II.
Danza, cultura e società:
identità, potere, memoria
2.1. Danza e studi culturali
Guglielmo Ebreo da Pesaro, insigne maestro di danza italiano del XV secolo, così risponde alle obiezioni del suo discepolo, protagonista del dialogo socratico che conclude il ben noto trattato di danza De pratica seu arte tripudii:
[...] che da lei [la danza] ne discendano molti omicidij, peccati, et altri mali, questo non niegho [...], ma quando è exercitata da huomini gentili, virtuosi et honesti, dico essa scienza et arte essere buona et virtuosa et di commendatione et laude digna.
Se Guglielmo Ebreo, alle soglie dell’età moderna, aveva il problema di dimostrare che quella da lui esercitata professionalmente era una scienza e un’arte degna di poter essere messa sullo stesso piano degli altri percorsi speculativi e didattici dell’epoca, non deve stupire che la storiografia italiana della danza sia stata costretta a passare negli anni attraverso un difficile e lento percorso di legittimazione dei suoi studi per poter essere riconosciuta e accettata dal mondo accademico e dalle istituzioni, anche se ancora fra pregiudizi e scarso interesse:
Le cause di questa situazione cronicizzata hanno radici antiche e sono da ricercarsi principalmente nella sottovalutazione della danza nella cultura occidentale, percorsa da linee di pensiero ancor oggi difficili da scalzare.
Da un lato, a livello sociale, deprivata del suo legame originario con la sacralità e la ritualità religiosa e civile, la danza è stata generalmente considerata per secoli attività futile, ludica e trasgressiva, culturalmente e moralmente pericolosa per la sua totale compromissione con la corporeità: è quasi superfluo ricordare l’ostracismo delle chiese cristiane, supportato filosoficamente dalla persistente visione dualistica dell’uomo con la sua separazione gerarchica tra corpo e spirito e dalla riconosciuta supremazia della parola come strumento di conoscenza e comunicazione. Dall’altro lato, a livello artistico, l’ipercodificato controllo virtuosistico del balletto accademico, la sua natura non verbale e la sua collocazione nell’alveo del teatro musicale, l’hanno fatto considerare un genere per specialisti, derivato e minore, vassallo della musica e particolarmente effimero, data la difficoltà di notazione propria del movimento.
Fin quasi alla fine degli anni Ottanta del Novecento, infatti, studiare la danza dal punto di vista storico e teorico era stata prerogativa di un ristretto gruppo di addetti ai lavori con spiccata propensione all’autoreferenzialità (fra i quali, critici, giornalisti, collezionisti, ex danzatori e coreografi), che avevano comunque contribuito ad avviare pionieristicamente vari filoni di ricerca. Oggi, nuove generazioni di studiosi si sono mosse con serietà su questo campo in parte dissodato, ma in grande misura ancora da esplorare.
Negli ultimi trent’anni è venuta via via consolidandosi una prassi di indagine relativa agli strumenti metodologici della ricerca in danza e un progressivo affinamento dei suoi strumenti di lavoro. Superata la visione olimpica o aneddotica della storia, gli studiosi si sono rivolti alle pratiche concrete instaurando con i protagonisti diretti della produzione (coreografi e danzatori) una relazione proficua che ha portato a delineare alcuni orizzonti teorici e paradigmi di campi di indagine. Fra gli altri: l’aver individuato nella singolarità dell’intuizione sensibile il senso del gesto coreico, originario rispetto a ogni concetto e a ogni significazione; o l’aver riscoperto nel sapere del corpo una produzione di «pensiero» di pari dignità se non addirittura primaria rispetto a quella del logos; o ancora l’aver dimostrato che il corpo danzante, medium di una relazione fra sguardi, è in ogni caso una fonte di senso, anche nella performance programmaticamente più astratta. Tutto ciò ha certamente contribuito a far convergere sulla corporeità quell’attenzione scientifica e disciplinare che oggi considera il corpo danzante un oggetto privilegiato dell’indagine teorica ed estetica.
Una nuova storiografia della danza si avvale oggi dell’eredità metodologica della nuova storia, fiorita all’interno del gruppo delle Annales, facendone proprie le caratteristiche fondamentali: il relativismo culturale, che contestualizza i fenomeni sempre all’interno di uno sviluppo sociale; la scelta di privilegiare le strutture rispetto agli eventi; l’attribuzione di pari dignità alla storia delle arti e alla Storia; l’interdisciplinarità; ma soprattutto l’allargamento della tipologia delle fonti che spaziano dalle testimonianze della vita quotidiana a quelle della famiglia, dell’educazione, dei mestieri, delle pratiche terapeutiche. La storia della danza è oggi inserita in una prospettiva di storia globale, sociale e politica, coniugata con le microstorie del corpo, della cultura, della mentalità, della sessualità, delle donne, e in stretta relazione con tutte le scienze sociali.
Tutte queste prospettive storiografiche condividono i risultati di una ricerca che concepisce la danza come una tecnica del corpo, come un sistema simbolico, esito della commistione di elementi biologici e influenze ambientali, caratteristico e distinguibile per ogni epoca e cultura, alla base della comunicazione tra danzatore e spettatore.
Fondativi, in quest’ottica, gli studi focalizzati sulle dinamiche del corpo: come quelli di Norbert Elias sul processo di civilizzazione, quelli di Michel Foucault sulla società del controllo e della disciplina, e in particolare quelli di Pierre Bourdieu sull’habitus,
un costrutto di mediazione che ci aiuta a rifiutare il dualismo fra individuale e sociale diffuso nel senso comune, rivelando «l’internalizzazione dell’esternalità e l’esternalizzazione dell’internalità», cioè i modi in cui le strutture socio-simboliche della società si depositano nelle persone nella forma di disposizioni persistenti, cioè di abilità apprese e di propensioni codificate di pensare, sentire e agire in modi determinati che, a loro volta, le guidano nelle loro risposte creative alle costrizioni e alle sollecitazioni del proprio ambiente sociale.
Strumenti critici e metodologici, propri e condivisi, sono stati elaborati dagli studi di danza per indagare ogni pratica coreica come il farsi carne di una teorizzazione di relazioni tra il corpo e il sé, tra i corpi e la società, in una visione del significato come del prodotto di un accordo culturale, di un uso di codici e convenzioni condivise da gruppi, culture e comunità. Seguendo l’impostazione propria della teoria critica, che si interroga costantemente sui significati indotti dallo studioso sull’oggetto studiato, sulla parzialità delle metodologie e degli approcci che evidenziano alcuni aspetti e ne occultano altri, gli studi di danza hanno posto in luce una serie di questioni cruciali per la comprensione dei processi e dei prodotti culturali.
Il modo in cui i modelli storici possono dialogare con le cristallizzazioni teoriche successive getta luce sul rapporto tra danza e studi critici. I Dance Studies sono fondamentalmente interdisciplinari nella misura in cui coniugano la conoscenza specifica di sistemi di movimento strutturati e di protocolli coreografici, di stili performativi e di approcci critici al potere e alla rappresentazione, che altrimenti rimarrebbero relativamente disincarnati.
Gli studi di danza si sono imposti negli ultimi trent’anni come una disciplina in divenire, mai paga dei suoi risultati e in costante dialogo con le acquisizioni degli studi culturali, affrontando questioni di ideologia, soggettività, categorizzazione sociale, rappresentazione, produzione di valore attraverso le pratiche estetiche e le discipline del corpo.
Guidati da una preoccupazione teoretica, gli studi di danza hanno cercato di mettere in evidenza il fondamento ideologico delle pratiche estetiche, creando un’agenda di questioni e di approcci concernenti, fra l’altro, i concetti di incorporazione, identità, rappresentazione, politica, memoria ecc. Avvalendosi dei principi della teoria critica essi hanno avviato nuove modalità di analisi della danza come pratica sociale, estendendo in modo originale il campo di indagine sulla corporeità. La danza sia come pratica sociale sia come forma estetica visuale è in grado di catalizzare considerazioni legate ai processi di rappresentazione e alle condizioni materiali che li sostanziano.
Le culture e i relativi sistemi sociali non sono meccanismi coercitivi totalizzanti. Nessun sistema è perfetto, la sovversione è sempre possibile e si annida proprio nelle pratiche. Lo storico Michel de Certeau definendo il consumo una forma di produzione che «non si segnala in alcun modo attraverso creazioni proprie, bensì mediante un’arte di utilizzare ciò che le viene imposto» lo concepisce come una tattica di resistenza culturale in grado di insinuarsi tra le pratiche egemoniche per scardinarle: metaforizzando l’ordine dominante imprime al suo funzionamento un registro alternativo. Questo sistema dialettico di confronto fra strategie razionalizzanti e tattiche «all’...