Cittadinanze
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Cittadinanze

Appartenenza e diritti nella società dell'immigrazione

  1. 136 pagine
  2. Italian
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Cittadinanze

Appartenenza e diritti nella società dell'immigrazione

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La singolare compresenza di universalismo – di contenuti e garanzie dei diritti soggettivi – e particolarismo, espresso dall'appartenenza a uno specifico gruppo politico, fa della cittadinanza un concetto centrale per la riflessione sulla società contemporanea. In questa prospettiva, le migrazioni internazionali rappresentano un fenomeno straordinariamente fecondo nel contribuire a riconcettualizzare le rappresentazioni consolidate della società, dei suoi attori, delle sue leggi.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858114575
Categoria
Sociologia

1. Cittadino si nasce o si diventa?

Come cambia la disciplina sulla cittadinanza tra diritto di suolo e diritto di sangue
Secondo la soluzione tradizionale, esito del processo storico di costruzione dello Stato-nazione, la membership alla comunità politica si basa sulla cittadinanza e lo status del cittadino è nettamente differenziato da quello dello straniero. In questo modello, i cittadini sono i membri della nazione e costituiscono il corpo insignito dell’esercizio del potere statuale e per conto dei quali lo Stato agisce: un governo dei cittadini, esercitato dai cittadini e per i cittadini. L’esclusione degli stranieri è vista come la necessaria conseguenza di tale processo di autodefinizione nella forma di una comunità in cui i governanti coincidono coi governati: gli stranieri sono «ospiti» presenti alle condizioni stabilite da un governo retto dai cittadini e, in linea di principio, possono essere espulsi ogniqualvolta siano percepiti come indesiderati (per esempio perché autori di un reato o di un illecito, o anche solo perché non più percepiti come funzionali ai fabbisogni dell’economia).
A ribadire lo status differenziato degli stranieri rispetto ai cittadini, in molte congiunture storiche e nazionali, l’uguaglianza di diritti tra questi ultimi – i cittadini appunto – si trova ad essere garantita dalla legge e inscritta nel principio di un’universale eredità naturale, laddove il trattamento degli stranieri e i loro diritti sono dipendenti da accordi bilaterali sottoscritti coi paesi d’origine o «concessi» dal governo: diritti dunque definiti non dalla legge ma dall’amministrazione1. E perfino quando sono in gioco diritti fondamentali, che la cultura giuridica contemporanea tende a considerare «inalienabili», il trattamento può risultare modulato in funzione dell’appartenenza nazionale: un caso eclatante riguarda la cosiddetta doppia pena, ossia quell’istituto giuridico che consente di associare alle condanne penali degli individui di nazionalità straniera delle misure di espulsione o d’interdizione dal territorio della nazione, indipendentemente dai legami biografici o familiari che essi possono avere costruito nel frattempo2.
In termini teorici, inoltre, tale modello potrebbe arrivare a prevedere l’esclusione degli stranieri dai benefici sociali, dal pubblico impiego e da una serie di opportunità che i cittadini desiderano siano riservate unicamente a loro: una soluzione che parrebbe la più adeguata a soddisfare le aspettative della popolazione autoctona, com’è attestato da una serie di norme o proposte di legge che, nei vari paesi, mirano a escludere gli stranieri dalla possibilità d’accedere alla proprietà immobiliare, ad alcuni tipi di impiego, all’acquisto di armi, all’esercizio dell’attività imprenditoriale e via dicendo; oppure ancora a riservare loro le opportunità che non interessano i cittadini (per esempio, concessione di alloggi pubblici solo dopo che siano state soddisfatte tutte le richieste).
Tuttavia, si tratta di una soluzione che, oltre che moralmente discutibile, può rivelarsi molto costosa per la coesione sociale, specie quando il numero di coloro che risiedono in uno Stato e contribuiscono al suo benessere con il proprio lavoro, ma sono al contempo sprovvisti dei diritti di cittadinanza, diventa eccessivamente elevato, e specie quando l’esclusione si estende anche ai discendenti dalle famiglie immigrate. Ciò dà ragione di come, almeno nei paesi con un regime democratico (discrimine che merita di essere tenuto ben presente, giacché alquanto diversa è la situazione negli Stati autoritari), spesso si realizza un’estensione di taluni diritti anche agli stranieri, fino a concedere loro lo status di denizen che, come vedremo, prevede una sostanziale equiparazione ai cittadini nell’accesso ai diritti civili e sociali (cfr. infra, cap. 2).
In ogni caso, in questa prospettiva, un’importanza fondamentale assumono le modalità fissate per l’ottenimento della cittadinanza formale alla nascita e le procedure per la naturalizzazione3, oggetto in questi anni di una vasta operazione di ripensamento proprio sulla scorta dei problemi e delle tensioni che l’immigrazione ha fatto emergere.
Riguardo al primo aspetto, vi sono due principali soluzioni legislative, anche se spesso – e sempre di più – gli ordinamenti prevedono, come vedremo, una loro combinazione. La prima si basa sull’applicazione del principio dello jus soli, secondo il quale la cittadinanza si acquista nascendo sul territorio in cui lo Stato esercita il proprio potere sovrano. L’acquisizione può essere immediatamente conseguente alla nascita, anche da genitori stranieri (come previsto ad esempio in Canada e negli Stati Uniti, perfino nel caso in cui gli stranieri siano irregolarmente presenti4), oppure avvenire per opzione al raggiungimento della maggiore età (come in Francia). Tipico della tradizione francese – ma più recentemente adottato anche da altri paesi tra cui Olanda, Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Germania – è poi il principio del «doppio jus soli», che prevede l’acquisto della cittadinanza alla nascita per il bambino che vede la luce sul territorio dello Stato da genitore straniero ma nato anch’esso nel medesimo paese: un principio dunque finalizzato a impedire che la condizione di «estraneità» si tramandi lungo le generazioni, finendo col riguardare anche coloro che non hanno alcun significativo legame col paese dal quale arrivarono i loro antenati.
La seconda soluzione si basa sull’applicazione del principio dello jus sanguinis, secondo il quale la cittadinanza è trasmessa intergenerazionalmente, cioè si acquista nascendo da genitori che a loro volta la possiedono, spesso indipendentemente dal fatto che essi risiedano nello Stato. L’applicazione dei principi dello jus soli e dello jus sanguinis è quasi sempre automatica: in altri termini, i nascituri non «scelgono» la propria cittadinanza, né lo possono fare in loro vece i genitori. Solo in talune circostanze – nel caso ad esempio dei figli di immigrati stranieri nati nel paese d’immigrazione – la legge può prevedere che gli interessati, raggiunta una certa età, optino per mantenere la nazionalità dei genitori, oppure per acquistare quella del paese in cui sono cresciuti.
In genere le legislazioni comprendono sia elementi di jus soli sia di jus sanguinis, la possibilità di richiedere la naturalizzazione, oltre a norme particolari con riguardo alle seconde e terze generazioni5. Per esempio, i bambini che vedono la luce sul suolo canadese, ne acquistano immediatamente la cittadinanza (salvo nel caso in cui siano figli di diplomatici stranieri); tuttavia, coloro che nascono in territorio straniero, ma da genitori canadesi, sono anch’essi canadesi (cittadinanza che però può essere persa nel caso in cui gli stessi genitori l’avevano acquistata in questo modo, e il giovane non faccia nulla per ristabilire una relazione col Canada). Simile la legge statunitense, che prevede che i genitori trasmettano la cittadinanza americana ai loro figli anche se questi ultimi nascono in terra straniera, impedendo però che essi la trasmettano a propria volta ai loro discendenti (se non prima di aver stabilito la loro residenza negli Stati Uniti). Canada, Stati Uniti e Australia, pur vedendo prevalere il diritto di suolo, contemplano dunque elementi di jus sanguinis, temperati però da correttivi che impediscono la trasmissione a tempo indefinito della cittadinanza allorquando la famiglia abbia perduto una connessione significativa con la società.
Diverso il caso della naturalizzazione che è invece una procedura che consente di ottenere intenzionalmente la cittadinanza di un certo Stato, quando si possiedono taluni requisiti (i più frequenti sono una determinata anzianità di presenza, la conoscenza della lingua del paese e della sua cultura, non avere avuto problemi con la giustizia; a volte è anche richiesto di prestare un giuramento di fedeltà alla nazione e di rinunciare alla cittadinanza già posseduta). La naturalizzazione rappresenta la principale modalità di acquisizione della nazionalità basata sulla volontarietà sia da parte di chi la richiede – per ragioni che possono essere strettamente strumentali o, all’opposto, profondamente patriottiche – sia da parte dello Stato che la concede che, definendo i requisiti necessari, esprime le proprie attese sui caratteri dei nuovi cittadini e sulla composizione futura della popolazione. Per esempio, nel passato varie legislazioni hanno riservato questa possibilità alle persone di pelle bianca e negli Stati Uniti – la principale nazione d’immigrazione al mondo – le ultime restrizioni ispirate a criteri razziali sono state abolite solo nel 1952.
In termini generali, il numero di naturalizzazioni dipende sia dall’anzianità delle comunità immigrate, sia dai requisiti previsti dalla legge. Nel recente passato, parecchi paesi hanno però modificato la propria legislazione in questa materia, introducendo procedure meno restrittive che hanno portato alla crescita delle naturalizzazioni (OCDE 2003) e, come vedremo, anche del numero di titolari di doppia cittadinanza, grazie all’abolizione della richiesta di rinunciare alla cittadinanza d’origine.
La soluzione in cui è la cittadinanza a costituire il fondamento della membership deve dunque misurarsi con la varietà dei criteri che ne regolano l’acquisizione da parte degli immigrati e dei loro figli, lungo un continuum che va da una concezione etnica, rigidamente ancorata allo jus sanguinis, a una elettiva della cittadinanza stessa. Storicamente, tale questione si è posta in modo diverso nei «vecchi» paesi d’immigrazione – Stati Uniti, Canada e Australia – rispetto ai paesi europei che solo nel corso del XX secolo hanno conosciuto la loro transizione da aree d’emigrazione ad aree d’immigrazione (cfr. I. Bloemraad 2000).
Nel primo gruppo di paesi, a prevalere è una concezione «collettivistica», che enfatizza il ruolo della cittadinanza nel promuovere la coesione sociale e preservare le tradizioni comuni; essa è un mezzo attraverso il quale le società «rigenerano» se stesse mediante l’inclusione di nuovi membri6, grazie alle nascite e alle migrazioni, mantenendo al contempo dei legami col proprio passato. Ciò spiega perché l’attenzione degli studiosi si sia spesso focalizzata sulle considerazioni che inducono i migranti a richiedere la naturalizzazione o, alternativamente, a mantenere la propria cittadinanza7. Nei riguardi delle generazioni successive alla prima, l’automatica applicazione del diritto di suolo rende i figli dei migranti membri a pieno titolo della società, con un impatto positivo, si ritiene, rispetto allo sviluppo del senso d’appartenenza e all’integrazione. I sostenitori di tale approccio rilevano anche come esso minimizzi gli spazi di discrezione che viceversa entrano in gioco ogniqualvolta la cittadinanza non sia acquisita in modo automatico. I limiti riguardano semmai il fatto che, in questo modo, si penalizzano i bambini giunti in tenera età, che finiscono con l’essere assimilati ai membri della prima generazione e, all’opposto, si attribuisce la cittadinanza a coloro che nascono accidentalmente sul suolo della nazione, o comunque appartengono a famiglie che non hanno maturato l’intenzione di insediarsi in maniera definitiva. Gli automatismi tendono dunque a «svalutare» la cittadinanza (P. Schuck, R. Smith 1985) e rischiano di creare delle incongruenze con i progetti migratori individuali e familiari. E, d’altro canto, il dibattito di questi anni rende palese come la questione della cittadinanza non attiene alla sola sfera dell’identità collettiva della nazione, ma chiama in causa il tema degli interessi e del conflitto di interessi (Ch. Joppke 2000).
Diverso il caso per i paesi europei che, con poche eccezioni, hanno alle spalle una storia d’emigrazione e una memoria collettiva fortemente segnata da tale esperienza: di qui l’esigenza di mantenere un legame coi propri connazionali all’estero, attraverso normative che, tradizionalmente, erano ispirate al principio di discendenza. Nella storia dei paesi europei, inoltre, il governo della loro eterogeneità religiosa, linguistica ed etnica ha richiesto lunghe vicissitudini e ripetuti spargimenti di sangue, circostanza che fa dell’immigrazione un fattore che rimette in discussione l’equilibrio raggiunto e che rende ricorrente la tentazione di considerare gli immigrati come «lavoratori ospiti», solo temporaneamente presenti, e come tali non destinati a diventare cittadini.
La cittadinanza è quindi complessivamente più difficile da ottenere per gli immigrati, e l’attenzione degli studiosi si è spesso rivolta alla varietà delle normative nazionali, che a loro volta riflettono la diversità dei criteri, storicamente radicati, con cui è definita la membership alla nazione8. Un tipico esempio d’approccio «europeo» è lo studio – peraltro oggetto di non poche valutazioni critiche – di William Rogers Brubaker (1989) in cui sono messe a confronto le esperienze di Francia e Germania9. In quest’ultimo caso, la concezione etnica della nazione (radicata in una storia che ha visto diffondersi l’ideale della nazione prima che quest’ultima divenisse uno Stato) avrebbe prodotto un regime decisamente restrittivo e ispirato al diritto di sangue; la Francia, al contrario, in linea con la tradizione centralistica e rivoluzionaria, ha sviluppato una concezione assimilazionista, cui corrisponderebbe una legislazione sulla cittadinanza improntata al diritto di suolo10. Questi due stessi paesi hanno però registrato, negli ultimi tempi, una progressiva convergenza nelle loro legislazioni. Anche in questa materia – così com’è più in generale avvenuto per il complesso delle politiche migratorie – si è del resto verificato un tendenziale avvicinamento nelle legislazioni nazionali (P. Weil 2001), con l’introduzione d’innovazioni finalizzate a temperare la rigida applicazione dello jus sanguinis e ad ampliare l’applicazione dello jus soli e dello jus domicilii: un’evoluzione in qualche modo imposta dallo stanziamento delle comunità immigrate in contesti politico-giuridici ispirati ai valori della democrazia, e dalla crescita delle seconde e terze generazioni nate dall’immigrazione.
Il caso più clamoroso è quello della Germania che, a fronte del deficit d’integrazione sperimentato dai discendenti delle famiglie immigrate nel passato, cresciuti nel paese ma privati dello status di cittadino da una legislazione rigidamente improntata al diritto di sangue, ha introdotto alcuni elementi di jus soli: in virtù della legge sulla ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Denaturalizzare la cittadinanza
  2. 1. Cittadino si nasce o si diventa?
  3. 2. «Semi-cittadini»
  4. 3. Cittadini di più patrie
  5. 4. Verso una cittadinanza post-nazionale
  6. 5. Cittadini di paesi terzi o cittadini di «terza classe»?
  7. Conclusioni. Le nuove «frontiere» della cittadinanza
  8. Riferimenti bibliografici