1.
Giona, o la fragilità
dell’esistenza
Difficile essere latitanti, quando si è ricercati da Dio.
Erri De Luca, Una nuvola come tappeto
Il problema è che la Bibbia, nel corso della sua parabola bimillenaria, è stata letta in tante differenti modalità e su almeno altrettanti diversi registri. Utilizzata non di rado per giustificare quanto di peggio risiede nell’animo umano (egoismi, violenze, razzismi), vi si è ricorso altrettante volte per rafforzare ciò che di meglio è riuscito alle genti nel corso della loro storia: un dato che non può che far riflettere.
Del resto, la pluralità delle interpretazioni del testo biblico, se di fatto manifesta una delle caratteristiche fondamentali dell’intelligenza ebraica e una delle eredità più preziose del rabbinismo, è stata storicamente colta come indizio dell’inesauribile ricchezza del parlare divino, per cui ogni parola della Scrittura potrebbe a buon diritto essere intesa secondo le differenti potenzialità umane. Già il Talmud, libro cruciale nella tradizione ebraica, lo sostiene apertamente, in un passaggio chiave: «È stato insegnato nella scuola di rabbi Jishmael: Non è forse la mia parola come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia? (Ger 23,29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza si divideva in settanta lingue».
A dispetto dei ripetuti tentativi di canalizzare il senso della Bibbia in un’unica direzione, anche il cristianesimo, di fatto, si è mosso nella stessa linea. Basterebbe ricordare le considerazioni del padre della Chiesa Agostino di Ippona (detto fra parentesi, un africano doc alle origini del mainstream teologico cristiano) nella sua Dottrina cristiana, secondo cui «dalle stesse parole della Scrittura si ricavano più sensi», mentre «le medesime parole vengono intese in più modi». Qualche decennio dopo Gregorio Magno, insigne teologo oltre che papa, nelle Omelie su Ezechiele adotterà come motto la sentenza per cui «Scriptura crescit cum legente», la Scrittura cresce con ogni uomo che si pone di fronte a essa cimentandosi a leggerla; mentre Giovanni Duns Scoto, secoli più tardi, argomenterà intorno al fatto che «Sacrae Scripturae interpretatio infinita est». Peraltro, è interessante notare come nel canone biblico la molteplicità dei percorsi di senso sia intenzionale, programmatica (si pensi, ad esempio, alla replica delle narrazioni di episodi paralleli fra i Libri di Samuele, dei Re e delle Cronache, o al quadruplice racconto evangelico): essa non va quindi intesa solo come risultato di una lettura particolare o di apporti soggettivi dei vari lettori o movimenti, ma piuttosto come valore da realizzare che il testo stesso si prefigge.
Nella modernità, tale pluralità di sensi si è indirizzata, inevitabilmente, a una molteplicità di metodi di lettura: lo ammette, cogliendolo come un fenomeno senz’altro positivo, anche il documento della Pontificia Commissione Biblica del 1993 dal titolo L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Si tratta di un dato fondamentale, e di regola piuttosto sottaciuto.
Fatta questa premessa, ecco il primo passo del nostro itinerario, che vedrà protagonista un profeta decisamente sui generis, Giona, con la sua storia così attraente nella sua semplicità, ingenuità e persino drammaticità. Sui generis anche per il fatto che il titolo del libro non si riferisce al nome dell’autore, come solitamente capita negli altri libri profetici, ma a quella del pittoresco personaggio che viene messo in scena.
I profeti biblici
Ma cos’è un profeta? Il termine deriva dal greco prophètes, composto dal prefisso pro- (davanti a, al posto di) e dal verbo phe- (dire, parlare). In ebraico, la parola corrispondente è navì, neviim al plurale. Etimologicamente, dunque, il profeta è colui che parla davanti a qualcuno, chi annuncia qualche messaggio pubblicamente, e anche il portavoce di una personalità autorevole. A dispetto di un’idea abbastanza comune e problematica da estirpare, egli non è una sorta di mago capace di predire il domani, un indovino dei destini futuri di qualcuno, ma piuttosto un annunciatore, un interprete, un araldo di qualcun altro. Così, il profeta biblico è un interprete della parola e della volontà di Dio nel quadro dell’oggi del popolo d’Israele. Da libri come Isaia, Geremia, Ezechiele, fra gli altri, emerge una vera e propria fenomenologia del profeta: strumento comunicativo di Dio al popolo, da una parte, ma altresì mediatore e sentinella che sta sulla breccia, in un mirabile scambio di ruoli in cui Dio si fa dire dal profeta quanto il suo cuore desidera, l’invito a usare misericordia nei confronti di Israele.
Il fenomeno profetico, però, travalicherà senz’altro – come ci testimonia la stessa Scrittura – i confini d’Israele. Ad esempio, già il libro dei Numeri (capp. 22-24), all’interno del Pentateuco, ci presenta l’avventura bizzarra di un certo Balaam, veggente straniero, forse originario della Mesopotamia, chiamato dal re di Moab per maledire Israele (ma il finale della vicenda è sorprendente!).
Sul piano storico, la profezia ha accompagnato in particolare la fase monarchica di Israele (secc. X-VI a.C.), ma anche Abramo e lo stesso Mosè vengono definiti talvolta dei neviim. È con Samuele (X sec. a.C.) che troviamo le tracce più sicure degli inizi del profetismo ebraico: convocato da Dio, legato all’ambiente cultuale ma anche consigliere del re, vicino alla corte più che al popolo. Mentre con Elia ed Eliseo, suo discepolo, si compie un deciso allontanamento del profeta dall’ambiente regale per avvicinarsi sempre più al popolo e ai suoi drammi quotidiani. Con l’VIII secolo a.C. emerge quindi un fenomeno inedito: quello dei profeti di cui conosciamo materiale scritto, soprattutto raccolte di oracoli. In tal modo l’interesse della Bibbia passa dalla figura e dalla personalità del navì al suo messaggio: in primo piano dunque troviamo la parola di Dio, di cui egli non è che un servo obbediente e fedele (con un’eccezione che vedremo subito, perché riguarda proprio Giona).
L’uomo del pesce...
Libro davvero curioso, quello a lui intitolato (Yonah, in ebraico, significa colomba, immagine simbolica, nella Bibbia, per indicare il popolo d’Israele), probabilmente uno dei personaggi più famosi dell’intera Scrittura. A cominciare dalla sua collocazione nel canone ebraico e cristiano: fa parte infatti della collezione dei Neviim/Profeti, quinto fra i cosiddetti dodici profeti minori del Primo Testamento, e il protagonista è senz’altro un profeta, sia pure a modo suo; e tuttavia, il suo contenuto è largamente tributario al genere sapienziale, e il messaggio che trasmette è certo più sapienziale che profetico.
A dispetto del fatto che il tema del pesce che, inopinatamente, l’inghiotte sia riportato in tre versetti soltanto, nel secondo capitolo, agli occhi del vasto pubblico che ha orecchiato qualcosa della Scrittura Giona è noto, immancabilmente, come l’uomo del pesce, una sorta di antenato illustre del burattino collodiano, il sommo Pinocchio. Quattro capitoli in tutto, per appena quarantotto versetti (è il testo più breve del Primo Testamento, dopo quello attribuito al profeta Abdia, completamente in prosa a eccezione del Salmo della preghiera in 2,2-10): è difficile persino parlare di libro, e forse sarebbe più corretto riferirvisi come a un racconto. Una finzione letteraria e didattica – in ebraico, un midrash, dal verbo darash che significa cercare, ma anche studiare, sollecitare, investigare – in cui, fra l’altro, non compaiono profezie sul modello di quelle presenti negli altri libri profetici, mentre viene assai accentuato l’elemento del meraviglioso e dello straordinario; nonché il registro dell’ironia, nei confronti di un profetismo e di una corrente ebraica ostile all’apertura alle nazioni pagane (l’ironia è insita nel nome stesso del protagonista, che – più che una colomba – appare un falco, risolutamente refrattario all’ipotesi della conversione del nemico). Eppure, tra i suoi commentatori ce ne sono alcuni che partono proprio da qui per offrire una riflessione fondamentale sull’intero ebraismo: la difficoltà di essere ebreo, titola ad esempio Pietro Lombardini alcune pagine illuminanti al riguardo.
Strambo profeta, dunque, Giona: «nella Scrittura non c’è nessuno che gli assomigli. Nessuno ebbe i suoi problemi, o le sue idee per risolverli». Goffo, svogliato e tutt’altro che baciato dalla fortuna, esemplare antieroe con la predilezione per il fallimento e la tragedia, e come rapito da una ricorrente pulsione di morte. E poi, rincarando la dose, uomo trascinato suo malgrado, malinconico e «triste». Ma «triste nell’anima», nel senso indicato da Borgna, che richiama a un’esperienza di vita conosciuta fino in fondo solo da chi la provi negli abissi della propria anima, e tale da rendere la persona, come appunto capita a Giona, cagionevole, indifesa e incline a nascondersi. Allo stare lontano dagli uomini. A quel silenzio che per lui è essenziale, dato che favorisce l’insorgere di un’atmosfera spirituale che gli consente di respirare, lo allevia e lo rassicura. Perché «quando la tristezza, invisibile agli occhi che non siano bagnati di lacrime, vive nella nostra anima, ogni nostra sicurezza viene meno; e inutilmente andiamo alla ricerca degli abituali punti di riferimento, che si frantumano».
Per dotare di verosimiglianza storica la leggenda profetica di Giona, l’autore biblico sceglie di ambientarla nell’VIII secolo a.C. (il tempo classico della grande profezia d’Israele), stando alle indicazioni di 2 Re 14,25, che situerebbe Giona a Gat-Chefer, in Galilea (Gio 1,1). Nel giudaismo più tardo si cercherà di spiegare che, dopo la loro conversione a fronte della predicazione (forzata) di Giona, i niniviti sarebbero tornati a peccare, e il profeta Naum non potrà che annunciare la definitiva distruzione della città. In realtà, per ragioni lessicali e sintattiche, la composizione del testo è collocabile in epoca persiana, o addirittura ellenistica. Una curiosità: Giona è l’unico fra i profeti cui è intitolato un testo della Bibbia espressamente citato nel Corano, dove è chiamato Yunus ma anche Dhû’n-Nun, Quello del pesce (sura 68,48): mentre la decima sura riporta il suo nome come titolo, la numero 37 (Sura degli angeli a schiera), nel descrivere le prove imposte da Dio ai suoi inviati, riporta anche la vicenda della balena («...e lo ingoiò il Pesce, perché biasimevole egli era. – E se non fosse stato che egli cantava le lodi del Signore – sarebbe rimasto nel ventre del Pesce fino al dì quando saranno risuscitati a vita gli uomini», vv. 142-144).
Un racconto in quattro quadri
Nelle tre versioni del cosiddetto monoteismo – l’ebraica, la cristiana e la musulmana – Giona viene presentato come un profeta con il broncio, stanco e sfiduciato, e pertanto riluttante nei confronti delle indicazioni fornitegli da Dio. E infatti lo scorgiamo da subito in fuga da una sua precisa missione: invitato dall’Altissimo a recarsi a predicare la necessità del cambiamento, della teshuvà, agli abitanti della vasta metropoli di Ninive, «città di sangue», la cui malizia è giunta fino al cielo (Gio 1,2) e che è fra i nemici per antonomasia nella storia d’Israele (cfr. Na 2,12-13), Giona fa esattamente il contrario. Si badi: stiamo p...