1. Decidere l’identità
Una spiaggia marina, in un qualsiasi luogo. Come suggeriscono D’Arcy Thompson (1969) e René Thom (1980), ciò che ci attira è il movimento di andare e venire delle onde, il loro frangersi e distendersi sulla sabbia e il loro ritrarsi. Ci affascina il continuo e inesausto fluire dell’acqua: forme evanescenti, che si ricreano e si rimodellano senza fine, a tal punto che non si sa se sono più importanti le forme, per quanto instabili, o l’essere senza forma, se non sia più decisivo l’interrompersi, il venir meno della formazione oppure il costante riproporsi di forme nuove. Ciò che maggiormente colpisce è l’ininterrotto trasmutare. È vero, in natura così come nella cultura esistono forme stabili, o strutture, che pure ci attraggono: un paesaggio, un quadro, un edificio, immagini più o meno ferme, di cui l’occhio compone i vari elementi in una forma-oggetto individuale. Ma sia in natura, sia nella cultura, esistono anche i fenomeni che potremmo chiamare “di flusso”: fenomeni di mutamento incessante da cui le forme emergono e in cui sono destinate a scomparire. Si dà il caso che soprattutto le forme stabili siano utilizzate o inventate per dare l’idea di qualcosa, per fornirne una rappresentazione adeguata. Il mutamento è quasi sempre collocato sullo sfondo, considerato come qualcosa di oscuro, indecifrabile, scarsamente rappresentabile.
E l’identità? Se conveniamo di indicare con S (“struttura”) i fenomeni del primo tipo e con F (“flusso”) i fenomeni del secondo tipo, potremmo anche dire che l’identità viene di solito rappresentata con la categoria S, piuttosto che con la categoria F. L’identità è spesso (quasi inevitabilmente) concepita come qualcosa che ha a che fare con il tempo, ma anche, e soprattutto, come qualcosa che si sottrae al mutamento, che si salva dal tempo. L’identità di una persona, di un “Io”, è considerata come una struttura psichica, come un “ciò che rimane” al di là del fluire delle vicende e delle circostanze, degli atteggiamenti e degli avvenimenti, e questo rimanere non è visto come una categoria residuale, bensì come il nocciolo duro, il fondamento perenne e rassicurante della vita individuale. A pensarci bene, non è rigorosamente necessaria la stabilità perché si possa parlare di identità: la stabilità aiuta a identificare; ma più importanti sono i contorni, le delimitazioni e – proseguendo su questo piano – le denominazioni. L’uragano Felix ha la sua identità, ancorché tra pochi giorni o poche ore esso sarà forse svanito. Certo, saranno i suoi (temuti) effetti devastanti a conferire un’identità particolarmente pregnante a questo fenomeno; ma se anche questi effetti (come gli abitanti della Florida sperano) non avessero luogo, la sua identità è garantita dal nome che i meteorologi gli hanno affibbiato. È dunque il nome a sottrarre il nostro uragano all’indistinta genericità di infiniti altri episodi di ordine atmosferico, a conferirgli una sua identità: un nome che verrà annotato, registrato e così consegnato a una qualche memoria collettiva, entro una serie di altri uragani che si sono abbattuti e si abbatteranno sulle coste americane. Ma, nel caso dell’uragano Felix, in che cosa consiste la sua identità: nelle sue caratteristiche individuali, irripetibili, che lo rendono insostituibile, oppure – al contrario – nelle caratteristiche generali, ripetibili, condivise dagli altri uragani, le quali lo rendono esattamente un uragano (e non un semplice temporale)?
Ciò che abbiamo detto a proposito di Felix vale, in realtà, per qualsiasi altro fenomeno, di cui intendiamo predicare o rivendicare l’identità. Per esempio, l’identità di un martello è data dagli elementi particolari di quel martello (una tacca sul manico, una coloritura speciale prodotta dall’uso), oppure da ciò che lo rende un martello come gli altri? Avere un’identità, che cosa significa: essere un’entità assolutamente individuale e irripetibile oppure appartenere a una classe ben definita di oggetti? Quando, per esempio, conferiamo un nome a un fenomeno, ne riconosciamo la particolarità o la generalità? Dipende – questo è chiaro – dal nome che gli attribuiamo: se ci limitiamo ad attribuirgli il nome di “uragano”, faremo prevalere gli elementi di generalità; se invece gli attribuiamo anche un nome proprio (Felix, per esempio), saremo più propensi a sottolineare la sua individualità. E anche l’identità “dipende”: dipende non solo dal nome, ma da un insieme di atteggiamenti e di scelte (tra cui quelle relative alla denominazione). Dipende – potremmo dire – da ciò che vogliamo trattenere di un fenomeno; dipende dal nostro tipo di interessi per quel fenomeno; dipende dal modo con cui intendiamo perimetrarlo, recingerlo, con bordi più larghi o più stretti. L’identità, allora, non inerisce all’essenza di un oggetto; dipende invece dalle nostre decisioni. L’identità è un fatto di decisioni. E se è un fatto di decisioni, occorrerà abbandonare la visione essenzialista e fissista dell’identità, per adottarne invece una di tipo convenzionalistico. Nella prima visione (che, al solito, può essere fatta risalire ad Aristotele) l’identità “c’è” e ha soltanto da essere “scoperta”; nella seconda visione (quale è stata per esempio illustrata, negli anni trenta del nostro secolo, dal matematico Friedrich Waisman) non esiste l’identità, bensì esistono modi diversi di organizzare il concetto di identità. Detto in altri termini, l’identità viene sempre, in qualche modo, “costruita” o “inventata”.
Nelle due prospettive qui indicate “decidere l’identità” assume significati e valori molto differenti. Nella prospettiva essenzialistica si può solo decidere se ricercare l’identità delle cose (un’identità preesistente, garantita dall’organizzazione ontologica della realtà): la decisione non intacca minimamente la struttura dell’identità. Nella seconda prospettiva, quella convenzionalistica, “decidere l’identità” concerne non soltanto la scelta iniziale per la determinazione dell’identità, ma riguarda (indipendentemente dalla consapevolezza che ne possiamo avere) il livello e tipo di identità, l’organizzazione interna, la coesione, la coerenza di ciò per cui intendiamo predicare l’identità, i confini inoltre degli oggetti o degli enti rispetto a cui solleviamo la questione dell’identità. Nella prima prospettiva, l’identità è garantita dall’esistenza preventiva della struttura e dei confini degli oggetti o degli enti: struttura e confini sono lì, dietro le apparenze eventualmente ingannatrici; adottando opportuni espedienti di ricerca, possono essere fatti vedere, illustrati, indicati. Nella seconda prospettiva, occorre invece “decidere” dove corrono i confini. Si tratta di una scelta; e come tale non gode delle garanzie che (illusoriamente) fornisce la prospettiva n° 1. Se per la prospettiva n° 1 l’identità è data, e si tratta solo di raggiungerla in qualche maniera, per la prospettiva n° 2 la responsabilità della scelta e delle decisioni ricade interamente su chi è interessato alla ricerca (all’invenzione) dell’identità. Ovviamente, non è indifferente tracciare qui o là i confini tra gli oggetti (non è la stessa cosa mettere insieme temporali e uragani o invece decidere di far passare tra loro una qualche linea di confine). Ma evocare questa capacità di scelta e di decisione non comporta affatto ritenere che, a questo proposito, ci si comporti sempre con vigile chiarezza. Succede, anzi, che i confini vengano fissati senza che di volta in volta ci si chieda dove sia opportuno stabilirli: noi, per lo più, accettiamo confini pre-stabiliti (in base alla nostra cultura, alle nostre tradizioni, alle nostre consuetudini mentali, che ci guardiamo bene dal porre in discussione). Ciò non toglie però che i confini, lungi dall’essere imposti dall’organizzazione ontologica della realtà (ovvero dall’ordine sostanziale e gerarchico delle cose), siano stati davvero in qualche modo tracciati: non con lucida coscienza teoretica, ma probabilmente in base a motivazioni culturali; non a casaccio, e tuttavia con un certo insopprimibile grado di arbitrarietà. Anche così non si sfugge a una forma di responsabilità: una responsabilità collettiva, sociale, culturale. E comunque responsabilità. A qualcuno, a qualche gruppo (se non proprio agli individui singoli), è inevitabile far risalire la responsabilità di aver organizzato in un certo qual modo il mondo, di averlo “tagliato” secondo criteri e categorie variabili, di aver “tracciato” certi confini e non altri, di avere perciò diviso cose che altri avrebbero messo insieme e, corrispettivamente, di aver unificato oggetti o fenomeni che altri avrebbero separato.
Anche il problema logico che abbiamo sollevato prima a proposito di due modi diversi di intendere l’identità risente di una decisione: non è indifferente ricercare (o “inventare”) un’identità spingendosi verso i livelli superiori di generalizzazione oppure inoltrandosi verso gli strati più sottili della particolarità. In ogni caso, la ricerca dell’identità implica due operazioni diametralmente opposte e che tuttavia si richiamano l’un l’altra: a) un’operazione di separazione; b) un’operazione di assimilazione. Se l’identità viene ricercata verso l’alto (verso la generalità) prevale l’operazione di assimilazione: l’uragano Felix viene assimilato ad altri fenomeni fatti rientrare nella classe “uragani”; in questo modo non viene discussa l’operazione di separazione, quella che ha stabilito confini tra la classe di “uragani” e le classi di altri fenomeni atmosferici. Se invece l’identità viene ricercata verso il basso, privilegiando gli elementi di particolarità, è allora l’operazione di separazione ad essere decisiva: Felix viene individuato come un uragano a parte, a tal punto da conferirgli un nome proprio. Separazione e assimilazione sono due leve che ogni processo di identificazione è costretto a utilizzare. Si tratta di operazioni opposte e complementari – come si è già accennato –; ma si tratta anche di operazioni a cui si può fare ricorso su piani diversi, ottenendo così una diversa strutturazione del quadro classificatorio della realtà.
Sembra in questo modo che la problematica dell’identità rientri in una tranquilla logica classificatoria e nelle sue principali opzioni: faccia parte, cioè, di quelle tipiche operazioni da «intelletto tabellesco» che Hegel (1967: I, 43), all’inizio dell’Ottocento, aveva così sardonicamente stigmatizzato. Hegel, probabilmente, aveva ragione: gli uomini (siano essi individui o società) non si accontentano di ordinare, sia pure in modi diversi, il mondo, anche se (e questo è un punto importante per il nostro discorso sull’identità) non possono fare a meno di “incasellare”. Certo, il mondo viene “tagliato” in modi diversi (a seconda delle culture, delle epoche, delle comunità, delle classi – come si diceva alcuni anni fa –, delle caste ecc.). Ma dopo aver tagliato e incasellato diversamente il mondo, sembra essere tipico degli uomini (o delle loro culture) ricercare connessioni tra le cose che sono state in tal modo separate: quasi si trattasse di “ricucire” ciò che è stato “tagliato” e “diviso”. L’identità è di per sé una faccenda da «intelletto tabellesco», una questione di ordinamento delle cose: di “tagli” e “separazioni” per un verso e di “assimilazioni”, “accostamenti” e persino “fusioni” per un altro. L’identità si trova maggiormente a suo agio, risulta quanto meno più nitida e visibile, appare più facilmente garantita, là dove si assimila e si separa, che non là dove si connette andando oltre i confini, superando le barriere (logiche o di altro genere), trans-gredendo limiti e divieti di accesso. Nelle reti di connessione (spesso confuse, non propriamente nette, talvolta aggrovigliate, in alcuni punti mancanti o lacerate) l’identità è senz’altro presente; ma lo è con difficoltà: la contrastano i fili che, in certi casi sotterranei, passano sotto le linee di confine. Sono queste possibilità di connessione “trans-gressive” che diminuiscono la credibilità delle costruzioni dell’identità. In questo paesaggio connessionistico, prodotto dall’esigenza del “ricucire” a cui abbiamo accennato prima, non ci sono soltanto le costruzioni isolate dell’identità (forme prevalentemente stabili, recinti eretti con materiali durevoli): ci sono anche le connessioni, e più ancora le possibilità di connessione, le quali, se non altro, indicano modi alternativi di costruire le identità.
Oltre alle costruzioni dell’identità e alle connessioni che ne superano i confini, esiste infine un terzo livello nel paesaggio (un po’ hegeliano) ora illustrato: è la dimensione del flusso e del mutamento. Possiamo immaginare che questi tre livelli siano sovrapposti. Avremo, allora, al livello più basso (A) il flusso. Esso si presenta come un mutamento continuo, oscuro e magmatico, radicalmente “de-struttivo”. Il secondo livello, intermedio (B), è quello delle connessioni, ed è caratterizzato da potenzialità ovvero da elementi alternativi. Da ultimo, il livello più alto (C), sovrapposto ai primi due, è quello delle costruzioni dell’identità. L’identità ha insomma un carattere “costruito”. L’identità è costruzione; ma essa implica anche uno sforzo di differenziazione, che si esercita nei confronti dei due livelli precedenti: l’identità è infatti costruita (livello C) differenziandosi od opponendosi sia all’alterità (livello B), sia alle alterazioni (livello A). Proprio in quanto costruzione, l’identità (C) si presenta come una riduzione drastica rispetto alle possibilità di connessione (B) e come un irrigidimento massiccio rispetto all’inevitabilità del flusso (A). In quanto prodotto di uno sforzo di differenziazione, essa comporta anche una forza, un potere e in qualche modo l’esercizio di una violenza: si strappano legami, si interrompono connessioni per dar luogo alle costruzioni dell’identità; e i soggetti dell’identità manifestano in questa maniera la loro forza, il loro potere. “De-cidere” l’identità è un “re-cidere” le connessioni (B), che altrimenti la imbriglierebbero e la soffocherebbero. Decidere l’identità è anche però un elevare costruzioni al di là del magma del mutamento (A), sottraendole (fin che si può) al flusso de-struttivo che permane al fondo di ogni vicenda. Decidere l’identità è dunque violenza contro le ragnatele delle connessioni; ma è anche tentativo talvolta eroico (e irrinunciabile) di salvazione rispetto all’inesorabilità del flusso e del mutamento.