Come farla finita con il fascismo
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Come farla finita con il fascismo

  1. 176 pagine
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Come farla finita con il fascismo

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«Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi.»

Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti dell'antifascismo italiano e della Resistenza, è una vera e propria guida. I suoi scritti e i suoi discorsi ci conducono, ancora oggi, attraverso una ragnatela di parole chiave necessarie per contrastare il ritorno di retoriche e pratiche violente e identitarie. Che se fasciste non sono, al fascismo assomigliano molto.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858136690
Argomento
Economia

Trasmettere.
Il CLN e la guerra partigiana (1960)

In questo testo, che è la lezione che Parri tiene al teatro Eliseo di Roma, nel 1960, è importante cogliere il tratto che egli intende affidare alle sue parole e che condensa nella parte finale del suo testo. Il senso del discorso di Parri, dopo aver ripercorso tutte le tappe della storia dal 1942, quando iniziano ad essere evidenti i primi segnali dello scollamento tra regime e opinione pubblica, mira a sottolineare e a trasmettere il carattere fondativo della Resistenza. Non solo fatto militare, anche se a quel fatto Parri tiene molto, ma soprattutto atto politico e civile, nella consapevolezza, afferma, «che la storia d’Italia passa per questa tappa di liberazione» e «che non deve essere adulterata la scelta che fu alla sua origine». E poi aggiunge, rivolto ai giovani che lo ascoltano in quella sala: «Non è lecito porre tutto il passato, la lotta di liberazione e il fascismo, sullo stesso piano e tutto confondere dentro un minestrone di dimenticanza, primo passo verso altre involuzioni. È su questi principi che non dobbiamo, non intendiamo cedere».
Per poi concludere: «Io che ho avuto la sventura di conoscere i nostri caduti forse più di altri, so bene quello che essi avrebbero contato nella vita dell’Italia di oggi. L’ultimo sguardo di questi nostri martiri è un messaggio, che io vorrei trasmettere a voi, giovani compagni, perché possa arrivare lontano. Nella sua storia è solo in questo momento, solo tra il 1943 ed il 1945, che l’Italia dà quello che ha di meglio. Vi è una carica di energia morale che l’Italia non ha mai avuto nella sua storia, mai. Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi».
Tre date sono all’origine della storia della quale ho l’incarico di tracciare le grandi linee. L’assassinio di Matteotti segna il momento in cui il regime fascista si fissa con quella che sarà la sua fisionomia definitiva. Quando si arriva alla dichiarazione di guerra, all’inserimento dell’Italia nella guerra internazionale, il fascismo ha percorso tutta la parabola logica del suo sviluppo ed è arrivato al suo scioglimento logico, che non poteva essere altro che un conflitto internazionale. E in mezzo c’è Rosselli. Rosselli assassinato dopo che dalla Spagna aveva lanciato l’appello e il grido al quale ci ricolleghiamo noi: “Insorgere per risorgere”, “oggi in Spagna” – lo hanno ricordato gli amici nella lezione scorsa – “domani in Italia”.
Voi intendete quali connessioni dirette e strette vi siano tra le poche cose che io posso dirvi questa sera e il passato immediatamente antecedente. Intendete anche le connessioni con la storia successiva del popolo italiano, che arriva in questi giorni sino a Cioccetti15.
È una storia che è difficile sezionare, difficile sintetizzare: ciò che può spiegare quale sia il mio imbarazzo questa sera a parlare, con la consapevolezza di non potere in sessanta minuti condensare una materia di tanta ampiezza! col rammarico, di fronte ai più giovani, di dover trascurare elementi, forze, valori, che male rientrano in linee generali e necessariamente schematiche di storia. Notate poi ancora che su parecchie zone di questa storia c’è ancora ombra; esse non sono ancora perfettamente chiarite. Io stesso sarei in imbarazzo se dovessi portare su di esse un giudizio definitivo. Aggiungete il rischio poi di dover parlare storicamente di cose così vive e così vicine. Gli amici hanno una fiducia di cui sono loro grato, ma forse anche eccessiva, sul mio spirito di oggettività e di serenità, che non potrà tuttavia impedirmi di portare in questi giudizi qualche cosa del mio personale e particolare indirizzo, dei miei orientamenti, politici e culturali. Ma io devo solo aprire la porta alla conoscenza della nostra storia vicina per chi non l’abbia, o non l’abbia ancora chiara.
Se vi è una ragione che mi ha costretto ad accettare questo incarico gravoso, e anche difficile, è la presenza qui, accanto agli amici di un tempo, accanto ai compagni delle lotte antiche, di volti nuovi; i giovani che non sanno e che desiderano sapere. Se questa iniziativa di queste lezioni-conversazioni ha un merito è quello di riuscire a far ricavare da esse un certo orientamento di spirito non polemico e sicuro. Se v’è una persona che va sinceramente applaudita da voi, qui dentro, è l’amico Rossi: rivolgetegli un applauso caldo, perché questa iniziativa è merito principalmente suo, ed è bella perché è segno confortante in questi tempi la rispondenza, constatabile non solo qui a Roma ma anche altrove, dello spirito pubblico, dello spirito dei giovani a questi richiami, il desiderio di conoscere, di sapere per potere giudicare con la propria testa.
Di fronte a loro io sento il dovere di una sincerità completa. Noi non vogliamo, non abbiamo mai voluto fare della agiografia, mai voluto annegare la storia di questi fatti, di questi anni così gravi, così terribili in intingoli dolciastri. Coloro che hanno avuto parte attiva nella lotta di liberazione – alcuni sono qui – sono uomini come voi, con tutti i difetti, gli errori, le insufficienze degli uomini; nessuno di noi le vuole tacere, nessuno le vuole velare, nessuno vuole rivendicare dei meriti che non ha. Ma le cose che si son fatte e la storia di questi anni non han nulla da temere dalla sincerità, che resta il maggiore dei doveri che abbiamo verso i giovani, verso di voi e verso quelli che verranno dopo.
Tra i miei pochissimi meriti sta la costituzione di un Istituto storico della Resistenza, con sede a Milano ma con varie deputazioni regionali, che lavora bene e adempie al compito che mi sembra fondamentale di salvaguardare la documentazione per il domani, di pubblicare documenti e studi. Vari convegni nazionali abbiamo fatto, uno anche recente, nei quali i problemi principali della lotta di liberazione, i nodi centrali vengono via via illuminandosi: non si fa ancora la storia, ma la si prepara. Io spero che saremo in grado di riunire a Milano un congresso internazionale della Resistenza europea; credo che parteciperemo alle pubblicazioni documentarie per il centenario del Risorgimento italiano per inserire quindi questa storia nel quadro generale.
Se raccomando anche a voi, ed a chi non lo conosce, questo Istituto, dalla vita certamente difficile come potete immaginare, è perché la sua attività mi permette di rilevare l’evoluzione storiografica raggiunta: possiamo dire che la Resistenza acquista ora una più matura coscienza storica, che si riflette nella nostra pubblicistica storica, che acquista una maggiore consapevolezza un maggiore sforzo di penetrazione e impegno di indagine.
Non siamo ancora al momento delle sintesi definitive, ed è questo, come vi dicevo, per me un motivo di imbarazzo. Io devo cominciare dal 1943, e se vi è una storia che ha ancora parecchi lati oscuri, è proprio questa del 1943. Voi mi permetterete allora di sommarizzare, quasi soltanto di catalogare gli eventi e i problemi.
Il 1943 è l’anno della crisi del regime. Questa veramente era cominciata già da prima: se vi è un anno in cui le fortune del regime fascista declinano è nel 1942, quando se ne constata la incapacità sul piano militare e sul piano internazionale. Ma nel 1943 la sua disfatta è palmare e suona la campana per noi, quella che attendevamo.
Attendevamo forse la disfatta del nostro paese per agire? È un problema che ha avuto riflessi morali molto gravi per noi rispetto ai compagni che facevano la guerra del regime. Io stesso dissi ai giudici fascisti che, se chiamato, l’avrei fatta anch’io puntualmente, fedelmente, per potere alla fine sparare contro il regime, con la forza che mi sarebbe venuta dalla comunanza con le sofferenze della mia generazione. Non parlavo di me personalmente, ma per quella sollevazione armata del popolo, che doveva approfittare della crisi del regime.
Nel 1942 si attendeva che si producessero le situazioni di fronte alle quali la nostra responsabilità sarebbe stata chiamata. Voi avete sentito tra le lezioni precedenti quella relativa al delitto Matteotti: ricordate la crisi dello spirito pubblico successiva al delitto Matteotti e successiva al discorso del 3 gennaio; impostazione legalitaria di una parte delle forze dell’opposizione, e crisi di impotenza. Noi, che avevamo l’età vostra, giovani, è una lezione quella del 1925 che non abbiamo dimenticato: le occasioni rivoluzionarie (e non sono rivoluzionarie quelle che involgono interessi di parte), le “occasioni rivoluzionarie” della nazione, del popolo, non si possono mai saltare: se non si colgono si ha il regime fascista. Io sono pienamente convinto che nel 1925 era possibile rovesciare le sorti del nostro paese. Non si doveva permettere che nel 1942 si ripetesse il 1925 e che le sorti del nostro paese dovessero essere rovesciate semplicemente dalla guerra degli alleati. Voi capite allora con quale animo seguissimo le vicende di questi anni 1942 e 1943.
Vi sono qui nella sala alcuni testimoni ed attori dei primi contatti presi nel 1942, per studiare la possibilità di azioni armate, con il generale Cadorna, col generale Pavone. Nel 1943 questi contatti si infittiscono sul piano politico. Sono soprattutto uomini di parte liberale – come Casati, per ricordare un nome sempre ricordato con reverenza da me – impensieriti dall’avvenire del paese, e monarchici, attaccati non tanto al monarca d’allora, ma all’istituto. Si accrescono le pressioni sul re, apparentemente senza risultato. Ma in quei mesi che precedettero il 25 luglio si produce un avvenimento che è stato per noi estremamente importante, in quel momento critico. Si tratta degli scioperi famosi del marzo del 1943, che dilagano da Torino a Milano a Genova: sono nel complesso parecchie centinaia di migliaia di operai che scioperano, in pieno regime fascista. Le causali dello sciopero sono modeste: motivi di carattere principalmente annonario che riguardano la tessera, le razioni, i rifornimenti, soprattutto dei grassi. Ma la loro natura, il loro valore, è quello di un atto politico. È una ribellione, è la prima delle aperte e dichiarate ribellioni del popolo italiano nei riguardi di questo regime.
Chi di noi non sarebbe stato colpito, e non avrebbe sentito l’interesse e il valore di una lezione che acquistava ora ancor più chiara evidenza? Senza classi lavoratrici niente rivoluzione seria, ed era una lezione, per me e direi per i gruppi idealmente vicini, soprattutto di intellettuali, la lezione fondamentale delle forze con le quali si fa la storia, con le quali si deve fare una certa storia; con le quali si doveva fare la lotta contro il fascismo. In questo paese tarato da una tradizione, voi sapete quanto antica, che oscilla tra il servilismo e ribellismo, una insurrezione nazionale non poteva esser tale se non aveva il concorso di queste forze popolari.
Era allora, nel 1943, che la possibilità di una insurrezione emergeva di nuovo dopo una lunga esperienza negativa che aveva preso fine, forse, nel 1930 quando era parso che a Milano fosse ancora possibile organizzare uno sciopero generale, poi rivelatosi impossibile.
Questa è l’importanza storica degli scioperi del 1943, sintomo peraltro anche di fatti politici di notevole interesse. Come mai si muove questa massa, chi la muove? La propaganda comunista era stata motrice prevalente di questi movimenti; e poiché erano pochi anni che essa aveva ripreso su vasta scala, si aveva l’indicazione di un rapido processo di evoluzione psicologica, interessante anche per gli episodi di coraggio, per lo spirito che, indipendentemente dai capi, dagli organizzatori, manifestavano gli operai di fronte alle minacce fasciste.
Si avvertono ormai gli scricchiolii della costruzione fascista quando si arriva al 25 luglio. Quella mattina io mi stavo facendo la barba, mia moglie si precipita da me per darmi la notizia: io le dico che non vi era nulla di buono da aspettarsi da una congiura di palazzo. È una frase che riflette le attese che erano nell’aria. Si sentiva che la monarchia avrebbe cercato uno sbocco, una via di salvezza, che venendo da essa non poteva avere valore rinnovatore. Devo anche avvertire che allora molte cose non le vedevamo, non le sapevamo. Devo dire che ancora adesso non saprei dare un giudizio storico sui precedenti, ragioni e scopi di quel 25 luglio che non ha – mi sembra – relazione causale con la preparazione del Gran consiglio. Parecchie circostanze mi sembrano ancora oscure.
Era chiara peraltro la linea direttiva, l’indirizzo del re e Badoglio: conservare la possibilità di governare, la possibilità di trattare con gli alleati e coi tedeschi tenendo a bada gli uni e gli altri, salvando infine la monarchia con l’appoggio degli alleati e la possibilità di un regime fascista senza Mussolini, come si diceva allora. E di questa gente sembrava chiara nel tempo stesso l’assoluta incapacità di reggere alla pressione dei fatti.
Il mio giudizio su quella congiuntura è forse un po’ diverso da quello che han dato altri, anche il mio caro Ragghianti, che cioè sarebbe stato necessario che la monarchia e Badoglio avessero avuto la capacità, la forza, il coraggio, di rivolgersi alle forze popolari, avessero dichiarato guerra alla Germania, che non vi fosse stato il proclama “la guerra continua”. Da un punto di vista pratico dubito che la situazione avrebbe potuto reggere se non forse con un intervento militare alleato, contestuale all’atto stesso del 25 luglio, effettuato cioè nei primi giorni. Ai primi di agosto 1943 la situazione era già compromessa. Divisioni tedesche erano scese dal Brennero, altre premevano su Trieste, altre avevano occupato il litorale ligure nei tratti in cui si poteva temere uno sbarco alleato: forze non grandissime, ma sufficienti per tenere in rispetto un’Italia completamente impreparata. Non erano state richiamate in patria le forze imponenti che avevamo in Jugoslavia; e sarebbe stato il primo dei provvedimenti da prendere, quello di mettersi in condizioni di poter resistere a una pressione tedesca facilmente prevedibile. Io stesso parlai in quei giorni con Mario Badoglio, migliore del padre, morto poveretto; altri videro il maresciallo. Avemmo tutti l’impressione penosa di gente che cercava, che sperava di riuscire a imbrogliare gli uni e gli altri, senza una visione precisa, senza che fossero state prese quelle intese cogli alleati che ci parevano il dato preliminare della situazione, così ovvio da doverlo tenere per sicuro.
Situazione dunque compromessa, che poneva gli antifascisti, coloro che intendevano agire, di fronte ad un altro ben grave problema: ora in Italia ci sono i tedeschi. E devo dire che quando l’Italia si degnerà di studiare questa sua storia di questi anni, quando la scuola italiana uscirà dalla sonnolenza vergognosa nella quale è tenuta nei riguardi della storia recente del suo popolo, si vedrà come nel 1943 i gruppi direttivi più vivi hanno già coscienza precisa di quello che si deve fare. Già nell’agosto del 1943, di fronte all’invasione tedesca, di cui si misurano la portata e le conseguenze, poiché ora non si tratta più di poche guarnigioni isolate e periferiche, tali che si possano sopraffare, ma si ha di contro un esercito organizzato, dotato dei mezzi più moderni, si riconosce la necessità inderogabile della guerra ai tedeschi, ben intendendo quello che voleva significare una sfida all’apparenza così insensata. Nello stesso periodo, a poca distanza di giorni, senza nessuna intesa, le stesse cose dicono, e per fortuna scrivono su ques...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Cosa resta di David Bidussa e Carlo Greppi
  2. Disobbedire. Lettera al Giudice istruttore di Savona (1927)
  3. Combattere. Venti mesi di guerra partigiana (1945)
  4. Stare uniti. Lettera ai delegati del PCI, del PdA e del PSIUP nel CLNAI (1944)
  5. Non cedere il passo. La caduta del governo Parri (1972)
  6. Progettare. Discorso per l’apertura dei lavori della Consulta (1945)
  7. Trainare. Le speranze della Resistenza (1974)
  8. Trasmettere. Il CLN e la guerra partigiana (1960)
  9. Sgominare. Che cosa significa farla finita col fascismo (1974)
  10. Biografie dei personaggi citati
  11. I curatori