Invito a teatro
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Invito a teatro

Manuale minimo dello spettatore

  1. 152 pagine
  2. Italian
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Invito a teatro

Manuale minimo dello spettatore

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Quali sono le nostre aspettative quando andiamo a teatro? Che cosa siamo tenuti a conoscere prima che si alzi il sipario? Come viene trattato il testo di cui lo spettacolo è rappresentazione? Qual è il ruolo degli oggetti, della musica, della danza?

Un libro prezioso per chiunque voglia comprendere le forme e le strutture dello spettacolo teatrale.

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1.
L’orizzonte di attese
dello spettatore

Partiamo da qui. Qual è il patrimonio di conoscenze, di strumenti metodologici, di addestramento alla sensibilità estetica, insomma qual è il tasso di educazione teatrale che la cultura corrente consegna ad uno spettatore non specializzato o non professionale? Purtroppo la scuola, tradizionale veicolo di trasmissione delle conoscenze, a nessun livello impartisce insegnamenti specifici sul teatro, come invece fa, sia pure anche qui in maniera insufficiente, con la letteratura, l’arte, la musica, talvolta anche col cinema. Anche se poi – ed è un paradosso che i legislatori non riescono evidentemente a cogliere – non c’è quasi scuola dalle elementari ai licei che non offra ai suoi studenti laboratori, seminari, corsi di recitazione...
La conseguenza logica di questa situazione è che, fatti salvi alcuni casi fortunati, il modello di teatro che viene trasmesso dalla cultura corrente è molto spesso quello di una tradizione che poco ha a che fare con la teatralità contemporanea. Anche perché, in generale, molto raramente la scuola arriva a fornire nozioni e strumenti per permettere la comprensione dei linguaggi della cultura contemporanea, che sono diversi – e spesso radicalmente diversi – da quelli della tradizione. Gli altri dispositivi, come la televisione, il web e tutti gli altri mezzi di comunicazione, che oggi, ancor più della scuola, contribuiscono a formare la coscienza e la cultura dei cittadini, non contemplano se non episodicamente il teatro tra i propri oggetti di attenzione, proprio perché il teatro ha perso quella centralità sociale e culturale che aveva mantenuto fino ai primi decenni del Novecento. In questa situazione l’«idea di teatro» che circola nella cultura corrente e che dunque è a disposizione dello spettatore non specialista è un’idea fortemente ancorata alla tradizione.
Cosa c’è dentro questa idea? C’è innanzi tutto la concezione che il teatro sia sostanzialmente uno dei luoghi della scrittura, con l’ovvio correlato che lo spettacolo non è e non può che essere una «messa in scena», una «rappresentazione», quasi una «illustrazione» di un testo teatrale che sta a monte e in cui risiede il vero e imprescindibile deposito di senso dell’intera filiera di atti e di creatività che costituiscono il fenomeno teatrale. Un grande scrittore come Luigi Pirandello, a cui pure tanto deve il teatro novecentesco, scrive nel 1908 un saggio che intitola Attori, illustratori e traduttori, in cui assimila la creatività degli attori e dunque degli operatori dello spettacolo ad un’attività secondaria e in certo modo ancillare come quella degli illustratori di libri e dei traduttori. Successivamente Pirandello correggerà, benché solo in parte, la sua concezione del teatro, ma continuerà ad essere convinto che la vera creatività appartenga al drammaturgo, che resta sempre l’unico «autore» del teatro, e che il compito della scena sia quello di disperdere il meno possibile del patrimonio di senso che sta nel testo.
Questa nella sostanza è l’idea che la tradizione ci consegna: la scena teatrale non è il luogo di una creazione autonoma e originale, ma semmai il luogo di una trasposizione in immagini e in azioni concrete di un universo poetico creato altrove, nel testo drammaturgico, da parte di un «autore» che tale rimane anche quando la sua creazione viene portata sulla scena. Non a caso, nel linguaggio corrente è del tutto consueto sentire dire: vado a vedere i Sei personaggi in cerca d’autore o l’Amleto, quando è evidente che l’oggetto con cui lo spettatore entra in contatto è uno spettacolo specifico, che da quei testi trae la materia ma che i vari registi o attori rendono in maniere assolutamente diverse tra di loro. I Sei personaggi o l’Amleto si possono leggere stando comodamente seduti in poltrona, è per vedere uno spettacolo che li mette in scena che è necessario uscire di casa e pagare un biglietto.
Per la riflessione storica e teorica queste puntualizzazioni sono un dibattito di assoluta retroguardia, essendo ormai culturalmente acquisito che il teatro non è uno dei generi della letteratura (in quanti manuali scolastici delle varie letterature c’è ogni tanto un capitolo che riguarda il «teatro», ossia in realtà la letteratura drammaturgica!), ma è in prima istanza soprattutto un evento, che per definirsi nella sua essenza non ha necessariamente bisogno di un testo letterario su cui fondarsi.
Anche storicamente, quando il teatro nasce nella cultura occidentale, ossia nella Grecia antica (ma il discorso vale anche per altre culture non occidentali), è prioritariamente, sia in senso cronologico che in senso logico, un evento, e solo in un momento successivo compare il testo drammaturgico come strumento di pre-determinazione dell’evento. Insomma, all’origine non c’è Eschilo, o prima ancora Tespi, che scrive un testo da rappresentare sulla scena, ma c’è un percorso antropologico che dalla festa rituale, dalle azioni che la comunità allestisce in onore del dio Dioniso, porta alla struttura della tragedia, i cui testi in rari casi sono giunti fino a noi. Ma quei testi si sono conservati perché di tutti gli elementi dell’evento erano gli unici affidati ad uno strumento non effimero come la scrittura. Mentre tutto il resto, dall’azione alla musica alla recitazione degli attori, che pure era parte fondamentale e non eliminabile dell’evento, non possedeva un analogo strumento di codificazione e dunque di trasmissibilità.
Ci sono poi anche altre ragioni, più ideologiche e strettamente legate alla struttura del pensiero occidentale, che determinano questa inversione per la quale siamo indotti a considerare il teatro come un luogo della codificazione letteraria anziché come un evento che si dà e si consegna alla visione nella sua dimensione di atto effimero, oggi diremmo performativo. Ne faremo solo un accenno, perché l’analisi ci porterebbe troppo lontano, ma è evidente che la nostra tradizione, dalla civiltà greca alla cultura cristiana, ha accordato uno speciale privilegio al logos, alla parola, come principale strumento di conoscenza e di relazione tra la cultura e il mondo. Ma il teatro, come il rito, la religione, la festa o il gioco, appartiene alla dimensione dell’evento e dunque a quella della performatività e della visività e non certo a quella della letterarietà. Del resto, anche in termini puramente logici, il teatro può di fatto costituirsi in assenza di un testo da rappresentare, e la storia ce ne restituisce numerosi esempi, dai casi estremi del mimo o della danza alle pratiche di improvvisazione, a tanti spettacoli contemporanei basati molto di più sulle immagini o sui suoni che sulle parole pre-scritte.
Perché, alla fine, a definire la nozione di teatro bastano uno spazio e un tempo definiti e un’azione non quotidiana che in questo spazio e in questo tempo si determini. Al limite non è nemmeno necessaria la presenza degli attori come persone fisiche, perché ad esempio il teatro di burattini, di marionette o di oggetti, che oggi vive una nuova stagione di creatività col nome di teatro di figura, è a pieno titolo teatro. Tutto questo, naturalmente, in termini puramente teorici, perché è evidente che sia nella storia che nella spettacolarità contemporanea gli eventi teatrali si costituiscono quasi sempre con l’apporto di molti altri linguaggi, dal testo letterario appunto alla scenografia, dai costumi alla musica, dalle luci agli oggetti di scena, che devono essere analizzati e compresi nella loro dimensione performativa, come linguaggi specifici della scena.
Ma nell’orizzonte di attese dello spettatore c’è naturalmente anche altro. C’è ad esempio l’idea che il teatro, poiché come si diceva è fatto della stessa materia di cui è fatta la quotidianità, debba essere quasi necessariamente il luogo privilegiato di una rappresentazione mimetica e realistica della vita, quasi una sua «copia». Come se la condivisione della stessa materia dovesse di necessità comportare una medesima modalità di espressione. Anche la letteratura utilizza le stesse parole del nostro vivere quotidiano, ma alla letteratura si riconosce da sempre la facoltà di utilizzare quelle parole in vari modi creativi e non solo per descrivere mimeticamente il mondo. Anche al teatro va dunque riconosciuta questa stessa facoltà, quella di costruire universi «altri» rispetto a quello quotidiano. Altrimenti, preso alla lettera senza la decodificazione dei suoi linguaggi specifici, l’universo teatrale rischia l’equivoco della lettura ingenua e fuorviante, al limite il paradosso di vedere solo tavole di legno e tele dipinte anziché ciò che significano, persone vestite in modo bizzarro anziché personaggi. Come accade alla Nataša di Guerra e pace di Tolstoj (parte V, par. IX), che va a teatro in una condizione psicologica confusa e percepisce solo la materialità della scena e non i suoi significati:
Vedeva soltanto dei cartoni dipinti, e uomini e donne stranamente abbigliati, che si muovevano, parlavano e cantavano immersi in una luce intensa [...]. Il palcoscenico, nel mezzo, era formato da tavole di legno levigate, ai lati sorgevano delle tele dipinte che raffiguravano alberi; sullo sfondo c’era una tela tesa su un tavolato. Al centro della scena erano sedute delle fanciulle in corsetto rosso e gonna bianca.
Il legno di quelle tavole è lo stesso di cui sono fatti i mobili della quotidianità, ma lì, sulla scena, devono significare altro. Da dove viene allora questa idea radicata per la quale il teatro, in termini generali, non possa costituirsi che come «copia» del mondo reale? Questa concezione non è la condizione istituzionale del teatro ma solo il radicamento di una cultura particolare, quella in sostanza del Naturalismo tardo-ottocentesco, che proprio sulla base della similarità materiale fra teatro e vita quotidiana ha costituito una poetica di grande presa che ancora oggi informa la nozione corrente di teatro.
Certo, da sempre il teatro è stato considerato il luogo privilegiato per descrivere e interpretare il mondo. Fin dalle riflessioni di Aristotele, che nella Poetica descrive la tragedia come «imitazione non di uomini ma di azioni e di modo di vita». Ma se pensiamo a quello che ci è noto della tragedia greca (rigida convenzionalità della struttura, linguaggio poetico e spesso cantato, mascheramenti, codificazione della gestualità degli attori e del coro, assenza di scenografie realistiche, attori maschi anche per rappresentare personaggi femminili...) è del tutto evidente che l’«imitazione» di cui parla Aristotele esclude che il teatro possa farsi «copia» della realtà.
Alla fine il teatro costituisce davvero una nuova realtà, che ha naturalmente contatti con quella quotidiana, e tuttavia si offre non come copia ma come riflessione e giudizio su di essa. Questo soprattutto nel momento in cui – e siamo appunto nel Novecento – la funzione di riprodurre fedelmente la realtà è stata assunta da altri strumenti e mezzi di comunicazione, che obbligano il teatro a ritagliarsi spazi diversi di azione, spingendolo verso la riflessione teorica, il lavoro sui linguaggi, il metateatro, insomma sempre più nei territori del non realistico e dell’artificiale.
C’è un perfetto modellino teorico di questa funzione del teatro nei confronti del mondo con cui si rapporta: è inserito nel film La cinese di Jean-Luc Godard (1967), il grande innovatore del linguaggio cinematografico. Uno dei personaggi racconta di una straordinaria «azione teatrale» di un giovane cinese, compiuta davanti a tutta la stampa occidentale opportunamente convocata. Il giovane arriva dunque con un’enorme fasciatura alla testa e assicura di essere stato ferito durante uno scontro con la polizia sovietica. Comincia poi lentamente a sciogliere la fasciatura, bersagliato dai flash dei fotografi, ma quando la testa è completamente scoperta si scopre che è del tutto illesa. Questo è teatro, commenta il personaggio godardiano, ossia una riflessione sulla realtà, come quella di Brecht o Shakespeare. Esemplare, mi pare. Dall’azione qui descritta è eliminato ogni elemento che non sia essenziale: l’azione è semplicissima ma profondamente carica di significato simbolico, non mantiene alcun rapporto mimetico con la realtà dei fatti e anzi il suo rapporto con la realtà si rivelerà falso, bugiardo. Ma questa falsità artificiosa ci dice sulla realtà cose più profonde di quello che ci avrebbe detto un’azione realistica.
Come appare evidente da questa piccola parabola, il teatro, per quanto fatto della stessa materia della vita, è sempre e comunque un fenomeno artificiale, che utilizza i dati di quella materia per combinarli in linguaggi che ubbidiscono a codici diversi. Basterebbe del resto por mente a quali sono le connotazioni dei termini e delle nozioni di provenienza teatrale depositati nel linguaggio comune. «Fare la scena» o «fare del teatro» vuol dire qualificare un’azione o un comportamento come esagerati, artificiosi, al limite falsi. Utilizzare l’epiteto di «attore» o di «commediante» o ancor più di «istrione», al di fuori del contesto specificamente teatrale, significa attribuire a una persona qualifiche di artificialità e insincerità. Una «messa in scena» è una costruzione programmatica di ambienti e situazioni artificiali che mira consapevolmente all’inganno di chi li osserva. Il «retroscena» o il «dietro le quinte» è il luogo oscuro (non illuminato) in cui agiscono personaggi che non si mostrano per precostituire in maniera artificiale ciò che gli spettatori dovranno vedere sulla «scena». E tanti altri esempi si potrebbero portare per dimostrare come il linguaggio corrente individui nell’universo teatrale il luogo dell’artificio, dell’esagerazione insincera del senso e dei sentimenti, al limite dell’inganno.
Questi residui fossili depositati nel linguaggio sembrano derivare da una stagione culturale che viene prima della codificazione naturalista del teatro come copia fedele della realtà, da quell’epoca barocca che era davvero la stagione dell’ostentazione esagerata, dell’artificio programmatico, del teatro come mondo «altro» rispetto alla vita quotidiana. Eppure la straordinaria forza modellizzante della concezione naturalistica, che vuole il teatro copia fedele e realistica della vita, riduce ancora a sé l’idea di teatro corrente, determinando per questo l’orizzonte di attese dello spettatore.
In quest’epoca tardo-ottocentesca si fissano infatti le condizioni che diventeranno canoniche e quasi «naturali», alla fine poco scalfite dalla pur fondamentale stagione trasgressiva delle Avanguardie storiche dei primi decenni del Novecento. È col dramma borghese di fine Ottocento, quello di Ibsen o di Čechov, che si fissa la struttura dello spazio, che definisce una stanza chiusa (solitamente un salotto) come luogo dell’azione, con l’eliminazione di una parete (la cosiddetta «quarta parete») perché gli spettatori possano vedere, quasi spiare da un grande buco della serratura, le vicende di personaggi colti nella loro intimità e che nulla dovrebbero sapere di questa moltitudine di persone che li sta osservando in silenzio.
È in questa stagione che si impone l’obbligo del buio in sala, a partire dalla teoria e dalla pratica di Richard Wagner, che inevitabilmente assegna allo spettatore un ruolo passivo di ricettore. È sempre in questa stagione che si costruiscono scenografie realistiche, non più dipinte ma costituite da arredi veri, e le si riempiono con oggetti veri, finestre che si possono aprire e porte che si possono sbattere in un impeto d’ira, come scrive August Strindberg nell’Introduzione a La signorina Julie (1888). È soprattutto in questa stagione che si pongono le basi teoriche di un tipo di recitazione a cui ancora siamo legati, quello di un attore che «si immedesima» nel personaggio o addirittura, come vuole la poetica del grande regista e teorico russo Konstantin Stanislavskij, che deve vivere realmente, traendole dal proprio vissuto di persona e non dalla propria tecnica di attore, le emozioni e le passioni che presta al suo personaggio. Proprio all’interno di questa poetica si solidifica la concezione, che ancora in gran parte ci appartiene, secondo cui un attore tanto più è bravo quanto più sembra vero, quanto più riesce a presentarci un personaggio il cui comportamento sia il più possibile vicino a quello di una persona reale della vita quotidiana, mentre è dei cattivi attori mostrare che stanno «recitando», ossia che palesano l’artificiosità della propria azione scenica.

2.
L’autonomia artistica della scena
e il teatro di regia

C’è un grande e articolato movimento di pensiero, nel giro di secolo tra Ottocento e Novecento, che rivendica teoricamente e praticamente la sostanziale autonomia dei linguaggi della scena rispetto alla subalternità e alla dipendenza dall’imperialismo del testo letterario. Le modalità di questa contestazione del modello tradizionale sono molteplici e tra loro anche differenti, ma nell’insieme porteranno a un mutamento radicale del panorama teatrale.
Con l’avvertenza che non è che una delle tante, esemplificheremo con l’argomentazione di tipo logico del regista e teorico inglese Edward Gordon Craig che, negli scritti dell’Arte del teatro (1905), in un immaginario dialogo tra un uomo di teatro e uno spettatore, pone la questione in questi termini: se si ammette che il testo letterario è di per sé un’opera d’arte e contemporaneamente si riconosce una valenza artistica anche al teatro, come è possibile che uno stesso oggetto appartenga contemporaneamente ad un’arte e anche a un’altra? Evidentemente, è la conclusione, l’arte del teatro non sta nel testo, opera che appart...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. L’orizzonte di attese dello spettatore
  3. 2. L’autonomia artistica della scena e il teatro di regia
  4. 3. Dal testo allo spettacolo
  5. 4. I linguaggi della scena
  6. 5. I modelli di azione dell’attore
  7. 6. Usciamo dal teatro