Guida allo studio della storia moderna
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Guida allo studio della storia moderna

  1. 186 pagine
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Guida allo studio della storia moderna

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La Guida è uno strumento didattico che viene incontro alle nuove esigenze formative determinate dalla riforma universitaria e costituisce un'indispensabile integrazione metodologica al manuale per i corsi dei trienni di base. Il suo carattere modulare e la chiara articolazione in sezioni permettono un uso del testo a più livelli: il volume unisce infatti a una grande chiarezza di esposizione didattica un alto livello scientifico. Nonostante il taglio introduttivo e i limiti di spazio (che sono stati contenuti proprio per privilegiare la praticità d'uso), lo sforzo dell'autore è stato quello di trovare un punto di equilibrio fra i risultati storiografici classicamente acquisiti e una ragionevole apertura a tematiche e tendenze più recenti.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116593
Argomento
Storia
Categoria
Storiografia

1. Concetto, periodizzazione, problemi

1.1. La concezione classica e le sue ragioni

Cominciamo dai numeri: 1492 e 1815. Ci sono molti buoni motivi per considerare seriamente le date canoniche di inizio e fine della storia moderna, purché le si intenda come due modi rapidi, efficaci e precisi di indicare due periodi necessariamente un po’ più vaghi e fluttuanti, rispettivamente fra Quattro e Cinquecento per l’inizio, fra Sette e Ottocento per la fine.
Quanto al primo periodo, la scoperta dell’America (col precedente della caduta di Costantinopoli nel 1453 e dell’avanzata islamica nel Mediterraneo) è un evento d’importanza capitale, evidente soprattutto sul medio e lungo termine. Si tratta di uno dei momenti decisivi della costruzione di quel mondo globalizzato nel quale oggi ci accorgiamo anche più che in passato di vivere. Dopo di allora l’economia europea prese una dimensione planetaria, e questo ebbe ripercussioni determinanti anche sugli scontri e gli equilibri di potere nel Vecchio Continente. Torneremo più avanti su questo argomento (2.2.3), ma basti fin d’ora pensare al ruolo delle colonie alla base del predominio e dello sviluppo dell’Inghilterra nel Settecento.
Sul piano culturale le nuove scoperte furono altrettanto influenti: l’intera visione del mondo propria degli uomini del medio evo fu scossa dalla constatazione dell’esistenza di terre e popoli estranei all’orizzonte della Bibbia e mai raggiunti dalla predicazione del Vangelo. Poiché la Bibbia era il riferimento non solo per la religione, ma anche per la filosofia, la morale e la scienza, il contatto col Nuovo Mondo fu una delle premesse della grande crisi intellettuale, comprendente la cosiddetta rivoluzione scientifica, che si svolse in Europa fra Sei e Settecento (vedi 2.5.1).
In ambito europeo un altro mutamento drammatico e profondo fu provocato all’inizio del Cinquecento dalla Riforma (1517). Ben più del movimento umanistico-rinascimentale, che non coinvolse in modo significativo le grandi masse della popolazione, la divisione fra Europa cattolica ed Europa protestante segnò una decisiva rottura rispetto all’unità cristiana del medio evo, e cominciò a disegnare dei caratteri peculiari che sono tuttora molto evidenti e rilevanti nelle varie parti del nostro continente. La novità della Riforma è anche legata al suo stretto rapporto con due grandi fenomeni della cultura e della politica del tempo.
Il primo è l’invenzione (1455) e sviluppo della stampa, un agente di modificazione graduale e quindi poco clamoroso, ma estremamente incisivo, tanto da essere stato definito e ricostruito come una «rivoluzione inavvertita» (Eisenstein, 1995). Esso favorì la conoscenza degli scrittori classici propugnata dagli umanisti del Rinascimento; pose le basi per il lavoro di ricerca e confronto nell’ambiente degli scienziati; ebbe soprattutto la conseguenza di moltiplicare con una straordinaria diffusione l’effetto delle opere di Lutero e degli altri esponenti della Riforma, nonché le edizioni tradotte della Bibbia.
L’altro fenomeno è l’ulteriore rafforzamento, rispetto ai secoli del basso medio evo, delle monarchie nazionali e degli Stati territoriali regionali a scapito del principio universalistico dell’impero cristiano. Rompendo con l’altra autorità universale, quella della Chiesa di Roma, e provocando la nascita di Chiese a misura di realtà locali più o meno grandi, la Riforma fomentò quel processo di frammentazione politico-istituzionale, e di converso ne fu favorita e influenzata. Non a caso la preoccupazione dominante di Carlo V come imperatore fu di ottenere in un concilio la riunificazione religiosa della Cristianità, ovvero di sconfiggere e riportare all’obbedienza con le armi la lega dei principi protestanti tedeschi: un progetto infine complessivamente fallito sia in un senso che nell’altro (pace di Augusta, 1555); sicché la cesura e le nuove condizioni causate dalla Riforma furono confermate.
Per quanto riguarda la periodizzazione finale dell’età moderna, sono soprattutto due le vicende che giustificano la scelta dei decenni a cavallo fra Sette e Ottocento. Il primo è la Rivoluzione francese (1789), con la successiva esportazione dei suoi principi nell’Europa conquistata dagli eserciti di Napoleone fino alla catastrofe conclusiva (appunto: 1815). Né l’involuzione autoritaria del regime napoleonico, e neppure il ripiegamento conservatore dei governi della Restaurazione, cancellarono l’opera principale della Rivoluzione, cioè l’abolizione della feudalità. Per cercare di rendere in poche parole l’importanza di tale opera, basta dire che essa ribaltò l’idea della disuguaglianza, dell’ingiustizia e del privilegio come cardini naturali dell’ordine del mondo, e aprì la lotta – che non è certo finita – per dare seguito pratico a quel ribaltamento.
Fra i privilegi e le ingiustizie attaccati dalla Rivoluzione francese c’erano anche quelli in campo economico, tanto che essa si può considerare una premessa dello sviluppo ottocentesco dell’economia borghese. Tale sviluppo si era però già avviato in Inghilterra con la prima fase della Rivoluzione industriale negli ultimi decenni del Settecento: dunque proprio il paese non toccato dalle novità politiche francesi fornisce l’altro motivo per sottolineare il carattere di rottura presente già nel periodo fra i due secoli. Quanto a capacità di cambiare il corso della storia, è stato detto che la Rivoluzione industriale, che ha creato le condizioni materiali dell’attuale civiltà occidentale, è paragonabile solo alla rivoluzione agraria del Neolitico, avendo a sua volta trasformato l’uomo da agricoltore in manipolatore di macchine azionate da energia inanimata (Cipolla, 1997).

1.2. Origini liberali della concezione classica

Possiamo certo immaginare che uno studente sul punto di intraprendere i suoi corsi universitari sia ben consapevole della periodizzazione classica della storia moderna, e in grado di argomentarla con le ragioni che si sono fin qui addotte. Fermandosi un poco a riflettere, forse egli potrebbe facilmente svolgere un’osservazione ulteriore: che cioè tutte queste consacratissime ragioni per individuare la storia moderna come tale obbediscono a una logica di progresso, valutato sul metro della civiltà odierna, più precisamente sul metro dell’odierna civiltà occidentale, di cui i vari eventi e vicende periodizzanti sono presentati come anticipazioni e preparazioni. La scoperta dell’America in un senso, la Rivoluzione industriale in un altro, sono all’origine della nostra economia globalizzata; la Riforma protestante spiega la diversa cultura di Stati Uniti ed Europa settentrionale da un lato, Europa meridionale e America Latina dall’altro; la Rivoluzione francese è alla base delle libertà borghesi e democratiche che caratterizzano politicamente l’Occidente. Si tratta nell’insieme di una visione e sistemazione interpretativa del flusso della storia in cui si guarda al passato calati nel proprio punto d’osservazione nel presente, tendendo a sottolineare ciò che nel passato sembra condurre al traguardo attuale, assunto come positivo.
Ben inteso: non è necessariamente uno scandalo. Basta solo prenderne atto; e sapere che quella appena esposta non è una visione e sistemazione «naturalmente» offerta dall’oggettiva evidenza delle cose, ma il frutto di uno dei molti possibili, e tutti più o meno parziali e mirati, sguardi sul passato. Intanto, va messo nel dovuto rilievo il fatto che siamo di fronte a un quadro che, pur con l’apertura sull’America, è complessivamente concepito, e reso comunque plausibile, sulla sola misura dei movimenti e degli interessi europei. Ma anche in tale ottica dobbiamo renderci conto del carattere non necessario e non neutrale di questa interpretazione canonica, con la sua connessa periodizzazione, della storia moderna. Per convincercene meglio, raccoglieremo ora qualche informazione su come e quando essa si è formata. Ci accorgeremo così che essa non deriva solo da un pacifico atteggiamento d’indagine scientifica, ma anche da una presa di posizione ideologica molto netta e alquanto battagliera.
La sua lontana premessa va infatti individuata nel superamento, attuato da alcuni dei maggiori pensatori dell’Illuminismo, della concezione cristiana della storia e del mondo come cammino dell’umanità verso la Salvezza: la concezione della storia come historia Salutis. In tale prospettiva, addirittura risalente nelle sue prime formulazioni ai grandi padri della Chiesa san Girolamo e sant’Agostino (IV-V sec. d.C.), l’unica data davvero significativa, l’unica cesura dopo la Creazione, era l’avvento del nuovo Adamo, il mistero dell’Incarnazione di Cristo, compimento della promessa divina al popolo eletto garantita nell’Antico Testamento. In una simile teologia universalistica, i periodi storici come noi siamo abituati, quasi inavvertitamente, a intenderli – cioè epoche ben caratterizzate e distinte una dall’altra – non erano neppure concepibili, poiché tutta la storia fluiva senza soluzione di continuità, uguale a se stessa davanti all’Eterno.
Il più agguerrito avversario di questa visione integralmente confessionale della storia fu Voltaire, che utilizzò le ricerche dei filosofi ed eruditi del Seicento (Hobbes, Spinoza e altri) per attaccare il preteso valore assoluto della Bibbia, e ridurla al rango di un testo prodotto dalla storia degli uomini, e per ciò stesso privo di un’autorità indiscutibile (un libro di straordinaria efficacia in proposito è il suo tuttora leggibilissimo Dizionario filosofico, 1764). Scopo principale di Voltaire era ovviamente quello, molto pratico e immediato, di minare le basi del fanatismo, dell’intolleranza e delle persecuzioni religiose non ancora spente in Europa ai suoi giorni; ma scalzando la Rivelazione dal suo posto e ruolo centrale di unico evento capace di attribuire un senso alla storia, egli diede anche l’avvio a una grande innovazione culturale, annunciata dalle sue stesse opere storiografiche, in particolare Il secolo di Luigi XIV (1751). La storia, ora non più solo indistinta attesa della Salvezza, poteva essere sottoposta a interpretazioni e giudizi ispirati a fattori tutti mondani e umani, quali quelli propri e caratteristici della philosophie illuministica: civiltà e progresso; e di conseguenza diventare passibile di suddivisioni in periodi corrispondenti alle tappe successive dell’affermazione di quei fattori (Kaegi, 1960). Proprio in questo modo essa fu poi in effetti ripensata e riordinata nel libro che giunse a coronare, nel 1794, la storiografia illuministica del progresso: il libro, eloquente fin dal titolo, di Condorcet Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano.
Sulla base di tale premessa illuministica, fu l’esperienza della Rivoluzione francese a suggerire, a chi all’inizio dell’Ottocento si occupava in Europa di insegnare e scrivere storia, le prime influenti proposte di quella che abbiamo chiamato periodizzazione classica dell’età moderna. A quegli storici parve allora evidente che la Rivoluzione – uno spartiacque drammatico ai loro occhi, come a quelli di Alessandro Manzoni, fra due secoli «l’un contro l’altro armati» – era stata sì uno spettacolare ribaltamento delle condizioni esistenti, ma anche la conclusione di un periodo di tre secoli che si dovevano ben distinguere dai precedenti per il loro contenuto di innovazione rispetto al medio evo (età di mezzo), che a sua volta non era più solo un concetto letterario e polemico da umanisti, ma esso stesso a sua volta un’epoca coerente e compiuta sotto il profilo dello sviluppo delle civiltà.
Come primo esempio di periodizzatore ottocentesco dell’età moderna si può prendere in considerazione il francese François Guizot, che fin dal 1812 fu incaricato di ricoprire all’Università La Sorbona di Parigi una cattedra intitolata proprio alla histoire moderne. Nel linguaggio accademico del tempo l’espressione «storia moderna», anziché la semplice «storia», fu scelta per intendere la storia non antica; ma Guizot ne aveva un’idea più precisa, incentrata proprio sull’esistenza di due epoche, il Cinquecento e la Rivoluzione, come momenti estremi di una vicenda piena di contraddizioni, ma sostanzialmente unitaria. Leggiamo un brevissimo passo, tratto dall’esordio della lezione 11 del suo grande e famoso Corso del 1828, la lezione che affronta appunto il periodo fra Quattro e Cinquecento:
Giungiamo alla soglia della storia moderna propriamente detta, alla soglia di questa società che è la nostra, di cui le istituzioni, le opinioni, i costumi, erano, quarant’anni fa, quelli della Francia, sono ancora quelli dell’Europa, ed esercitano ancora su di noi, malgrado la metamorfosi che la nostra rivoluzione ci ha fatto subire, un influsso tanto potente. È nel XVI secolo – ho avuto già l’onore di dirvelo – che comincia veramente la società moderna.
Più tardi Guizot sarebbe diventato un importante esponente della politica conservatrice – e la sua carriera fu di fatto interrotta dalla rivoluzione del 1848 – ma quando pronunciava quelle parole il suo era l’atteggiamento di un liberale (per giunta protestante) che salutava con adesione e favore nell’età moderna l’inizio di uno svolgimento positivo verso il presente. E fu proprio questo l’atteggiamento dominante nell’elaborazione, che ebbe allora il suo momento decisivo, della periodizzazione che si doveva poi rivelare tanto a lungo influente, e da cui anche noi abbiamo preso le mosse. Da un punto di vista illuminato, liberal-borghese, in senso lato progressista, e talora propriamente democratico, l’età moderna, già dalla sua prima fase (con le scoperte geografiche, il Rinascimento, la Riforma), era salutata come la fine del vecchio e l’inizio del nuovo, la fine della stagnazione e l’inizio dello sviluppo, la fine delle superstizioni bigotte e l’inizio dell’era della ragione, la fine dell’autoritarismo e del dogmatismo e l’inizio delle libertà civili e intellettuali; e così via.
C’è almeno un’eccezione, che per il suo enorme rilievo non si può trascurare, alla regola di questa impronta progressista dell’enfasi posta sull’apertura della storia moderna: è il saggio La civiltà del Rinascimento in Italia (1860) in cui lo storico svizzero-tedesco Jacob Burckhardt descrisse la vita italiana del Quattrocento e del primo Cinquecento come «madre e patria dell’uomo moderno» (sono parole di una sua famosa lettera contemporanea al libro). L’affermazione delle grandi individualità geniali e spregiudicate che costituiva la pietra angolare della modernità rinascimentale proposta nel saggio non rimandava tanto ai valori classici dell’individualismo liberale, quanto a un’attitudine d’insoddisfazione e critica verso lo sviluppo della società borghese del tempo e la sua prosastica morale, attitudine che in effetti corrisponde assai poco alla linea razionalistica aperta da Voltaire.
Nonostante questa prestigiosa eccezione, la regola rimase tuttavia quella di porre l’accento sul Rinascimento, caratterizzato allora come un’epoca storica a tutto tondo, precisamente in quanto prima tappa di un cammino valutato positivamente e fatto proprio. Negli stessi anni del lavoro di Burckhardt, il grande storico francese Jules Michelet, un laico democratico, veniva stendendo i volumi della sua monumentale Histoire de France: Rivoluzione e Rinascimento tornavano qui a segnare i due versanti della storia moderna, una storia che addirittura si identificava con la generosa lotta umana della libertà. Il rilievo della personalità e l’influsso dell’opera di Michelet ci esimono forse dall’aggiungere altri elementi – tranne un cenno all’esistenza di una importantissima versione inglese (whig) della storiografia liberale (vedi 4.10.2) – per spiegare la matrice ideologica della formazione, avvenuta nel corso dell’Ottocento, della periodizzazione e concezione classica della storia moderna.

1.3. La crisi della concezione classica

A pensarci bene, quest’ipoteca liberal-progressista del concetto di storia moderna è del resto implicita nell’uso stesso dell’aggettivo. Un esempio molto banale ce lo chiarisce subito: quando noi pronunciamo, ascoltiamo o leggiamo le espressioni «un giovane moderno», «un aperitivo moderno», non intendiamo certo un aperitivo o un giovane dei secoli compresi fra fine Quattrocento e inizio Ottocento; intendiamo invece: dinamico, al passo coi tempi, volto in avanti; e tutto ciò con un segno decisamente positivo. L’aggettivo moderno (dal latino modo = or ora) è nato nel VI secolo d.C. col semplice significato di recente; ma si è poi caricato di una valenza che ne fa, anche nel linguaggio corrente, una parola tutt’altro che neutrale, anzi carica di ambiguità e di riferimenti impliciti e impegnativi insieme (Le Goff, 1977). La costruzione operata da Guizot e dagli altri ha dunque tradotto nel linguaggio e nella visione storiografica uno stato d’animo di simpatia e di fiducia per lo sviluppo del mondo verso il meglio.
Con ciò ha anche definitivamente attribuito alla definizione di storia moderna una pregnanza che non grava con altrettanto peso su quelle di storia medievale e di storia contemporanea. Naturalmente anche la parola contemporaneo si può prestare a molte manipolazioni; e anche la parola medievale può essere ripresa col vecchio intento polemico degli umanisti che disprezzavano il periodo oscuro che li separava dalla classicità. Ma nel caso di moderno, una qualche compromissione valutativa (e positiva) è quasi inevitabilmente insita nella parola: nel senso che i secoli della storia moderna, che dopo tutto avrebbero potuto essere battezzati in mille altri modi, appaiono tali non solo perché cronologicamente corrispondenti al periodo fine Quattro-inizio Ottocento, ma anche perché portatori di caratteri «moderni» (alla maniera – per intenderci, e fatte le debite proporzioni – del giovane e dell’aperitivo).
Ciò pone due connesse questioni cruciali: una è la possibile sovrapposizione inavvertita di significati, cui bisogna fare attenzione nel leggere un qualsiasi libro di storia moderna, a cominciare dalla presente Guida (benché qui si cercherà di preavvertire in qualche forma il lettore alla vigilia delle più ingombranti entrate in scena del «moderno» come elemento non definibile in base alla sola cronologia). L’altra è che le vicende della storia moderna si portano addosso una specie di schiacciante responsabilità politico-morale di rappresentare e mostrare, almeno in prospettiva, qualcosa di buono. Più esattamente: se la porterebbero addosso, se davvero intendessimo ancora la concezione e la periodizzazione della storia moderna proprio nello spirito e con tutte le implicazioni dei suoi fondatori quali Guizot e Michelet.
In realtà, è avvenuto che quella particolare concezione ha seguito almeno entro una certa misur...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. Concetto, periodizzazione, problemi
  3. 2. Le grandi questioni
  4. 3. Le fonti
  5. 4. Lo storico al lavoro