1924. Il delitto Matteotti
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1924. Il delitto Matteotti

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1924. Il delitto Matteotti

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È un pomeriggio caldo quello del 10 giugno 1924. Giacomo Matteotti esce di casa e non vi ritorna più. Non è di un deputato qualsiasi il corpo massacrato che verrà trovato due mesi dopo in un bosco vicino Roma. Solo dieci giorni prima della sua sparizione Matteotti ha tenuto un discorso infuocato alla Camera, contro il fascismo e l'irregolarità delle elezioni. È il leader di uno dei maggiori partiti di opposizione, forse il leader dell'intera opposizione. Non è difficile collegare i due avvenimenti, il discorso e la morte, né scoprire che gli autori del delitto, che non si sono preoccupati di cancellare le tracce, sono uomini dello stretto entourage del Duce. Ce n'è abbastanza per far scoppiare il più clamoroso scandalo politico della storia d'Italia. E ce ne sarebbe abbastanza per le dimissioni immediate del governo. Tutto sembra far credere a una crisi. Ma non è questo che accade. L'opposizione parlamentare sceglie la strada della protesta morale, il governo resiste, la maggioranza non accenna a spaccarsi, il regime si consolida. Mussolini, il trionfatore delle elezioni del '24 contro le quali aveva tuonato Matteotti, forza la sorte e instaura la 'dittatura a viso aperto'. Quel delitto che sarebbe potuto essere l'ultima occasione di arrestare il regime, ne diviene invece il punto di svolta, lo snodo decisivo. Ma quel corpo abbandonato e quel rifiuto morale si caricano di un significato simbolico. L'atto di morte del deputato Matteotti è l'atto di nascita dell'antifascismo come scelta politica ed etica.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858105337

1924. Il delitto Matteotti

di Giovanni Sabbatucci

Partiamo dai fatti, nella loro essenzialità. Alle 16.30 di martedì 10 giugno 1924, un politico molto noto, Giacomo Matteotti, deputato al Parlamento e segretario del Partito socialista unitario, viene prelevato a forza da una squadraccia davanti alla sua casa di Roma, caricato su un’auto e pugnalato a morte. Gli assassini, lo si saprà di lì a poco, sono membri di una sorta di polizia parallela e illegale che ha il compito di neutralizzare e di terrorizzare gli avversari del governo in carica. Capo del governo, da oltre un anno e mezzo, è Benito Mussolini, che ha appena stravinto, con l’aiuto di una legge elettorale varata ad hoc, le elezioni politiche del 6 aprile. Il risultato di quelle elezioni era stato contestato da Matteotti il 30 maggio alla Camera, in un discorso di inusitata durezza, cui da parte fascista si era risposto con esplicite minacce. Si tratta, con ogni evidenza, del più classico dei delitti politici. Uno fra i tanti di cui purtroppo è costellata la storia italiana (ma anche europea e mondiale) del secolo XX. Certo uno fra i più clamorosi ed esemplari: un leader dell’opposizione, anzi il più importante e il più attivo leader dell’opposizione, ucciso in pieno giorno nella capitale per mandato, o per ispirazione, quanto meno per responsabilità oggettiva, del capo del governo. Da qui l’enorme impatto sull’opinione italiana, pure assuefatta alla violenza di un turbolento dopoguerra. Da qui la straordinaria risonanza anche internazionale dell’evento. Non è tutto: il delitto – vedremo poi attraverso quali passaggi – rappresenta uno snodo essenziale del percorso che porta la fragile e già vulnerata democrazia liberale italiana a trasformarsi, nel giro di un paio d’anni, in regime esplicitamente autoritario e tendenzialmente totalitario, in dittatura personale e monopartitica: un tema, questo, su cui da più di ottant’anni non si è mai cessato di riflettere e di discutere.
Ma torniamo ai dati di fatto. Cominciando dalla scena del crimine: il lungotevere Arnaldo da Brescia, all’altezza del cosiddetto «Scalo De Pinedo», dove ora si trova il monumento a Matteotti. Il deputato socialista è appena uscito dalla sua casa in via Pisanelli. Percorre via Mancini verso il lungotevere, secondo un percorso per lui abituale. Dove fosse diretto non si sa: alla moglie dice solo che rientrerà per cena ed è probabile che andasse alla Biblioteca della Camera, come faceva spesso. Si sa che non indossava il gilet né il cappello, cosa insolita allora per un uomo molto curato nell’abbigliamento com’era Matteotti, anche considerando il gran caldo di quel giorno: il che ha fatto pensare che andasse a fare una breve passeggiata o un bagno in Tevere. I suoi assassini, che lo controllano da giorni, stanno aspettando che esca. Non si sa con certezza quanti fossero: cinque, compreso l’autista, erano sicuramente i membri del commando; altri due, o forse tre, avevano probabilmente compiti di supporto. La macchina, una Lancia Lambda che è stata presa a nolo per la bisogna, è parcheggiata all’angolo fra il lungotevere e via degli Scialoja. Matteotti sta attraversando il lungotevere quando viene bloccato, afferrato e caricato di peso nell’auto (sono probabilmente in quattro con lui sui sedili posteriori). Lotta furiosamente: con un calcio sfonda il vetro divisorio fra l’abitacolo passeggeri e il sedile dello chauffeur; e trova la forza per lanciare dal finestrino il suo tesserino da deputato. Non è dato sapere come e quando gli viene inferto il colpo mortale fra ascella e torace: certo dentro l’auto, probabilmente subito dopo il sequestro. Quel che si sa è che l’auto parte a tutta velocità in direzione di Ponte Milvio. È lì che molti la notano mentre imbocca la Flaminia: la notano perché non c’erano allora molte automobili circolanti in città, ma anche perché il guidatore suona il clacson, probabilmente per coprire le grida della vittima. Un comportamento poco consono a chi sta svolgendo una missione illegale e segreta. E non è certo questo l’unico esempio.
Il cadavere di Matteotti sarà cercato invano per due mesi e poi trovato, a metà agosto, quando i colpevoli sono già in mano alla giustizia, spogliato dei suoi abiti e sepolto alla meglio nella radura di un bosco (la macchia della Quartarella) al venticinquesimo chilometro della Flaminia, fra la stazione di Sacrofano (allora Scrofano) e il bivio per Riano. Per l’esattezza, a essere trovata per prima da un cantoniere, il 12 agosto, è la giacca della vittima, nascosta in un chiavicotto, un condotto di scolo a fianco della sede stradale a poca distanza dal luogo dell’inumazione. Parliamo della giacca perché stranamente i pantaloni, tagliati in cinque pezzi, erano stati trovati, assieme ad altro materiale compromettente (pezzi della tappezzeria della Lancia sporchi di sangue), nel bagaglio del capo del commando al momento del suo arresto, la sera del 12 giugno. Dopo il ritrovamento della giacca, le ricerche si concentrano nella zona e, quattro giorni dopo (16 agosto), un brigadiere dei carabinieri non in servizio, Ovidio Caratelli, figlio del guardiano della tenuta Ludovisi Boncompagni (che comprendeva la macchia della Quartarella), scopre il cadavere mentre passeggia col suo cane. Qualcuno ha parlato di un ‘ritrovamento pilotato’. La tesi non mi convince dal momento che, se in alto si fosse deciso di pilotare qualche cosa, sarebbe stato meglio pilotare la scomparsa del cadavere di Matteotti e dei suoi effetti personali1. Il cadavere è naturalmente in pessime condizioni, ma viene riconosciuto dagli amici e dal dentista della vittima. Verrà quindi sottoposto all’esame autoptico che, assieme all’esame dei tagli sulla giacca, indicherà con certezza la causa della morte: una ferita inferta da un’arma acuminata con un colpo dal basso verso l’alto.
È ora il caso di fissare l’obiettivo sui protagonisti del delitto, ovvero sulle persone del dramma: la vittima e i carnefici.
Giacomo Matteotti nel giugno del 1924 aveva appena compiuto 39 anni: era nato a Fratta Polesine il 22 maggio 1885 da una famiglia benestante (il padre, di origini modeste, aveva fatto fortuna come commerciante e poi come imprenditore agricolo). Era sposato con Velia Titta (sorella di Ruffo Titta, celebre baritono più noto col nome d’arte di Titta Ruffo) e aveva tre figli piccoli. Era deputato alla sua terza legislatura ed era, come ho detto, il segretario del Partito socialista unitario, il partito riformista di Turati, Treves e Modigliani, staccatosi dal Psi nell’ottobre del 1922. Il curriculum di Matteotti è simile a quello di molti suoi compagni di partito: si è laureato brillantemente in legge a Padova, è stato organizzatore di leghe nel suo Polesine (allora una delle province più povere del Centro-Nord) e amministratore locale. Un riformista, ma un riformista sui generis, certo un riformista di sinistra: durante la Grande Guerra è su posizioni radicalmente pacifiste e antimilitariste. Nel biennio rosso subisce per un momento il fascino del mito sovietico, anche se non abbandona la corrente riformista. Fra il 1921 e il 1922, quando si sviluppa l’offensiva dello squadrismo contro le organizzazione rosse della Padania, diventa subito oggetto della persecuzione del fascismo locale, che lo prende di mira e lo colpisce ripetutamente. Quando, pochi giorni prima della marcia su Roma, i socialisti riformisti si liberano (troppo tardi) dall’impossibile convivenza con i massimalisti, i grandi vecchi del partito puntano per la segreteria su questo giovane deputato particolarmente capace e combattivo, dotato di un notevole carisma personale e anche di grandi competenze tecniche (è esperto di finanza, sa leggere i bilanci, conosce i problemi delle amministrazioni locali). Come leader del partito Matteotti si impegna in una triplice battaglia. Naturalmente, e in primo luogo, contro il fascismo. Contro il settarismo dei comunisti, con i quali polemizza spesso e duramente. Ma anche contro le tendenze compromissorie che si manifestano dentro il suo stesso partito, soprattutto fra i quadri sindacali. Il suo discorso-denuncia del 30 maggio può essere letto – ed è stato letto – anche in questa chiave. Certo Matteotti non si illudeva di poter ottenere davvero ciò che chiedeva, ossia l’annullamento delle elezioni. E sapeva che la vittoria del fascismo non era effimera (e non era dovuta solo alle violenze, ai brogli e alle manipolazioni del voto). Intendeva piuttosto porre le basi per una opposizione di principio, dura e senza compromessi, e si candidava implicitamente alla leadership di questa opposizione.
Chi sono gli assassini? Il capo si chiama Amerigo Dùmini. Ha 30 anni, è nato negli Stati Uniti da padre toscano e madre inglese. Ha un passato di combattente pluridecorato nella Grande Guerra e di squadrista fra i più duri del Fascio fiorentino (è coinvolto fra l’altro nei fatti di Sarzana del luglio 1921). Anche gli altri componenti del commando omicida – Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e l’autista Augusto Malacria – sono sulla trentina (per l’esattezza hanno dai 28 ai 36 anni), vengono tutti dalla Lombardia, culla del movimento fascista, sono ex combattenti e hanno servito tutti nel corpo degli arditi. Hanno una fedina penale tutt’altro che immacolata: hanno subìto condanne chi per furti chi per violenze, due di loro sono stati addirittura condannati come disertori (ma sappiamo che durante la Grande Guerra bastava un ritardo nel rientro al reparto per guadagnarsi questa qualifica). Ufficialmente fanno i commercianti o gli artigiani: in realtà hanno trovato il modo di condurre una vita relativamente agiata esercitando il ruolo di uomini di mano, svolgendo insomma i lavori sporchi (soprattutto aggressioni e pestaggi di avversari politici, ma anche missioni all’estero per spiare gli oppositori) al servizio del fascismo al potere. Sono, appunto, la ‘Ceka fascista’: denominazione in uso allora, con riferimento alla polizia segreta sovietica, ma secondo me chiaramente esagerata. Non si trattava infatti di una rete capillare di agenti ben strutturata e organizzata, ma di una banda, o di più bande, di bravacci mal disciplinati e, come cercherò di dimostrare, scarsamente professionali. Quel che è certo è che non agivano per proprio conto.
Due erano i referenti principali di questi signori, nelle alte sfere del fascismo: Cesare Rossi, capo ufficio stampa della presidenza del Consiglio, da sempre consigliere politico ed eminenza grigia di Mussolini, e Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Pnf. I ‘cekisti’ godevano inoltre di qualche copertura autorevole al ministero degli Interni, dove il sottosegretario Aldo Finzi fungeva da vicario di Mussolini (che del dicastero era il titolare), mentre a capo della polizia c’era il quadrumviro della marcia su Roma, il generale Emilio De Bono. Un altro terminale importante era Filippo Filippelli, direttore di un giornale di recente fondazione, «Il Corriere italiano», collegato ad alcuni gruppi affaristici che ruotavano attorno al nascente regime. Era stato lui a procurare l’auto usata dal commando.
Il rapporto ambiguo e mai formalizzato fra i vertici del partito (e, in qualche caso, delle istituzioni) e questo oscuro milieu affaristico e squadristico fotografa bene la situazione dell’Italia in quel momento. Il fascismo è al governo dall’ottobre del 1922. Ha già cominciato a permeare di sé le istituzioni, a sovrapporre i suoi simboli e i suoi rituali a quelli dello Stato. Ma questo processo è ancora agli inizi. Fatto sta che la struttura costituzionale, legislativa e giurisdizionale dello Stato liberale è ancora in piedi. Le forze armate, gli apparati di polizia e l’ordine giudiziario non sono ancora del tutto fascistizzati. E il governo guidato da Mussolini (nel quale siedono esponenti delle forze fiancheggiatrici del regime) non può muoversi come un potere assoluto, sciolto da ogni controllo. Questo significa che polizia e magistratura possono, come spesso accade e come accadeva già prima della marcia su Roma, chiudere un occhio su violenza diffusa, atti di teppismo e pestaggi, ma possono anche muoversi con efficienza: soprattutto in presenza di un delitto di inaudita gravità e di un regime ancora non consolidato. È in questo quadro che trovano spiegazione gli eventi immediatamente successivi all’uccisione di Matteotti.
Gli assassini rientrano a Roma verso le 22.30, sei ore dopo il sequestro. Non è chiaro perché ci abbiano messo tanto. Forse hanno aspettato che facesse buio e che la temperatura calasse (allora non c’era l’ora legale) per procedere al seppellimento del cadavere: un’operazione a cui evidentemente non erano preparati visto che, a quanto risulta, non di...

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