Prima lezione di sociologia del diritto
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Prima lezione di sociologia del diritto

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Prima lezione di sociologia del diritto

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Nelle parole di un maestro della disciplina, le radici, i concetti, i metodi e i nuovi orizzonti di una scienza antica ma recentemente rinnovata, che getta un ponte fra diritto e società.Il diritto è un fenomeno sociale della massima importanza. Regolando le azioni umane, fornisce criteri di orientamento nella grande complessità del mondo. Naturalmente, nel corso dei secoli, ha ispirato una infinita serie di studi dogmatici, storici, filosofici e teorici. Eppure, per un sottile paradosso, questa tradizione di pensiero ha lasciato in ombra proprio l'elemento di socialità degli ordinamenti giuridici, non perché su questo aspetto siano mancate riflessioni episodiche di grande rilievo ma per la mancanza di un metodo e di un sistema armonico di riferimenti teorici, in breve di un discorso scientifico. La sociologia del diritto, tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, è sorta per colmare questa lacuna. Grandi figure di studiosi, come Max Weber, Emile Durkheim, Eugen Ehrlich e Theodor Geiger, ne hanno tracciato la strada attingendo all'insegnamento dei classici, all'esperienza bimillenaria dei giuristi, alle conoscenze storiche, sociologiche e antropologiche accumulate nei primi decenni di sviluppo delle scienze sociali.Vincenzo Ferrari espone in breve sintesi i concetti essenziali della disciplina, rivolgendosi a chiunque abbia curiosità per l'agire giuridico e per il suo impatto sulle strutture sociali.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858103029

L’oggetto

1. La società umana fra cooperazione e conflitto

Punto di partenza dell’analisi socio-giuridica sono alcune fondamentali assunzioni teoriche, comuni ad altre scienze sociali: non solo la sociologia con le sue varie branche specialistiche, ma anche l’economia politica, la scienza politica, la psicologia sociale (alla cui base sta la psicologia individuale), l’antropologia sociale e via dicendo. Vediamo quelle più essenziali.
La più naturale di queste assunzioni è che gli esseri umani vivono comunemente in società o, se si preferisce, in gruppi, mantenendo rapporti caratterizzati da un apprezzabile grado di costanza, regolarità e prevedibilità. Questo è il presupposto di ogni ragionamento ­nelle scienze sociali e, se non possiamo evitarlo, possiamo pe­rò darlo per scontato e sorvolare sui problemi teorici che esso pone e che del resto verranno in luce più avanti. Mi limito, sul punto, a tre brevi precisazioni preliminari.
In primo luogo, uso qui la parola “società” riferendomi genericamente all’aggregazione fra esseri umani e ignorando di proposito il dibattito circa la natura di questa aggregazione, che la teoria sociologica, nel suo procedere storico, ha descritto via via come un insieme coordinato di relazioni, poi di azioni, poi di mere comunicazioni. Non sottovaluto l’importanza di queste variazioni d’opinione (e di lessico). Solo, non mi sembrano cruciali a questo stadio del discorso.
In secondo luogo, nel parlare genericamente di ‘società’ non entro nel merito dei criteri di identificazione di ogni singola società. Infatti gli aggregati che gli esseri umani formano, e in cui vivono, non sono fissi ma mutevoli; inoltre, la loro definizione, o identificazione, è un fatto di percezione e di convenzioni sociali, aperto a differenti punti di vista, interni ed esterni ai diversi aggregati umani di cui capiti di discutere.
In terzo luogo, parlare di (relativa) costanza, regolarità e prevedibilità dei rapporti non significa assumere alcuna posizione circa il grado di socievolezza e di cooperazione fra i membri di una qualsiasi società. Significa solo che gli esseri umani vivono in relazione fra loro, volenti o nolenti, in linea con la loro natura, che nelle sue Idee per una storia universale e successivamente nel suo Per la pace perpetua, Immanuel Kant (2009, pp. 28 ss., 163 ss.) rappresentò come una condizione di insocievole socievolezza, che li induce a combattersi, ma anche a cooperare.
Proprio questa immagine kantiana apre la via a un’al­tra assunzione teorica, di primaria importanza: tutte le società umane conosciute presentano in forma più o meno evidente un problema di scarsità di risorse. A prima vista questo concetto può sembrare criticabile. Vi si potrebbe opporre, da un lato, che esistono anche ai nostri giorni società opulente per le quali parlare di scarsità sembra assurdo: per esempio i nostri paesi occidentali, definiti “First World” nel comune lessico politico. Dall’altro lato, si potrebbe opporre che in epoche passate sono esistite e forse ancora esistono società, magari semplici e povere rispetto ai nostri parametri, e tuttavia autosufficienti e capaci di garantire ai loro membri cicli regolari di vita e di riproduzione. Ma si tratterebbe di argomenti fuorvianti.
Il primo è facilmente smontabile con due osservazioni. Da un lato, le società cosiddette opulente, come le descrisse (criticamente) un noto saggista americano (Galbraith 1965), presentano al loro interno una distribuzione di risorse così ineguale, da far agevolmente comprendere che la scarsità è un concetto non assoluto ma relativo, com’è relativo, infatti, il sentimento umano di privazione che alla scarsità è strettamente legato (Runciman 1972). Si avverte una privazione non solo quando manca per tutti un bene essenziale, ma anche quando manca un bene, magari meno essenziale, che però è appannaggio pacifico di altri membri del nostro stesso gruppo sociale. Non vi è dunque bisogno di molto ingegno per scoprire che le risorse sono, se non scarse in assoluto, almeno percepite come scarse anche nelle società più fortunate.
Dall’altro lato, queste società, nelle quali abbiamo la ventura di vivere – la mia generazione in pace per oltre mezzo secolo, caso unico nella storia europea – devono la loro opulenza materiale e anche gran parte della loro vivacità culturale a uno sviluppo storico accelerato, che ha permesso loro di importare gratuitamente o a prezzi sviliti, con le buone o con le cattive, imponenti quote di ricchezza da altri paesi che, pur definiti come “Third World”, possedevano (e posseggono) gran parte di quelle risorse primarie da cui dipende l’alto grado di benessere dei paesi più ricchi. I quali – si dice – consumano quasi i nove decimi delle ricchezze mondiali. E credo basti questa considerazione per convincere che, semmai potessimo nutrire dubbi sulla scarsità “assoluta”, guardando a questo o quel paese dell’OCSE o del G8, essi svanirebbero se guardassimo alla società umana tutta intera e riflettessimo sulla durata media della vita di un italiano e di un abitante della Bolivia o del Lesotho. Ovvio che questi fatti possano essere letti in diverse chiavi, ma sono fatti, appunto.
Il secondo argomento è più insinuante. Fra il Seicento e il Settecento molti viaggiatori occidentali hanno cercato a lungo la società perfetta e incontaminata, non solo per conquistarla alla “civiltà” o alla “vera religione”, cosa che gli europei hanno fatto con grande spargimento di sangue, ma anche per scoprire se il loro ideale astratto avesse un riscontro concreto e potesse giustificare la speranza di un ritorno alla perduta età dell’oro, come auspicarono Jean-Jacques Rousseau o, più tardi, Friedrich Engels. Oltre alle relazioni scientifiche vi sono mirabili pagine letterarie di autori che non nascondono l’amarezza per gli effetti della colonizzazione europea in ambienti “primitivi”, inconsapevoli della loro stessa povertà: penso a Typee di Herman Melville che, descrivendo in forma romanzata una tribù delle Isole Marchesi, provocatoriamente si chiese se le devastazioni europee non fossero peggio perfino dell’antropofagia praticata in casi estremi e in forme simboliche sui nemici vinti in battaglia (Melville 1973). Ancor oggi, per esempio in Amazzonia, vi sono tribù che resistono all’invasione occidentale. Che vi siano dunque stati, o esistano tuttora, gruppi sociali che non hanno percezione della scarsità non si può escludere. Ma ciò non inficia la considerazione che nelle società passate e presenti, di cui si ha conoscenza sufficiente, tale percezione esiste e che pertanto quello della scarsità può essere un presupposto per l’analisi scientifica – appunto – di tali ambienti sociali.
La scarsità di risorse – come noto – è il presupposto di molte scienze sociali. L’economia politica, per esempio, si occupa di quei beni e servizi che non essendo infinitamente disponibili hanno un prezzo variabile precisamente in funzione della loro maggiore o minore rarità. La scienza politica incentra l’attenzione, in una singola società o in più società collegate, sull’accesso alle posizioni di comando o d’autorità, scarse per definizione rispetto a coloro che vi ambiscono. Infine la sociologia, nelle sue diverse partizioni (dalla sociologia economica alla sociologia dei consumi), si occupa soprattutto di azioni umane, razionali o irrazionali, indirizzate al soddisfacimento di aspettative volte all’acquisizione non solo di beni materiali, teoricamente moltiplicabili finché esistono le risorse necessarie (il cibo, i medicinali), ma anche di beni “posizionali” (Hirsch 1981), il cui valore è essenzialmente connaturato con la loro rarità (la residenza privilegiata, la visibilità sociale, gli status symbols, ecc.).
Che la scarsità sia un presupposto anche per la sociologia del diritto appare intuibile. Infatti, senza anticipare i tempi del discorso, possiamo dire sin d’ora che tutti i beni cui tendono gli esseri umani, di qualsiasi genere, sono o possono essere oggetto di regolamentazione giuridica, tanto più cogente – di solito – quanto più sono oggetto di appetiti rari o addirittura, come la vita, insostituibili. Forse non vi è legge alcuna che direttamente o ­indirettamente non si occupi di beni o posizioni appe­tibili. E infatti uno dei più influenti sociologi del diritto, Lawrence Friedman, ritiene che il diritto sia soprattutto un sistema di «allocazione delle risorse» (Fried­man 1978, pp. 62 sgg.). In quanto scarse, appunto.
Che le risorse siano scarse significa che esistono più pretendenti, o attori sociali, che vogliono accedervi, appropriarsene, utilizzarle. E ciò, a sua volta, significa che fra costoro esistono conflitti, se non reali almeno potenziali, se non manifesti almeno latenti. Questo è il banco di prova della kantiana «insocievole socievolezza» dell’uomo. Come già detto, gli esseri umani – come pure gli «animali non umani» (Pocar 2005) – possono cooperare o combattersi per l’accesso alle risorse. L’una o l’altra scelta dipende da diversi fattori. Dal grado di scarsità, innanzitutto, che può anche indurre a drastiche forme di autoselezione7. Oppure dall’incertezza sull’esito della lotta, quando i potenziali contendenti non conoscano la forza degli avversari e si trovino davanti a quello che John Rawls ha chiamato con felice espressione «il velo di ignoranza», condizione che a parer suo induce a suddividere equamente la posta in gioco (Rawls 1982, pp. 125 sgg.). Oppure, ancora, dalla certezza che la lotta, portata all’estremo, pregiudicherebbe gravemente tutti i contendenti: è questa la (funerea ma provvidenziale) filosofia che ha permesso di governare il mondo durante la cosiddetta guerra fredda. E infine, può dipendere dall’esistenza di regole comuni al campo dei contendenti: l’etica, la religione, i tabù, il diritto. E queste regole, che secondo il parlar comune indurrebbero solo alla cooperazione, possono invece apportare pace o guerra, essere ireniche o polemogene. Dipende da quanto sono condivise e quanto lo sono i valori che vi sono incorporati. La religione solitamente unisce, ma gli scontri religiosi (anche fra sette della stessa religione) sono tra i più sanguinosi della storia umana, spesso miranti anche alla cancellazione del nemico “infedele” dalla faccia della terra.
Cooperazione e conflitto sono due opposti, ma in realtà connessi in relazione mutevole. Salvo i casi estremi di annientamento del nemico, anche fra i contendenti di una guerra armata si istituiscono forme di cooperazione. Greci e Troiani interrompono la battaglia per seppellire i morti. Ambasciatori di eserciti in lotta si incontrano per parlamentare. E per contro, una semplice osservazione delle dinamiche dei gruppi politici – partiti, sindacati – rivela che il conflitto si sviluppa anzitutto al loro interno per l’acquisizione di influenza, posizioni, autorità, potere, fino al punto che fazioni o diramazioni di un gruppo possono attuare strategie diverse in vista del confronto con l’avversario esterno. Senza dire che l’istituzione umana per definizione più cooperativa, l’unione fra uomo e donna, può essere altamente conflittuale, anche perdurando la convivenza e neppure – per paradosso – una convivenza infelice.
Ma se cooperazione e conflitto s’intrecciano, ciò dipende dal fatto che il conflitto è sempre almeno latente nelle relazioni umane. Ovvero, la categoria del ­conflitto è talmente centrale per ogni scienza sociale, in particolare la sociologia, che nessun autore serio si sognerebbe di negarne l’importanza e molti autori lo concepiscono addirittura come una sorta di motore immobile, di prius di ogni spiegazione scientifica della socialità. È significativo che due importanti concezioni politiche contemporanee come il liberalismo e il socialismo concepiscano entrambe la società umana come un campo d’azione conflittuale. L’uno – il liberalismo – come un dato storico ineliminabile, benché controllabile attraverso regole socialmente condivise; l’altro – il socialismo – come un dato storico radicato, derivante dall’alienazione della classe lavoratrice dal controllo dei mezzi di produzione e, a seconda delle visioni, attenuabile attraverso riforme sociali egualitarie o estirpabile attraverso un mutamento rivoluzionario dei rapporti di produzione8.
Sulla centralità del conflitto si fonda anche la sociologia del diritto. Anche un autore come Talcott Parsons, massimo teorico del funzionalismo sociologico, che vede la società umana come un corpo in tendenziale equilibrio, capace di reagire automaticamente ai fattori di perturbazione, prende atto della conflittualità immanente nei rapporti sociali, controllabile nell’interesse generale anche per l’operare di un sistema giuridico equo ed efficiente (Parsons 1983). Ancor meglio il rapporto inestricabile fra conflitto e diritto è stato espresso da Vincenzo Tomeo, secondo cui il diritto è nient’altro che «la struttura del conflitto», giacché «rappresenta lo schema strutturale del conflitto tra gli interessi e tra i gruppi», la via, dunque, nella quale i conflitti si incanalano (Tomeo 1981, p. 85).
Un campo di rapporti conflittuali può essere descritto come un luogo di incontro/scontro fra aspettative incompatibili. Tizio pretende da Caio l’adempimento di un’obbligazione in ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. L’oggetto
  3. Il metodo
  4. Per concludere
  5. Riferimenti bibliografici