo della moderna società urbano-borghese nonché il processo d’industrializzazione del XIX e XX secolo che modificò radicalmente l’economia europea. Nell’ambito di questo tipo di ricerca si individuano due posizioni contrapposte: da un lato una concezione tradizionalista del mondo contadino, dall’altro un orientamento critico che richiama i lati oscuri delle forme di vita rurali.
Sotto l’influsso di filosofi, storici e sociologi si è affermato un indirizzo conservatore che stigmatizza l’anonimità e il senso di solitudine della vita cittadina, contrapposti in modo netto alla particolare sensibilità per lo spirito di comunità e per la sicurezza riconosciuti al villaggio. Il villaggio tradizionale si innalza, nella contrapposizione, diventata celebre, di Ferdinand Tönnies a simbolo di «comunità», rispetto alla quale la moderna vita metropolitana si definirebbe come una forma di «società» in negativo. I mutamenti nelle forme di vita contadine vengono spiegati con punte di critica e di condanna come trasformazioni dalla comunità rurale alla società rurale. Lo sradicamento dell’individuo, durante questo processo, è messo in risalto nello stesso modo in cui viene sottolineata la primitiva stabilità nei rapporti sociali interpersonali e nei legami parentali o di vicinato tipici dei secoli precedenti.
Al centro di questo sforzo restaurativo da parte di ideologi conservatori troviamo spesso l’antico ceto contadino europeo di cui si idealizza il modo di vita, mentre le innovazioni nell’ambito industriale urbano sono considerate segni di una presunta decadenza. Diversamente dai critici liberali e socialisti, Wilhelm Heinrich Riehl elogia per questo motivo l’influenza conservatrice dei contadini durante la rivoluzione del 1848, grazie alla quale i troni dei principi tedeschi sarebbero rimasti intatti;
il contadino detiene nella nostra patria un peso politico che ha eguali in pochi altri paesi europei; il contadino rappresenta il futuro della nazione tedesca. Grazie ai contadini la vita del nostro popolo viene continuamente rinnovata e ringiovanita. Se noi non ostacoliamo la riproduzione biologica del proletariato rurale, allora non dobbiamo temere più di tanto quel proletariato artigianale ed intellettuale... Le scelleratezze più gravi che la burocrazia statale ha commesso negli ultimi cinquant’anni erano in essa talmente radicate da renderla incapace di comprendere il vero animo dei contadini tedeschi, e da farle dimenticare un principio fondamentale, ovvero che il potere conservatore dello Stato riposa sul ceto contadino. La rivoluzione del 1848 ci mostra, in realtà, come fosse sbagliato quel modo di vedere le cose1.
L’idealizzazione delle forme di vita contadine e l’elogio della persistente forza del ceto contadino, contrapposti alla decadenza del mondo moderno, non si ritrovano solo nelle opere di uno studioso del folclore tedesco come Riehl. Nella letteratura francese, inglese e italiana dei secoli XIX e XX troviamo numerosi esempi di un mondo rurale abbellito e paragonato con nostalgia alla difficile vita delle concentrazioni industriali. Aduggiati e gravati dalle esigenze e dalle costrizioni della vita cittadina, si vagheggia una rigenerazione nel ritorno alla campagna; ingoiati da questa grande società urbana, sentita come disumana, si fantastica un modo di vivere più semplice e meno disciplinato, che si spera di rinvenire nell’idillio campestre. Questa nostalgia si rintraccia nelle opere di numerosi scrittori, folcloristi e sociologi secondo i quali l’antica cultura della società rurale con i suoi villaggi sarebbe stata più umana e più utile al benessere fisico e spirituale dell’individuo rispetto alla moderna società industriale, soffocatrice delle tradizionali forme di vita dei villaggi.
A questa visione tradizionalista delle forme di vita contadine si contrappone un orientamento critico la cui tradizione, a partire dagli illuministi del XVIII secolo, passando per i riformatori sociali del XIX, arriva fino ai rappresentanti della Scuola di Francoforte. Questo indirizzo caratterizza il villaggio e la famiglia contadina come una società coatta e pericolosa, come germe gravido di atteggiamenti reazionari, nonché come strutturalmente incapace di emanciparsi. Tale forma sociale ostacolerebbe la propria emancipazione, impedendo altresì un atteggiamento più aperto e illuminato verso altre forme di convivenza; inoltre gli impulsi provenienti dall’esterno non contribuirebbero entro i limiti di questo scenario rurale ad un suo cambiamento qualitativo. Theodor Adorno, esponente di spicco della Scuola di Francoforte, rispetto al villaggio parla addirittura di un «dovere di sprovincializzarsi». L’immagine che questa concezione filosofica ha della popolazione del borgo rurale è spesso pessimistica e riduttiva: la figura del contadino risulta tipicamente alterata attraverso l’ottica del villaggio e gli aspetti negativi della sua esistenza vengono eccessivamente accentuati. Si ritiene che l’evoluzione socio-culturale e la «sprovincializzazione» siano incompatibili con il villaggio e i suoi abitanti: esse non possono che arrivare dall’esterno, oppure devono essere raggiunte attraverso la formazione e l’istru­zione. A fronte di una simile caratterizzazione del mondo rurale, la società urbana e borghese rappresenterebbe indubbiamente la parte migliore della cultura umana.
Anche la letteratura socialista dei secoli XIX e XX non riconosce solitamente ai contadini capacità politiche progressiste e autocoscienza sociale. Karl Marx e Friedrich Engels furono talmente presi dal tema della emancipazione della classe operaia, che nessuno dei due prestò interesse al ceto rurale, anche perché essi erano convinti di una imminente, completa rovina dei resti del ceto agricolo pre-industriale. Già nel famoso Manifesto del partito comunista (1848), essi elogiano il progressismo della borghesia urbana, al quale contrappongono l’ottusità dei contadini: la borghesia avrebbe già strappato una parte considerevole della popolazione agricola all’«idiotismo della vita rurale». Per Marx ed Engels la proprietà fondiaria contadina rappresenta un fossile dei tempi trascorsi, è già condannata e destinata ad una graduale scomparsa. I contadini in quanto parte del ceto medio costituiscono, secondo Marx ed Engels, una forza conservatrice, anzi reazionaria; e volendo salvaguardare la propria esistenza come ceto medio da un possibile declino, essi combattono la borghesia progressista. Nel primo volume della sua opera maggiore, Il Capitale (1867), Marx designa i contadini nientemeno che come «baluardo dell’antica società», il quale grazie all’evoluzione storica sarà senz’altro spazzato via2. Allo stesso tempo egli si manifesta del tutto contrario all’azienda familiare contadina, caratterizzandola con scherno, come una «delle aziende più irrazionali e pigre», la quale, parallelamente all’avanzamento della moderna tecnica agricola, sarà destinata presto a scomparire. Al riguardo bisogna tuttavia notare che Marx non conosceva la realtà dell’azienda contadina e la giudicava pertanto solo con l’ottica di un «cittadino» formatosi sui libri.
Negli scritti dedicati da Marx ed Engels a tematiche contemporanee traspare continuamente un’aperta ostilità nei confronti dei contadini. Marx era esacerbato soprattutto nei confonti dei contadini francesi che durante la rivoluzione del 1848-49 sostennero il regime conservatore di Napoleone III. Tale atteggiamento della popolazione rurale francese rivelava inconfondibilmente, secondo il suo punto di vista, il vero volto di una classe rozza e reazionaria:
La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino rivoluzionario, ma il contadino conservatore; non il contadino che vuol liberarsi dalle sue condizioni di esistenza sociale, dal suo piccolo appezzamento di terreno, ma quello che vuole consolidarli; non quella parte della popolazione delle campagne, che vuol rovesciare la vecchia società con la sua propria energia, d’accordo con le città, ma quella che invece, ciecamente confinata in questo vecchio ordinamento, vuol essere salvata e ricevere una posizione privilegiata, insieme col suo piccolo pezzo di terreno, dal fantasma dell’impero. Essa non rappresenta la cultura progressiva, ma la superstizione del contadino, non il suo giudizio, ma il suo pregiudizio3.
Anche Engels biasimava allo stesso modo la «radicata ottusità», la «cecità» e la «cocciuta stoltezza» del contadino; sulla scia di Marx egli lo bollava come un barbaro del mondo moderno. Egli sarebbe stato tanto in Germania come in Francia un «selvaggio all’interno del mondo civile». Engels riconduceva questa specifica condizione contadina alla peculiare realtà della vita rurale, e nel farlo si serviva di modelli stereotipi:
L’isolamento del contadino in un villaggio remoto, con una popolazione poco numerosa che cambia soltanto con le generazioni, il lavoro faticoso e monotono che lo lega alla terra più di ogni schiavitù e che rimane sempre lo stesso da padre in figlio, la staticità e monotonia di tutte le condizioni di vita, l’ambiente angusto in cui la famiglia diventa per lui il rapporto sociale più importante e decisivo, tutto questo riduce l’orizzonte del contadino nei limiti più stretti che siano possibili nella società moderna. I grandi movimenti della storia gli passano accanto, di tanto in tanto lo trascinano con sé, ma senza che egli abbia un’idea della natura della forza motrice, della sua origine, della sua direzione4.
Ma oltre tali innegabili attestazioni di antipatia e di scarsa considerazione per i contadini, in Marx ed Engels troviamo anche alcuni accenni alla funzione innovatrice che i contadini avrebbero potuto avere nella storia. Presupposto necessario era che il proletariato ridestasse le potenzialità rivoluzionarie della popolazione rurale fino ad allora imprigionata negli artigli della reazione attraverso false promesse. Ma si cercherebbe invano nei due maggiori esponenti del socialismo un equo giudizio sulle condizioni dei contadini: infatti il modo di vita rurale era per loro, da un lato estraneo, dall’altro anche insignificante, poiché i contadini sarebbero stati ben presto superati senz’altro dal progresso sociale. La piccola economia agricola rappresenterebbe un freno per lo sviluppo socio-economico, un «peso morto», in grado di frenare ovunque il movimento dei lavoratori, come la definiva un libello polemico coredatto da Marx (Eccarius, 1869); essa non avrebbe mai dato buona prova di sé in alcun luogo e quindi non risulterebbe affidabile nemmeno per l’industria o il progresso sociale.
L’assunto generale di una preminenza economica della grande azienda sulla piccola azienda con la conseguente inevitabile esclusione di quest’ultima dal settore economico-industriale, viene esteso dal marxismo sen­z’al­tro anche al settore agricolo. Quando nei congressi della Prima Internazionale, fondata a Londra nel 1864, ci si occupò dei problemi agrari, la tesi di una presunta superiorità della grande azienda agraria rispetto alla piccola azienda diventò un punto fermo della dottrina socialista. Nel Manifesto di Ginevra si esplicita dal punto di vista dottrinario quanto segue: «La piccola azienda contadina, a causa dell’onnipotenza del capitale e dell’influsso della scienza, e secondo il nuovo corso degli avvenimenti nonché nell’interesse dell’intera società è destinata irrimediabilmente e senza possibilità d’appello a un lento declino». Ai partiti socialisti si poneva quindi il compito di convincere i contadini e i braccianti di questa verità. Quanto più rapidamente gli agricoltori si fossero uniti all’organizzazione dei lavoratori cittadini, tanto prima si sarebbero liberati delle loro catene. Il successo della propaganda socialista tra i contadini fu pressoché nullo. I contadini proprietari respinsero con decisione la nuova teoria della proprietà collettiva della terra; cosicché il movimento socialista non solo non trovò sostegno nella popolazione agricola, ma in molte regioni creò un clima di ostilità al socialismo.
Il dissenso contro questo nuovo catechismo agrario giunse dal francese Pierre-Joseph Proudhon, anch’egli socialista e membro dell’Internazionale. Schernito da Marx come «piccolo borghese», egli vagheggiò una società futura composta da piccoli contadini liberi, autonomi grazie al loro lavoro indipendente ed alla loro libera proprietà. Ma poiché questa apertura di principio all’economia imperniata sulla famiglia contadina si opponeva alla dottrina marxiana, sorsero accese discussioni già al secondo congresso dell’Internazionale, tenuto a Losanna nel 1867. Nei due congressi successivi, nonostante le disapprovazioni dei proudhoniani, i delegati approvarono una risoluzione che si dichiarava apertamente per la «socializzazione della terra», e così Marx ebbe partita vinta su Proudhon.
Quando, alla fine del secolo XIX, furono mosse nuove critiche alla dottrina marxiana sulla questione agraria, mentre l’azienda familiare contadina dimostrava, contra­riamente a tutte le in...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione alla prima edizione
  2. 1. Posizioni a confronto sul mondo contadino
  3. 2. È mai esistito un ceto contadino europeo?
  4. 3. Le basi del ceto contadino europeo nell’alto Medioevo
  5. 4. La svolta del pieno Medioevo (XI-XIII secolo)
  6. 5. La crisi del tardo Medioevo
  7. 6. I contadini si oppongono e si ribellano
  8. 7. Il dualismo agrario europeo nell’età moderna: signoria fondiaria a ovest, riserva signorile a est
  9. 8. Sviluppo demografico, struttura insediativa e aree agrarie europee nell’età moderna
  10. 9. Congiuntura agraria, problemi alimentari e struttura sociale contadina
  11. 10. Vicinato e comunità di villaggio
  12. 11. Emancipazione contadina e riforme agrarie nel XIX secolo
  13. 12. I contadini europei nella moderna società industriale
  14. Bibliografia