Il terzo spazio
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Il terzo spazio

Oltre establishment e populismo

  1. 160 pagine
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Il terzo spazio

Oltre establishment e populismo

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Dobbiamo recuperare l'ambizione di mostrare la via verso un futuro di cui essere fieri e in cui la felicità di tutti sia un diritto. Ci troviamo a vivere un momento eccezionale. Un momento in cui le certezzevengono meno. Un momento carico di contraddizioni e di rischi. Non è il tempo della malinconia e dell'abbandono. È il tempo del coraggio e dell'impegno.

Perché quando i nostri nipoti ci chiederanno dove eravamo, noi, in un momento come questo, dobbiamo essere in grado di poter rispondere: dal lato giusto, a fare la nostra parte.

L'Europa è ormai un campo di battaglia diviso fra un establishment in bancarotta e nuovi nazionalismi reazionari. Da un lato, la politica tradizionale arroccata a difesa del fortino dello status quo, impegnata in un vano tentativo di proteggere un estremo centro che non può e non deve più reggere: il centro di una certa globalizzazione neoliberale, dell'austerità, quello che ha assunto come simboli le grandi coalizioni e la Troika. Dall'altro, l'emergere prepotente di nuove forze regressive che sfruttano un sentimento reale e dilagante di insicurezza sociale per promuovere una politica identitaria, reazionaria e autoritaria. È più urgente che mai creare un terzo spazio con una visione forte e ambiziosa. Uno spazio che tenga insieme quanti già lavorano per un'alternativa, costruendo un'alleanza popolare vincente in grado di rappresentare un punto di riferimento nel disordine europeo e di radunare quanti rifiutano di essere meri spettatori della disintegrazione del nostro continente. Uno spazio capace di mettere in campo un'alternativa concreta a un sistema economico fallito e a una democrazia corrotta, che finalmente superi la falsa opposizione fra Europa e Stato nazionale.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858129029
Argomento
Economics

Uscita d’emergenza

La rivoluzione del buon senso

La Spagna ha una normativa sugli sfratti tra le più dure d’Europa: permette agli istituti finanziari di appropriarsi della casa ipotecata e, contemporaneamente, di continuare a richiedere il pagamento del prestito alla famiglia sfrattata. È anche uno dei paesi con il numero più alto di sgomberi forzati eseguiti, quasi mezzo milione: i frutti amari di un boom immobiliare che ha portato la Spagna a costruire più case di Italia, Francia e Germania messe assieme e di una crisi economica durissima che ha visto un quarto degli spagnoli perdere il lavoro.
Ma se in Ungheria la crisi abitativa viene cavalcata da un politico autoritario di destra, in Spagna è una rete della società civile – la PAH, letteralmente la ‘piattaforma delle vittime delle ipoteche’ – che organizza migliaia di persone a rischio di perdere la propria casa in un movimento di lotta per il diritto all’abitare e lancia una campagna nazionale contro lo scandalo degli sfratti e l’avidità delle banche, occupando così quello spazio di difesa dei più deboli cui la politica tradizionale, anche qui, non pare più interessata. Si utilizzano tutti gli strumenti a disposizione – dalla pressione in Parlamento alla disobbedienza civile, dalla presentazione di una legge di iniziativa popolare con oltre un milione di firme ai famosi escraches, manifestazioni organizzate di fronte alle abitazioni dei politici coinvolti nello scandalo abitativo o che comunque si oppongono all’approvazione di leggi favorevoli alle persone finite sotto sfratto. E soprattutto, se in altri paesi l’establishment è riuscito a deflettere la rabbia popolare indirizzandola verso gli ultimi e i più poveri, questa operazione qui non riesce, grazie anche alla straordinaria politicizzazione di massa scaturita dal movimento 15M degli indignados.
La frattura sociale viene così ridefinita attraverso un’opposizione fra un noi inteso in maniera inclusiva – le persone che rischiano la disoccupazione e quindi lo sfratto, fra cui moltissimi immigrati, spesso i primi a risentire della crisi immobiliare – e un loro che diviene la personalizzazione di un sistema corrotto e oligarchico: la casta, che in Spagna viene intesa più come oligarchia finanziaria che come élite politica, indicando un sistema economico basato sulle diseguaglianze, sulla grande ricchezza e sulla speculazione finanziaria. La casta come sinonimo del fondamentalismo di mercato.
D’altronde, la portavoce della PAH, Ada Colau, non ha peli sulla lingua. «Criminalità organizzata» è come definisce il sistema bancario in uno show televisivo, dopo aver dato del «criminale» al rappresentante dell’associazione bancaria spagnola durante un’audizione al Parlamento nazionale. Parole pesanti, forse, ma che sembrano citare quelle pronunciate nel 1936, nel discorso di chiusura della campagna elettorale a Madison Square, niente di meno che da Franklin Roosevelt, il presidente americano che sarà responsabile del New Deal: «Sappiamo ora che il potere della ricchezza organizzata può essere pericoloso quanto quello della criminalità organizzata».
Il discorso di Colau fa infatti costantemente appello ai diritti umani e fondamentali e al senso comune. Non è giusto che migliaia di cittadini vengano gettati nell’inferno della disoccupazione, sbattuti fuori dalla propria casa e nonostante tutto ancora perseguitati dalle banche per l’estinzione del mutuo, mentre i responsabili del disastro bancario vengono salvati da prestiti pubblici e rimessi al loro posto. Qualcuno forse non lo pensa? Pretendere che un sistema chiaramente immorale venga raddrizzato non ha nulla di radicale, ma è molto di buon senso. Un buon senso che gli spagnoli sembrano condividere: oltre tre quarti approvano il messaggio e le tecniche di disobbedienza della PAH.
Nel maggio 2015 Ada Colau viene eletta sindaco di Barcellona, la seconda città della Spagna.
Cleveland, 1953. Inaugurazione di una nuova fabbrica automobilistica, un gioiello di efficienza e automazione. Henry Ford II passeggia con Walter Reuther, il segretario del principale sindacato metalmeccanico. «Walter – chiede – come pensi di poter convincere tutti questi robot a pagare la quota di iscrizione al sindacato?». Al che, senza battere ciglio, Reuther risponde: «E tu, Henry, come pensi di convincerli a comprare le tue macchine?».
La ragion d’essere della socialdemocrazia si è tradizionalmente poggiata su un presupposto semplice quanto dirompente: la regolamentazione del capitalismo, la crescita salariale, elementi di ridistribuzione e pianificazione industriale, risultano, in ultima istanza, nell’interesse del capitale stesso. È stato proprio Henry Ford il primo ad accorgersene. Tagliando l’orario lavorativo e aumentando i salari dei propri dipendenti, ha anticipato la creazione della grande classe media che avrebbe inaugurato l’era del consumo diffuso come necessario sbocco per quella produzione di massa che le innovazioni industriali e manageriali stavano spingendo.
A partire dal New Deal americano e fino agli anni della deregulation, è stata questa la funzione dello Stato e della mano pubblica. Pensiamo a un mare in cui convivono squali e pesci minori. Fino a che l’equilibrio fra predatori e prede viene mantenuto, l’ecosistema rimane stabile. Ma perché questo accada, occorre porre dei limiti alla capacità degli squali di divorare tutti i pesci.
In natura, sono vari i fattori che concorrono a limitare il potere dei grandi. Nel mondo degli uomini, è lo Stato a intervenire, regolando e imbrigliando il mercato, sulla spinta della partecipazione democratica e popolare. Ma una volta dissolti i lacci e lacciuoli, una volta ridotta al minimo la capacità della democrazia, attraverso la politica, di incidere e modificare i rapporti di forza economici, i predatori si sono trovati liberi da ogni vincolo. Sregolati. E hanno iniziato a mangiare tutte le prede. Fino a lasciarne in vita così poche che ora sono alcuni tra gli stessi squali ad iniziare a morire per inedia. Ed eccoci in una crisi economica apparentemente senza fine.
La funzione storica della socialdemocrazia è stata quella di limitare i forti. Per difenderli, in ultima istanza, dagli effetti nefasti del proprio potere. O, in altre parole, di umanizzare il capitalismo per salvarlo da se stesso. La globalizzazione non doveva necessariamente trasformarsi nell’estremo dell’iperglobalizzazione né portare alla pressione al ribasso su redditi e salari della stragrande maggioranza dei cittadini occidentali. Ma mentre aumentavano a dismisura il commercio globale e il suo impatto sulla distribuzione dei costi e benefici, veniva ridotta – come abbiamo visto in apertura – la capacità di intervento dello Stato per riorganizzarne gli effetti su vincitori e perdenti. È questo, d’altronde, che con una certa ironia ha rimproverato agli Stati Uniti niente di meno che Jack Ma, l’imprenditore cinese multimiliardario fondatore di Alibaba: l’America, ha detto, ha guadagnato enormemente dalla globalizzazione; sono stati i suoi governi a scegliere di non ridistribuire questa ricchezza ai cittadini ma di lasciarla accumulare nelle mani di pochi e sperperarla in tredici guerre in trent’anni.
Ma occorre oggi salvare il capitalismo o lasciarselo alle spalle? Occorre riformare l’Europa, drizzarne le peggiori storture, o immaginare un nuovo inizio dopo aver fatto tabula rasa? Non ci entusiasma il dibattito fra riforma e rivoluzione. E questo perché crediamo che nulla di buono possa emergere da un sistema in crisi. Non vediamo uscite progressiste e felici all’interno di un sistema inceppato che produce solo miseria, rancore e rigetto dell’altro e del diverso, così come non le vediamo emergere dalle sue ceneri: l’araba fenice in politica è un animale mostruoso e assassino. In condizioni come queste, saranno i potenti a privatizzare la paura, privatizzare l’angoscia, privatizzare la sofferenza. Pensiamo quindi che il sistema vada stabilizzato prima di poter essere superato. Dobbiamo ora mettere l’enfasi su ciò che potremmo fare già domani, già oggi, per rompere la correlazione perversa fra pensiero unico e implosione delle democrazie occidentali: quando il sistema arriva a livelli di stortura e corruzione di tale portata, basta un vero riformismo per apparire e dirsi orgogliosamente anti-sistema. In un contesto di tale dominio del fondamentalismo di mercato e di ossessioni securitarie e xenofobe, sono gli stessi diritti fondamentali – come l’esperienza di Ada Colau rende chiaro – a divenire il luogo da cui ripartire. Quegli stessi diritti che le nostre Costituzioni già dovrebbero garantire: il diritto alla casa, alla salute, al lavoro, alla dignità, a un ambiente pulito, al riconoscimento dei beni comuni, all’istruzione e alla formazione, alla piena partecipazione politica.
Anche se i primi passi avranno il compito di correggere alcune delle storture più macroscopiche di cui sembriamo essere divenuti vittime impotenti, crediamo che una stabilizzazione di un assetto in profonda crisi non potrà che avvenire attraverso cambiamenti capaci da subito di modificare tanto la sua struttura economica quanto il suo funzionamento democratico. E che, quindi, una stabilizzazione rappresenterà anche una prima, importante trasformazione, in grado di restituire elasticità al sistema e di aprire alla possibilità di un’accelerazione verso un cambiamento virtuoso, spostando quel senso comune che in politica definisce i confini del possibile.
È una rivoluzione del buon senso che può salvarci.

Città ribelli

Non è solo Barcellona a eleggere un sindaco proveniente dalle fila dei movimenti sociali e della cittadinanza attiva. Madrid, Valencia, Cadice, Saragozza, La Coruña – vale a dire le principali città spagnole – portano al potere nel 2015 governi locali espressione di nuove coalizioni cittadine che rimpiazzano il dominio fino ad allora incontrastato dei partiti tradizionali di centro-destra e centro-sinistra.
Sono governi emersi dalla straordinaria partecipazione civica che esplode con il movimento degli indignados nel 2011 e che continua – spesso sottotraccia – fino a spingere la creazione e il successo di Podemos alle elezioni europee del 2014 e l’emergere di nuove liste civiche capaci di prendere localmente il potere nel 2015. Così facendo, si inizia dal livello municipale a rompere il monopolio dei partiti del pensiero unico, senza però prestare il fianco all’internazionale nazionalista e reazionaria, marcando un terzo spazio che inizia a dare corpo all’idea che potremmo definire di sovranità di prossimità. Le città si trovano al centro delle ricadute tutte negative della doppia crisi – quella economica e quella democratica. Non deve quindi sorprendere che proprio dal livello locale e municipale sorgano le prime risposte e la timida apertura di un nuovo spazio.
La percezione di una perdita di controllo da parte delle comunità territoriali verso i flussi globali è alla base di quello scollamento democratico che si tramuta molto spesso in un rigetto complessivo del sistema e dello status quo. Ma sarebbe un errore trarre un’equivalenza fra nazionalizzazione dei processi decisionali e loro democratizzazione. O, in altre parole, fra sovranità nazionale e sovranità popolare. Lo Stato nazionale può essere tanto, e più, coercitivo e oppressivo delle istituzioni transnazionali. Basti pensare alle grandi opere inutili imposte ai territori, alle trivellazioni petrolifere o alle assurde costrizioni, in Italia, del patto di stabilità interno che lega le mani proprio ai comuni più virtuosi. O ancora, negli Stati Uniti, alla ferocia dell’attacco statale sperimentata a fine 2016 dalle comunità di nativi americani che protestavano contro la costruzione dell’oleodotto Dakota Access Pipeline – una campagna, tra l’altro, sostenuta anche da Bernie Sanders proprio sulla base di un ritorno della sovranità alle comunità locali e ora schiacciata dalle prime decisioni esecutive di Donald Trump1.
Senza nascondersi i limiti delle competenze del livello locale, è proprio lo spazio municipale che può offrire un primo spiraglio di una nuova politica portatrice di democrazia ed eguaglianza. D’altronde è proprio a un recupero di ‘controllo’ che mirano le prime azioni del nuovo governo di Barcellona. Senza ascoltare quanti vorrebbero la mobilità del capitale una caratteristica tale da impedire qualunque regolamentazione pubblica, il Municipio sta mettendo in piedi una politica di fermo contenimento della speculazione edilizia e del business del turismo, soprattutto quello della falsa sharing economy di Airbnb, che sta facendo lievitare i costi degli affitti per cittadini e studenti e trasformando il centro storico in un grande parco giochi.
Sempre nel settore edilizio, va in questa direzione il negoziato serrato che l’amministrazione comunale ha intrapreso con i grandi istituti finanziari, che ha portato alla cessione di 500 appartamenti sfitti su cui avviare un programma di locazioni a canone ridotto. O, ancora, il blocco di centinaia di sfratti ottenuto tramite un’unità speciale costituita proprio dal Comune, l’avvio di un programma di edilizia popolare e l’ultimatum verso quelle banche responsabili di tenere appartamenti sfitti offrendo l’alternativa fra una multa salata e un affitto a canone concordato. Fino ad arrivare, poi, alla richiesta, congiuntamente ad altre città spagnole, di un ritorno a una regolamentazione statale sul prezzo degli alloggi. Come peraltro si sta facendo in Germania, nel programma della nuova coalizione ‘rosso-rosso-verde’ alla guida della città-Stato di Berlino, e proprio sulla spinta delle Mieterinitiativen, i movimenti di lotta degli inquilini. Perché la casa è un diritto costituzionale fondamentale e non c’è libero mercato che tenga. Discorsi simili si potrebbero fare sul sostegno all’economia solidale, sulla transizione verso un 100% di energie rinnovabili, sullo sviluppo di una rete digitale libera dall’intrusione delle grandi multinazionali e su tante altre questioni.
Ma non si tratta solamente di nuove politiche sociali – capaci di arginare, a livello locale, i frutti peggiori della tempesta. L’esperienza municipalista tenta, con un passo doppio, di cambiare l’orientamento strategico delle istituzioni e del governo locale e, al tempo stesso, di rafforzare l’autonomia e la partecipazione della cittadinanza alle sfide comuni. Utilizzando una dicotomia che sarà centrale per la nostra discussione più avanti, si tratta di essere contemporaneamente dentro e fuori lo spazio istituzionale, ricostruendo spazi di sovranità popolare all’interno delle istituzioni di prossimità.
Molte delle idee alla base dei nuovi movimenti municipalisti spagnoli trovano in realtà origine proprio in Italia – paese fecondo di proposte, teorie e vivacità di cittadinanza ma preda di una classe politica immobile, ignorante e refrattaria al cambiamento. Il nome del movimento che ha vinto le elezioni – Barcelona en Comú – trae ispirazione proprio dalla stagione dei movimenti italiani per i beni comuni. Sarà il referendum contro la privatizzazione dell’acqua del 2011 a rendere popolare il concetto, anche in Spagna.
Uno degli elementi più importanti riguarda proprio la possibilità di integrare un governo della cittadinanza nella gestione dei beni e delle risorse essenziali, a partire da beni fondamentali come l’acqua, l’energia o il suolo: beni comuni per eccellenza, in quanto necessari alla vita, ma frutto negli ultimi anni di un processo di privatizzazione e immissione sul mercato sempre più dirompente. Lo spazio municipale è uno spazio chiave per iniziare a recuper...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Il ritorno della storia
  2. Il Turco Meccanico
  3. Il circolo vizioso del pensiero unico
  4. Punto di rottura
  5. Uscita d’emergenza
  6. Cambiare l’Europa prendendo il potere
  7. Dalla parte del futuro
  8. Ringraziamenti