1. L’epica
1. Fine e inizi
«‘Così, al sorgere del sole, abbiamo tagliato quelle canoe’. / Filottete sorride per i turisti, che cercano di rubargli / l’anima con le loro canon...». Sono i primi versi dell’Omeros di Derek Walcott, 1990, poco più di vent’anni fa. Omeros è una riscrittura, in esametri para-omerici disposti in terzine para-dantesche, dell’Iliade e dell’Odissea. Nello stesso anno, in Brasile, esce Finismundo. A Ultima Viagem, di Haroldo de Campos, poi ripubblicato nel 1996: è una riscrittura dell’Odissea, del canto XXVI dell’Inferno, e dell’Ulisse di Joyce. 1993: appare The Odyssey. A Stage Version di Walcott. 1994: Haroldo de Campos pubblica Menis: A Ira de Aquiles, la sua «trans-creazione» del Libro I dell’Iliade, e Bere’shith. A Cena da Origem, la «trans-creazione» dei capitoli iniziali della Genesi. 1996: compare in Germania Ithaka: Schauspiel nach den Heimkehr-Gesängen der Odysee di Botho Strauss. 23 febbraio 2010: esce, sempre in Germania, Odysseus Verbrecher: Schauspiel einer Heimkehr di Christoph Ransmayr.
Si potrebbe continuare: è del tutto verosimile che in qualche angolo della Terra siano uscite riscritture dei poemi omerici che io ignoro. Del resto, il XX secolo ce l’ha insegnato: con l’Ulisse di Joyce, La guerre de Troie n’aura pas lieu di Giraudoux, La naissance de l’Odyssée di Jean Giono. L’epica non è mai morta. Cambia pelle nel corso dei millenni, si trasporta da una lingua all’altra, si innesta su altri generi e con essi si ibrida, ma è viva e vegeta. Questo capitolo tenta di ricostruirne, a volo d’uccello, il tortuoso cammino genealogico e i principali sviluppi.
Si aveva l’abitudine di pensare che l’epica vera e propria, quella «spontanea», fosse un genere legato alle origini di una cultura, e che potesse poi rivivere soltanto per l’atto cosciente di qualche esponente di una cultura più tarda. Così, l’Iliade e l’Odissea aprono la letteratura greca, mentre le Argonautiche di Apollonio Rodio riscrivono l’epos in ambiente ellenistico, e l’Eneide, ma poi anche i Pharsalia di Lucano, la Tebaide e l’Achilleide di Stazio, nell’ambito della cultura imperiale romana. Così, molto più tardi, Hildebrandslied, Beowulf, Chanson de Roland e Cid inaugurano le nuove letterature nate dopo le invasioni barbariche e vengono poi sviluppati nei poemi cavallereschi. È un’idea errata e fuorviante. Non tiene conto delle due grandi epiche indiane, il Mahabharata e il Ramayana. Ed è fondata su una conoscenza a dir poco frammentaria dei contesti nei quali quei racconti eroici sono sorti. Per capirsi, cosa viene prima dell’Iliade e dell’Odissea? Dico: al di là dei canti o dei carmi che generalmente si suppone siano serviti da tessuto a «Omero». I due poemi appaiono – e sono sempre apparsi – talmente perfetti da render difficile immaginarli come primitivi. L’Odissea, in particolare, sembra talvolta presupporre un resoconto poetico sull’impresa degli Argonauti, forse persino una storia totalmente diversa delle avventure di Ulisse: come se fosse stata composta per riabilitare un personaggio già ritenuto mero imbroglione. Mi astengo dall’estendere tali considerazioni alla Teogonia di Esiodo, il primo poema eroico dell’Occidente sulla generazione degli dèi, e tanto più mi trattengo dall’affrontare simile problematica nell’ambito della Genesi ebraica, che con il tempo diverrà il resoconto fondante del Principio anche per l’Occidente. Solo Dio sa – in questo caso l’espressione ha valore letterale – cosa ci sia stato prima della Genesi quale l’abbiamo da almeno duemilacinquecento anni: ne riparleremo nel prossimo capitolo.
L’idea cui ho accennato ha basi incerte persino per quel che riguarda i successori di quegli inizi. Anche qui, la nostra conoscenza è limitata. Sappiamo, per esempio, che esistevano poemi del «ciclo epico»: i Kypria, l’Aethiopis, la Piccola Iliade, l’Iliou Persis, i Nostoi, la Telegonia. Fozio, nel IX secolo della nostra era, includeva nel ciclo epico anche una Titanomachia e un ciclo tebano. Ma di tutto questo non abbiamo che frammenti, e dello stesso «ciclo epico» esiste quasi soltanto un riassunto a pezzi che fa da prefazione al manoscritto Venetus A dell’Iliade, del X secolo, a sua volta estrapolato da un resoconto più lungo nella cosiddetta Crestomazia di Proclo. Inoltre, non abbiamo che lacerti minuti dei poemi «troiani» che avrebbe scritto Stesicoro. Come possiamo dire che Apollonio Rodio, o Virgilio, «reinventano» l’epica quando ignoriamo cosa precisamente sia accaduto nei secoli fra i poemi omerici e le Argonautiche alessandrine, mentre sappiamo bene che prima di Virgilio l’epica è fiorita a Roma per mano di Livio Andronico, Nevio ed Ennio?
2. I poemi omerici: l’Iliade
I poemi omerici, che in ogni caso aprono la tradizione epica occidentale, appaiono perfetti, ma sono molto più densi di problemi di quanto generalmente non si pensi. Inaugurano – come giustamente sosteneva Franco Ferrucci – i due modelli dell’assedio e del ritorno che domineranno la nostra letteratura. E costituiscono due archetipi di narrazione che già Aristotele, nella Poetica, individuava: «semplice», «luttuosa» e insomma intrisa di pathos, quella dell’Iliade, nella quale Omero non sceglie di cantare tutta la guerra di Troia, ma soltanto gli eventi legati all’ira di Achille; «complessa», perché piena di riconoscimenti e «caratteri», dedita dunque all’éthos, quella dell’Odissea, in cui di nuovo è narrata una sola «azione», il nóstos: il ritorno di Odisseo. Entrambe piene di illogicità, falsità, paralogismi, meraviglie: e tuttavia presentate in modo da apparire verosimili. Frutto, l’una – diceva l’Anonimo del Sublime –, dell’ispirazione giovanile, e pertanto di «struttura drammatica e agonistica», di «tenuta sublime e mai stanca», di intreccio sempre profuso di passioni, colpi di scena, discorsi, immagini realistiche; prodotto, l’altra, del tramonto di un grande genio che si abbandona nella vecchiaia alla gioia di raccontare e vi introduce «i resti dell’Iliade» facendone l’«epilogo». L’Odissea, nella quale non c’è più l’«agone», appare allo Pseudo Longino come un lungo racconto, dove non mancano neppure aspetti della commedia di costumi e di carattere, e nel quale Omero può esser paragonato al sole che tramonta, «ancora grandioso ma meno infocato»: «come l’Oceano, quando si ritrae in sé stesso e se ne sta solo nei suoi argini, egli mostra ancora i riflessi della grandezza, anche se ormai ondeggia fra favole straordinarie. Dicendo ciò, non ho dimenticato le tempeste dell’Odissea, il Ciclope e le altre avventure del poema: parlo di vecchiezza, ma della vecchiezza di Omero».
L’Iliade, generalmente datata al IX secolo a.C., è il poema della forza, come scriveva Simone Weil. Dominato dall’ira di Achille, che si ritira nella sua tenda in odio ad Agamennone, che gli ha portato via la schiava-concubina, è un seguito di battaglie e duelli, nel corso del quale i Troiani giungono ad attaccare il campo greco presso le navi. L’intervento di Patroclo affretta il tempo tragico della fine: egli è infatti ucciso da Ettore, ma la sua morte provoca il rientro in guerra di Achille stesso, che uccide Ettore, talché il poema termina con i funerali dell’eroe troiano (non con la presa di Troia, che sarà ricordata nell’Odissea e narrata nell’Eneide di Virgilio). Tuttavia, l’Iliade è anche il poema in cui la forza è sottoposta a critica stringente. Guardiamo, per esempio, alle «pause» che Rachel Bespaloff rilevava nello svolgimento dell’intreccio. Sono i momenti in cui l’azione è sospesa, in cui il divenire incessante e tragico lascia intravedere l’essere. Quando si trova dinanzi ad Achille, Ettore fugge, e quella fuga e quell’inseguimento sono un sogno, «l’essenza dell’orrore che non conosce né soluzione né redenzione»: «Come non si riesce in sogno a prendere un fuggitivo, / non riesce l’uno a fuggire, l’altro a raggiungere, / Achille così non poteva prenderlo in corsa, l’altro scappare». Ettore non può più evitare il destino di morte: Zeus pesa le due sorti sulla sua bilancia d’oro, e quella del troiano pende in basso inesorabilmente. Apollo, che ha voluto soccorrerlo, abbandona Ettore. Interviene invece Atena, con le fattezze di Deifobo, per ingannarlo e convincerlo a fermarsi. Il «pensiero metafisico di Omero» conosce questi abissi. Ettore sarà ben presto cadavere. E tuttavia non bruttato dallo scempio che Achille perpetra su di lui, ma, quasi fosse ormai marmo di statua ellenistica, preservato dagli dèi in tutta la sua bellezza. L’Iliade, poema della forza, dice la gloria degli eroi sacrificati, di «tutto ciò che, vinto dalla fatalità, continua a sfidarla e la sconfigge».
Eppure, la sventurata bellezza di Elena – quella bellezza che i vecchi di Troia contemplano sulle mura della città assediata in un’altra pausa suprema del poema – riesce a farci penetrare oltre la «beata spensieratezza degli Immortali»: è una maledizione, ma anche qualcosa che «isola, innalza, protegge dagli oltraggi»: «Non è certo motivo di biasimo», si dicono l’un l’altro i vecchi, «se per tale donna a lungo / Troiani ed Achei dalle solide gambiere sopportano dolori: / maledettamente somiglia d’aspetto alle dee immortali». Di qui «il suo carattere sacro, nel senso originariamente ambiguo del termine – insieme esaltante e vivificante, malefico e terribile». Omero, insomma, ha una passione per l’eternità, muove verso l’Essere, si nutre degli istanti di interiorità, si affida alla solidarietà di etica e poesia.
Gli innumerevoli duelli dell’Iliade, le stragi perpetrate dall’una e dall’altra parte, sono dati ineludibili, sono «ciò che è»: fatti decretati dal destino prima ancora che dalla volontà degli uomini, o degli dèi, che pure intervengono pesantemente nell’azione con spinte contrastanti e devastanti. Il cosmo intero è sottoposto a una legge del «ciò che è come è» alla quale nessuno – non Elena, non Ettore, non Achille, non Troia – possono sfuggire. Eppure, se agli dèi è dato di agire, e combattersi fra di loro senza esclusione di colpi, per rimandare, o tentar di mutare, quel fato, agli esseri umani è concess...