1° ottobre 1951
Salvatore Carnevale e l’occupazione delle terre
La morte, per il bracciante Salvatore Turiddu Carnevale, arrivò da lontano. Eppure gli fu sempre vicina. Era un capopopolo, nato a Galati Mamertino, un paesino di meno di tremila abitanti infisso nel cuore di un antico feudo, tra una chiesa e un castello, dove tutto da secoli era immobile. Dapprima la morte lo sfiorò sotto forma di imbonimenti: se la smetti, ti facciamo ricco. Poi di minacce: così camperai poco. Infine lo toccò in forma di sogno, quello della madre Francesca Serio, che all’alba del 16 maggio del 1955, prima che lui si recasse al lavoro nella cava di pietra, gli disse: «Turiddu, vedi che un brutto incubo ho fatto, tieni gli occhi aperti». Lui le sorrise, la baciò e replicò: «Mamma, queste superstizioni sono».
Subito dopo, la morte lo prese veramente. A colpi di lupara, sfigurandone il volto. Aveva 31 anni. Ma la «sentenza» si era messa in cammino, inesorabile, il 1° ottobre 1951. Quello fu il giorno decisivo. Carnevale aveva guidato l’occupazione simbolica delle terre della principessa Notarbartolo. Una protesta allegra e clamorosa che, grazie a lui, si sarebbe allargata a macchia d’olio in tutta la Sicilia. Era stato arrestato, per quell’atto. Ma lui non si era arreso. Come per la faccenda della raccolta delle olive, che – diceva – andavano divise 60 ai lavoranti e 40 alla principessa feudataria, non tutte a lei. Fu ucciso in mezzo al grano.
Per il suo omicidio vennero arrestati quattro mafiosi alle dipendenze della principessa. La madre li accusò: non si era spaventata. Furono condannati in primo grado, poi assolti in appello e Cassazione. A difenderli, c’era nientemeno che il futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone. Oggi di lui resta una poesia di Ignazio Buttitta e il capolavoro di Carlo Levi, il cui titolo – Le parole sono pietre – è tratto dalla sua caparbietà e dal coraggio di una madre.
7 agosto 1952
Guerre di mafia a bassa intensità
Il sacrificio di Salvatore Carnevale sembrò replicare quello del segretario della Camera del lavoro di Sciacca, Accursio Miraglia, caduto anche lui per mano mafiosa nel ’47. Allora l’indignazione fu grande. Si disse che un fatto del genere in Sicilia non sarebbe dovuto accadere mai più. Pie illusioni. Dal giugno del 1945 al 1966, le cifre ufficiali dicono che furono uccisi nell’isola 44 sindacalisti, con la cadenza di un omicidio ogni due mesi fino all’ottobre del ’46.
Sono cifre ampiamente al ribasso, ammettono gli storici. Bene, ma allora quante sono state veramente le guerre di mafia in Sicilia? E quanti gli omicidi politici? Il senso comune definisce guerre di mafia quella del 1962 (la prima) e l’altra scoppiata nel 1981 (la seconda). E chiama omicidi politici quelli del presidente della Regione Piersanti Mattarella, del segretario del Pci siciliano Pio La Torre, del prefetto di Palermo generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. E poi? La guerra contro contadini e braccianti come possiamo definirla? L’omicidio del segretario della Camera del lavoro di Caccamo, Filippo Intili, avvenuto il 7 agosto del 1952, come chiamarlo se non omicidio politico?
Quella volta non usarono lupare o kalashnikov, nelle campagne nei dintorni di Caccamo. Utilizzarono un’accetta, perché lo scempio fosse grande. Fecero in pezzi un uomo di 51 anni, un contadino, sposato, con tre figli, militante del Partito comunista, macchiatosi di una colpa: si batteva perché venisse applicato il decreto del governo che imponeva il nuovo regime per la mezzadria dei campi. Era la stessa battaglia di Salvatore Carnevale: 60% del prodotto al contadino, 40 al feudatario. La mafia voleva invece il 50 e 50. Pena la morte.
Gli assassini di Filippo furono arrestati e, secondo copione, poi assolti. Lui, ancora oggi, non è considerato dallo Stato una vittima di mafia.
19 luglio 1954
Il Pistarolo intervista il Gattopardo
A volte gli incontri casuali deragliano in destini incrociati. Al premio nazionale di poesia di San Pellegrino Terme di metà anni ’50 un ancora sconosciuto Giuseppe Tomasi di Lampedusa accompagnò dalla Sicilia il cugino Lucio Piccolo, con tanto di servitore in livrea, a ritirare il premio consegnatogli da Eugenio Montale. In quell’occasione un cronista lombardo alle prime armi, Marco Nozza, avvicinò la singolare compagnia e si intrattenne in chiacchiere con il futuro scrittore.
Come poi sia andata è cosa nota: rientrato dal convegno, Tomasi si mise a sgobbare sul manoscritto del Gattopardo, se lo vide respingere, morì senza poter godere della successiva pubblicazione e del successo. Nel frattempo, Nozza si accorse di avere in tasca l’unica intervista mai rilasciata dall’autore del momento e la pubblicò su «L’Eco di Bergamo». Fu uno scoop.
Fin qui i fatti. Ma il futuro avrebbe riservato loro ben altre responsabilità. La figura di Tomasi di Lampedusa, autore del libro italiano del dopoguerra più venduto nel mondo, dovette caricarsi presto il peso storico di aver definito la natura del siciliano, la sua (vera o presunta) irredimibilità e, secondo il magistero di Leonardo Sciascia, anche l’imminente «futuro insulare» dell’Italia (la palma che sale al Nord) nella figura letteraria che meglio rappresenta l’ascesa della nuova mafia: il personaggio di Calogero Sedara, iena e sciacallo succeduto ai gattopardi, destinato a diventare la nuova classe dirigente mafioso-borghese che divorerà la cosa pubblica.
Marco Nozza, per parte sua, diventerà il re dei cronisti pistaroli: quella banda di giornalisti un po’ donchisciotteschi e dalla schiena dritta che, dalla strage di piazza Fontana in poi, scorrazzerà per i tribunali di tutta Italia, sempre a occuparsi di strategia della tensione, omicidi politici, depistaggi, insabbiamenti. Fino al processo di Palermo a Giulio Andreotti per mafia, che Nozza seguirà prima di morire. Sempre trovando, anche tra quelle carte, l’impronta dei Sedara.
30 novembre 1954
Il mistero dell’uomo in frac
Si chiamava Raimondo Lanza di Trabia, discendente ribelle di nobile casata. Fa vezzo ricordarlo come l’ultimo Gattopardo. Domenico Modugno gli dedicò la canzone L’uomo in frac, facendone un’icona. Amico degli Agnelli, di Onassis, dello scià di Persia, sposò l’attrice Olga Villi e frequentò Hollywood. All’Hotel Gallia di Milano inventò il mercato dei calciatori. Il 30 novembre del ’54 volò da una finestra dell’Hotel Eden di Roma. Al suo funerale c’erano aristocratici (Marzotto, Ciano Mussolini, Borghese, Ruspoli), industriali (Gianni e Susanna Agnelli), comunisti (Antonello Trombadori), scrittori (Curzio Malaparte). Suicidio, si disse.
Oggi i parenti, dopo lunghe indagini, rettificano: di omicidio si trattò. Omicidio di mafia. Raimondo nel 1937 era stato in Spagna, durante la guerra civile, facendo il doppio gioco tra le formazioni partigiane e i reparti franchisti. Poi, a «Roma città aperta», aveva mediato tra occupanti tedeschi, Vaticano e partigiani. Sapeva conciliare mondi lontanissimi: nelle trattative per l’armistizio dell’8 settembre sono presenti a fianco degli Alleati il fratello di Raimondo, Galvano, e l’amico Vito Guarrasi, inviati dallo stesso Raimondo. A che titolo?
Guarrasi, cugino di Enrico Cuccia, il gran patron di Mediobanca, salotto buono del capitalismo tricolore, verrà poi coinvolto nelle indagini sul rapimento del giornalista del quotidiano «L’Ora» Mauro De Mauro e nel finto sequestro del bancarottiere Michele Sindona in Sicilia.
Poco prima di morire, Raimondo fu costretto a cedere i suoi feudi ai capimafia don Calò Vizzini e Genco Russo. Lanza era intenzionato a vendere anche una miniera di zolfo. Il fratello Galvano si opponeva. Dopo la morte di Raimondo, la ristrutturazione della miniera costò miliardi. Di pubblico denaro. Divenne infatti il punto forte dell’Ente minerario siciliano, un carrozzone che faceva da collettore di tangenti. Presidente dell’azienda che gestiva la miniera era Vito Guarrasi.
26 novembre 1956
La nascita di Gladio
Il 18 ottobre 1990 l’Italia apprende dell’esistenza di un esercito armato clandestino, che agiva sul suo territorio da quasi quarant’anni. La notizia si diffonde per mano del presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Il Divo invia alla Commissione parlamentare sulle stragi una relazione titolata Il cosiddetto Sid Parallelo - Operazione Gladio. Le reti clandestine a livello internazionale. Vi si apprende che nel novembre del ’56 un accordo tra il servizio segreto militare italiano (Sifar) e la Cia aveva dato vita a una rete militare segreta in grado di fronteggiare una invasione straniera. Tale struttura, diffusa in tutti i Paesi alleati, aveva preso il nome di Stay Behind (stare indietro, agire dietro le spalle). Qui da noi era stata battezzata Gladio. Questo esercito aveva compiti di raccolta di informazioni, sabotaggio, propaganda e guerriglia.
La rivelazione scatenò l’inferno. Quello di Andreotti venne letto come un attacco al presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che infatti difese subito Gladio. Cinque procure si misero in moto. La stampa ipotizzò una presenza di «gladiatori» nello stragismo. Tornarono alla ribalta i nomi di Miceli, Maletti, Spiazzi, De Lorenzo, tutti alti ufficiali implicati in casi come Rosa dei Venti, Sid parallelo, Piano Solo, golpe Borghese.
Tutto finì nel nulla: i processi in assoluzioni, le polemiche in fuochi di paglia. Giovanni Falcone aveva già consumato il suo distacco da Palermo. Uno dei suoi ultimi atti era stato la richiesta di una perizia balistica su tutte le armi che avevano sparato in Italia, in delitti di mafia e terrorismo. Cercava collegamenti. A Roma si procurò le liste complete di Gladio. Non passava al setaccio, come fecero tutti gli altri, i grandi nomi. Piuttosto, studiava legami dal basso tra «gladiatori» comuni, terroristi, mafiosi e strane logge massoniche siciliane. O ancora, voleva capire il ruolo del centro operativo di Stay Behind nel Trapanese. Era il tentativo di un primo «vocabolario» che il magistrato ucciso a Capaci provava a redigere, per dare volti e nomi a quelle «menti raffinatissime» e a quel «gioco grande» cui spesso aveva accennato. Non ebbe tempo. Dopo l’eccidio di Capaci, le liste dei «gladiatori» scomparvero dai suoi computer custoditi presso il ministero della Giustizia.
12 ottobre 1957
Il summit dell’Hotel delle Palme
Nel gioco di prestigio della mafia la Sicilia diventa la nuova Cuba. Vediamo come.
Nell’isola caraibica, il 10 marzo del 1952, Fulgencio Batista era salito al potere. Qualcosa come 952 milioni di dollari erano piovuti dal cielo sui cubani. La mafia voleva costruire qui la sua Shangri-la: casinò, night club, sesso, droga a fiumi. Ma in America si era insediata la Commissione Kefauver sul crimine organizzato: 17 milioni di spettatori avevano assistito ai lavori in una formidabile diretta tv. Avevano scoperto la mafia, appreso che la sua testa si trovava in Sicilia e che il top manager del narcotraffico era un certo Lucky Luciano, al secolo Salvatore Lucania. Il nuovo ministro della Giustizia, Robert Kennedy, aveva appena convinto il capo dell’Fbi, J. Edgar Hoover, che Cosa Nostra andava distrutta.
Intanto, a Cuba, era scoppiata la rivoluzione di Fidel Castro e Che Guevara. Per la mafia era il disastro. Bisognava correre ai ripari. Il 12 ottobre del ’57 i capi di Cosa Nostra americana sbarcarono all’Hotel delle Palme di Palermo. Vi restarono per quattro giorni. A riceverli c’erano il padrino siciliano Giuseppe Genco Russo e due giovani dottori in narcobusiness: Tommaso Buscetta (diverrà il più grande pentito di mafia della storia) e Gaetano Badalamenti (che già nel ’46, a 23 anni, era di casa a Detroit). Alle Palme si decisero le nuove rotte del traffico planetario, di cui la Sicilia sarebbe stata il porto franco. Il 14 novembre venne organizzato un analogo summit ad Apalachin (New York). Ma finì in barzelletta. Arrivò la polizia e tutti i Vito Corleone del tempo vennero arrestati mentre fuggivano nei boschi.
Nell...