III.
La rotta sud-mediterranea:
dal Ponto Eussino all’Atlantico
1. Due ipotesi da verificare
Nel precedente capitolo, ripercorrendo con i primi colonizzatori greci la rotta mediterranea settentrionale, abbiamo chiarito come i primi codificatori della geografia occidentale dell’Odissea siano stati gli Eubei. Mostreremo ora come quanto abbiamo scritto sia davvero funzionale, anche a livello metodologico, per slargare lo spettro di indagine ad altri teatri di azione dell’attività euboica in ambito commerciale e marinaro, e in particolare a scenari che ci riconducono alle rotte pontiche e sud-mediterranee.
Abbiamo detto che l’Odissea è venuta gradatamente stemperando la propria originaria cornice di riferimenti territoriali, nelle regioni dell’oriente mediterraneo, giungendo fino a noi in un’estrema redazione ripulita ad arte, e quasi asetticamente, da qualsiasi individuabile ancoraggio geografico. Abbiamo quindi concluso il discorso affermando che, come gli Eubei hanno trasferito da oriente a occidente il fulcro primario della propria attività commerciale, così possono avere spostato, nella medesima direzione, il teatro delle avventure di Ulisse, cioè la stessa geografia dell’Odissea. Ma dove hanno tratto il primo impulso a esplorare le ricche contrade dell’occidente? Abbiamo chiarito che da parte della critica il dato è oggi acquisito. Nell’emporio di Al-Mina, alla foce dell’Oronte, dalla frequentazione di Fenici, dei quali hanno precocemente ribattuto le rotte mediterranee, già sul declinare del secolo IX o all’alba del secolo VIII, assurgendo così, per la grecità, al ruolo di primo ‘trait d’union’ tra oriente e occidente.
Orbene, se le cose stanno davvero così, non possiamo prescindere da due necessarie verifiche. In primo luogo, che l’Odissea abbia conosciuto, per iniziativa degli Eubei, eretriesi e/o calcidesi, anche un’arcaica codificazione della sua geografia in contrade orientali. In secondo luogo, che essi, allargando all’occidente i propri interessi commerciali, abbiano ribattuto, per giungere agli empori atlantici, una rotta fenicia: cioè, di necessità, una rotta sud-mediterranea. Entrambe le ipotesi sono non solo legittime, ma, come ora diremo, ampiamente dimostrabili.
2. L’«Odissea» e la localizzazione pontica
Anche se le fonti letterarie tacciono, è un fatto oggi acquisito che, a livelli cronologici assai alti, gli Eubei siano stati pionieri dei commerci greci anche nell’area del Mar Nero. Lo testimonia il dato della cultura materiale. Né la cosa certo ci stupisce considerando come ancora in età classica esista un’etnia di Calcidesi di Tracia, espressamente ricordata da Erodoto (7, 185, 2) come un popolo Chalkidikòn ghénos che, al tempo della seconda guerra persiana, contribuisce con un proprio contingente a infittire le schiere ‘europee’ dell’armata del Gran Re Serse. Dunque Héllēnes Thrḗikes, Greci ‘tracizzatisi’ discendenti da quegli Eubei/Calcidesi che si erano originariamente espansi a nord-est in direzione della Propontide e del Ponto Eussino. Orbene, ritroviamo anche sui litorali di questi due congiunti specchi di acqua – il Mare di Marmara e il Mar Nero (fig. 3) – una localizzazione della geografia dell’Odissea, questa volta orientale anziché occidentale.
Fig. 3. La colonizzazione greca nella Propontide e nel Ponto Eussino
Il nostro testimone è un poeta ellenistico, Apollonio Rodio. Il quale, frammiste alle vicende degli Argonauti, che sono oggetto del suo grande componimento epico, ci conserva memoria del leggendario popolo dei Lestrigoni, dell’immaginaria ubicazione delle Rupi Plagktaí – o Rupi Erranti – e dell’altrettanto immaginifico accesso all’Ade, con relative fiumane infernali, nonché della sede originaria di Circe.
Presso Cizico, sulla costa meridionale della Propontide, due toponimi omerici ci consentono di localizzare il paese dei Lestrigoni, dove approda l’omonima imbarcazione degli Argonauti a stare al dettato del nostro poeta (1, 953-957):
Qui giunse Argo, spinta dai venti di Tracia,
e il Porto Bello l’accolse al termine della sua corsa.
E qui per consiglio di Tifi sciolsero la piccola pietra,
la loro ancora, e la lasciarono sotto una fonte
che ha nome Artacìa, [...]. [trad. Paduano]
Orbene, «il Porto Bello», Kalòs de limḗn, trova una rispondenza nel «porto eccellente», limḕn klytós, che nell’Odissea (10, 87) denomina la chiusa e protetta rada del paese dei Lestrigoni. La cui evocazione è peraltro sottolineata dalla menzione della «fonte Artacìa», della krḗnē Artakíē, che ha il medesimo nome di quella alla quale nell’Odissea attinge l’acqua una fanciulla di stirpe lestrigone (10, 107-108: «Ella era discesa alla fonte, dalla limpida corrente, / Artacìa, donde si soleva portare l’acqua in città»). Inutile poi sottolineare – troppo facile è la suggestione – che «dai venti di Tracia» sono sospinte agli approdi della Propontide anche le navi degli Eubei (i progenitori dei Caldidesi di Tracia?) in rotta per il Mare di Marmara.
Sempre nella Propontide, là dove le acque del Bosforo si increspano per le correnti del Ponto Eussino, ostacolano la navigazione degli Argonauti le due rupi Cianee, pericolosamente mobili sulla distesa marina, che improvvisamente sommuovono con terrificante fragore. Ancora ce lo ricorda il nostro testimone (2, 317-318):
«Subito, appena mi avrete lasciato, vedrete,
là dove il mare si stringe le due rupi Cianee,
che mai nessuno, vi dico, ha attraversato uscendone incolume,
perché non sono saldamente fissate alla loro radici,
ma spesso si scontrano l’una con l’altra e si riuniscono insieme,
e sovra si leva la piena dell’acqua, e ribolle,
e intorno l’aspro lido terribilmente risuona». [trad. Paduano]
Le due rupi Cianee, pétrai Kyanéai dýō, altre non sono che le Cianee Simplegadi ricordate da Euripide (Med. 2) sempre in un contesto argonautico, ed esse, per la tradizione, riferitaci con acribia da Strabone (1, 21), altro non sono che le Plagktaí – o Rupi Erranti – di omerica memoria. Le rupi, cioè, che, nell’Odissea (12, 55-72), a dire di Circe, Ulisse avrebbe dovuto schivare per non soccomberne all’urto violento; le rupi «che gli dèi beati chiamano Erranti»: Plagktàs d’ēˆ toi tás ghe theoì mákares kaléousi.
Penetrati nel Mar Nero, e raggiunta la regione dei Mariandini, presso Eraclea Pontica, gli Argonauti scorgono il Capo Acherusio, dove in una valle sottostante è l’accesso all’Ade e al regno dei morti, come ci ricorda ancora il nostro autore (2, 729-745):
Giunsero lietamente al porto del capo Acherusio,
che si leva con rupi impervie, e guarda
al mare bitinico: sotto vi sono piantati
scogli lisci, battuti dal mare, e tutto attorno
terribilmente risuona l’onda che li avviluppa:
in alto sopra la cima, sono dei platani amplissimi.
Dal capo declina in basso, verso l’interno,
una valle profonda: qui è la grotta dell’Ade,
completamente avvolta da rocce e foreste:
ne spira un soffio gelido, che senza tregua
esala dal profondo angoscioso recesso
e tutt’intorno crea la candida brina,
[...].
Qui è anche il corso del fiume Acheronte,
che attraverso il capo si getta nel Mare Orientale:
una profonda voragine lo inabissa dall’alto. [trad. Paduano]
Superfluo è ricordare come quello della nékyia omerica, dell’approdo di Ulisse nel regno dei morti, sia uno degli episodi centrali dell’Odissea, cui il poema dedica un intero libro. Ma più utile è sottolineare come ci sia una rispondenza tra la descrizione della grotta dell’Ade, spéos Aídao, nel poema di Apollonio Rodio e quella dell’analoga sede dell’Ade nella pagina omerica (10, 504-515) nella quale Circe ammaestra l’eroe sul come pervenirvi. In entrambi i contesti ritroviamo consimili ambientazioni: una rupe che segnala la casa di Ade, una presenza del fiume Acheronte, un fragore di acque, marine o fluviali, infine un bosco, dedicato o meno a Persefone, con platani da una parte e pioppi e salici dall’altra.
Meta finale degli Argonauti, sempre sulle coste del Mar Nero, e ancora più a oriente, è la terra della Colchide, dove essi approdano su un terrazzamento naturale che si innalza sulla pianura che lambisce il litorale pontico. Il sito prende nome da Circe, come annota sempre il cantore della saga argonautica (3, 198-203):
Tosto balzarono giù dalla nave, oltre l’acqua e le canne,
e misero piede a terra sopra un rialzo della pianura.
Il suo nome è Circeo, e qui fioriscono molti
filari di salici e tamarischi, e alla cima di questi
sono appesi cadaveri, legati con delle corde. [trad. Paduano]
Non ci interessa soffermarci qui né sulle usanze funerarie dei Colchi, non ignote alle tradizioni sulle usanze dei barbari, né sulla dimensione del mondo ‘altro’ che si schiude alla percezione degli Argonauti in quella che è la meta del loro viaggio, bensì sulla localizzazione di Circe nell’estremo oriente della quale – l’abbiamo detto – rimane traccia perfino nella nostra redazione dell’Odissea (12, 1-4). «Il suo nome è Circeo», Kírkaion tó ghe dḕ kiklḗsketai, scrive Apollonio Rodio riferendosi alla località dove approdano gli Argonauti; ma egli però – seppure attinga, come riteniamo, a una tradizione arcaica – non ignora che, nella sua età, la reggia de...