Postfazione
Conosco Melanie Joy da tanti anni, siamo amici. Di quelle amicizie basate su un’idea comune di libertà, dunque inviolabili. Insieme abbiamo girato in lungo e in largo per raccontare cosa sia l’animalismo e forse oggi, con qualche difficoltà, l’abbiamo entrambi (quasi) capito. Quanto segue è tuttavia non una spiegazione del suo manifesto, già così limpido e chiaro, né tantomeno un diario personale di una relazione di amicizia, ma un passo avanti da un animalismo a una sorta di vita animale filosofica anche se, ovviamente, vorrei partire dal primo dei due concetti. L’animalismo è un’invenzione recente. Di sicuro anche “lui”, come il volto dell’uomo di Foucault, è una forma su sabbia che verrà portata via dal mare... o almeno questo è il rischio e per Melanie Joy, in un paradosso di cui dirò, forse una possibilità. Anche il termine è nuovo, perlopiù italiano, traduzione debole e maldestra di “antispecismo”: l’idea che gli animali non umani non abbiano, nel senso che non ci sono buone ragioni per, meno diritti degli esseri umani o che se anche siano privi di diritti, in un’ipotesi in cui per averli servano anche i doveri, bisognerebbe comunque lasciarli in pace. Ma questa è la base, l’inizio, il perno della questione: Melanie, la cui forma di vita così attiva nella difesa degli animali è già intimamente filosofica, in poche pagine riesce a tenere insieme tutte le motivazioni per cui l’animalismo è, come voleva Jacques Derrida quando gli venne conferito il premio Adorno per la filosofia nel 2001, la questione del futuro. Con questo manifesto siamo fuori dall’etica, addirittura fuori dalla norma, perché entriamo di diritto nella metafisica dei costumi ma, vorrei dire di più, nell’estetica.
L’animalismo è un sistema rituale che mira all’ennesima utopia: la conversione definitiva a una forma di vita senza alcuna sovranità e gerarchia. In questa conversione c’è il lavoro che l’animalismo impone a ogni suo “seguace”, che è un lavoro su e attraverso di sé: sforzatevi di vedere il mondo in orizzontale e non in verticale, provate a considerare un animale una forma di vita da conoscere (e poi magari anche da evitare) e non il vostro cibo potenziale, imparate a considerare sempre discutibile la norma sociale da cui segue la regola che dovete ossequiare, tentate infine di pensarvi ospiti passeggeri di questo mondo e non proprietari privati di un ambiente che non vi appartiene per definizione. Tutte queste cose insieme è l’animalismo filosofico, così diverso da quello da bar che popola televisioni, giornali, purtroppo e soprattutto politica. Questa politica infame a cui ormai siamo assuefatti. L’alimentazione è solo una conseguenza, la causa è un nuovo sistema di pensiero profondamente diverso dai precedenti; innanzitutto interdisciplinare in un senso non più retorico perché in contatto tra biologia, filosofia, arte e architettura, sociologia e studi di genere. L’animalismo, ripensando il mondo, si costringe all’eclettismo che contraddistingue Melanie Joy: collaboratrice di associazioni, professoressa universitaria, conferenziera giramondo, giornalista, scrittrice eccentrica ma puntuale. E c’è di più: l’animalismo tutela gli animali, certo, ma il suo sistema è davvero più ampio perché riguarda la scommessa sulla strada e le prospettive che la nostra specie dovrà o potrebbe prendere; tutti, davvero, dovrebbero essere animalisti. E a quel punto, come la sabbia sulla battigia, non esserlo più.
La parola cruciale dell’animalismo è “corpo”, quest’entità di cui quasi dovremmo insegnare la storia: liberarsi dal peso della vita specializzata e riscoprire in che senso siamo animale anche noi. Non c’è limite alla portata della rivoluzione che ha in mente l’animalismo: sesso, pudore, vestiario, tutto cambia luce dopo la prospettiva inaugurata dall’animalismo. Quando Jacques Derrida scrive L’animale che dunque sono è esattamente a questo che sta pensando: la scena centrale del libro in cui è nudo di fronte alla sua gatta racconta dell’incontro tra due corpi che si scoprono uniti da una fragilità della vita inattesa; Derrida si vergogna di essere nudo mentre l’animale lo guarda e capisce «pensare, forse, comincia proprio da qui» (Derrida 2006). Inizia da qui il senso di una vergogna inedita, quell’umano che riconosce “al fuori” un punto di vista in grado di interrogarlo e di metterlo in discussione. Melanie Joy è cosciente che il punto non è quanto e come dobbiamo cambiare comportamento nei confronti del vivente in generale ma quanto e come dobbiamo cambiare e basta. L’animalismo, come il percorso che ogni vita deve subire attraversando il tempo, è una mutazione, una speciazione, una terapia, un nuovo e definitivo risveglio dal sonno dogmatico della metafisica occidentale.
È strano perché allo stato dell’arte, in primo luogo, l’animalismo deve combattere una sorta di battaglia contro se stesso: contro la sua prima caratterizzazione, contro la sua deriva giornalistica da “non abbandonate i cani”, e infine più paradossalmente contro gli stessi animalisti che concentrati soltanto sull’impossibilità di livellare il mondo esterno con i loro principi etici si presentano come una categoria arrabbiata, non pensante e tendenzialmente triste senza capire che «ciò che implica tristezza», argomentava Deleuze (1999), «esprime sempre un tiranno». La tirannia animalista è l’arroganza di aver compreso come va il mondo mentre invece, in Joy, il punto è arrivare all’ovvietà dell’incomprensione; l’animalismo, questo vorrei che passasse, è la vita incerta.
Sono sei le parole chiave che a mio avviso articolano la riflessione sull’animalismo proiettandola in una questione essenziale per tutto il contemporaneo: (1) intersezione, (2) capitalismo, (3) rinascita, (4) non-conflittualismo, (5) panteismo e (6) utopia. Queste sei parole sono anche delle stazioni concettuali; la storia, le ragioni, ma soprattutto il futuro dell’animalismo passano da qui.
Melanie Joy rivendica l’urgenza, non l’importanza, di agire attraverso l’animalismo contro i paradossi del carnismo e la sua normalizzazione; urgente è ciò che deve venire prima delle altre cose. Di più: di ogni altra cosa. Questo “prima” non è, come si potrebbe pensare, declinato temporalmente: l’animalismo è nel prima o nel tra delle cose perché tutto comprende dato che l’estensione del suo urto è più grande, più terribile, più numericamente impressionante. L’animalismo è una sorta di umanesimo dilatato: i motivi per cui un corpo è potente e rispettabile a prescindere dal genere che esprime se valgono per Homo Sapiens allora, logica vuole, valgono per ogni altra specie vivente. Ogni corpo, diceva Deleuze nelle sue lezioni su Spinoza, deve essere lasciato libero di esprimersi secondo la sua potenza: l’animale, qualunque o chiunque sia, non va rapportato con noi (parla? pensa? soffre?) ma, al contrario, serve per rapportare noi con il fuori (cosa c’è oltre la parola? il pensiero? la sofferenza?). Certo, storicamente le cose sono più complesse: prima del 1975, anno cruciale per l’animalismo perché si pubblica Liberazione animale di Peter Singer, tante cose erano diverse: non c’era il termine, non c’era un movimento unitario, non c’era che qualcosa che ancora non era “la cosa”. Inizialmente, in effetti, l’animalismo ha avuto il compito di mettere ordine tra il dolore, giustificare scelte non violente nei confronti degli animali, spiegare perché mangiare un animale non è poi così naturale o ragionevole come pensiamo. Ma Melanie Joy, che pure con le sue “tre N” dà il colpo di grazia alla questione, va oltre, molto oltre; l’intersezione, dicevo, prima parola chiave tra quelle che vorrei andassero a completare il manifesto: l’animalismo è la radicalità della vita. L’animale, lo sappiamo, è spesso inteso come un’entità generica che non è né...