Abbiamo fatto il possibile... per le imprese
Per decenni, la flessibilizzazione del mercato del lavoro è stata giustificata come unica alternativa per far fronte alla disoccupazione strutturale di massa e per permettere alle imprese di guadagnare margini di competitività e quindi di benessere, per sé e per gli altri, si diceva. Tuttavia, avallare l’idea della centralità dell’impresa quale unico soggetto capace di generare crescita e quindi occupazione ha provocato un rafforzamento delle diseguaglianze economiche sul piano distributivo, con un aumento costante della quota profitti sul totale dei redditi, a detrimento di quella connessa ai redditi da lavoro. Stando ai dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro, in Italia la quota dei redditi da lavoro sul Pil passa dal 66,1% del 1976 al 53% del 2016. Inevitabilmente, però, i rapporti di forza legati ai processi produttivi si riproducono anche in quelli politici, dove appunto il peso degli interessi legati al capitale aumenta fino a intaccare tutte le sfere del sociale. Ciò provoca uno stravolgimento del ruolo dello Stato, che continua a intervenire pesantemente nell’economia, sostenendo non già la parte più debole dentro i rapporti di produzione – i lavoratori –, bensì quella più forte, le imprese.
L’esempio più recente e paradigmatico per l’Italia è sicuramente quello della Fiat, oggi Fca. L’industria automobilistica, un tempo torinese, ha negli anni dismesso e delocalizzato non soltanto gran parte degli stabilimenti italiani, ma ad oggi anche la propria sede legale, nonostante gli oltre 7 miliardi concessi dallo Stato per gli investimenti e la spesa sociale in sostegno al reddito, come la cassa integrazione in deroga per i lavoratori. Quando non si delocalizza, si finanziarizza, spostando risorse dall’economia reale alla finanza e ai suoi giochi speculativi. Quel che rimane in Italia è la ‘cura Marchionne’, sperimentata in modo spietato nello stabilimento di Pomigliano. Qui, nel 2010, l’Amministratore delegato Sergio Marchionne impose sotto il ricatto della delocalizzazione all’estero un contratto capestro – firmato da tutti i sindacati meno la Fiom –, che sostituiva il contratto collettivo nazionale (Ccln). Va da sé che le condizioni imposte furono meno vantaggiose per i lavoratori: turni più lunghi, pause ridotte, forti restrizioni all’attività sindacale. Sacrifici in cambio di promesse. Dopo la cassa integrazione continua, lavoratori spostati senza indennità di trasferta da Pomigliano a Cassino, la condanna per attività antisindacale, proprio nel marzo del 2017 Marchionne ha annunciato che la Panda non sarà più prodotta a Pomigliano ma verrà trasferita in Polonia, per lasciare spazio a una produzione a maggiore valore aggiunto. Quale, però, non si sa. Il modello adottato da Fca per il tramite del suo Ad Marchionne è una cambiale in bianco: prima la richiesta di finanziamenti allo Stato, la deroga alla legge e al Ccnl e poi, forse, il piano industriale. Lo stesso modello denunciato anche a Melfi: altro stabilimento in cui non soltanto i lavoratori sono in balìa del costante rischio di cassa integrazione e licenziamento e il lavoro interinale impazza, ma dove si consumano addirittura atti al limite della disumanità, paragonabili a quelli vissuti in una fabbrica di fine Ottocento. Come chi è costretto a urinarsi addosso perché non gli viene concessa una pausa.
Lo spostamento di risorse verso il capitale (livello distributivo), dovuto anche alla flessibilizzazione del mondo del lavoro, aggredisce anche le politiche di redistribuzione – quelle che attengono alla sfera fiscale – indebolendole. Sconti, abbassamento delle tasse, depotenziamento sostanziale dei contratti collettivi nazionali, incentivi di vario genere per favorire l’attività d’impresa, per metterla a suo agio e rafforzarne i poteri: costi quel che costi.
Dell’evocata necessità di abbattere le tasse sulle imprese è piena la stampa, le dichiarazioni di politici e editorialisti, nonostante le tasse sulle imprese siano nel tempo diminuite – in Italia come in tutta Europa. A partire da quella che è la tassa sui redditi d’impresa (Ires), passata tra il 2003 e il 2017 dal 33% al 24%. Una tassazione ad aliquote fisse senza alcun riferimento alla progressività fiscale, ma di questo non si lamenta nessuno: né i piccoli imprenditori né, figuriamoci, i grandi, che poi sono anche quelli che sempre più spesso ricorrono ai condoni per riportare in patria quantità enormi di denaro sottratte al fisco. Così come nessun imprenditore ha fatto la voce grossa ribadendo che la riduzione delle imposte non può andare a beneficio di tutti indiscriminatamente, ma dovrebbe perlomeno essere vincolata al tasso di investimento o di innovazione delle imprese stesse: cioè a quelle imprese che hanno davvero intenzione di produrre valore aggiunto e stimolare la crescita.
Mentre la grancassa politico-mediatica si abbatteva contro lavoratori e disoccupati, con punte di sprezzante denigrazione verso i giovani e le loro capacità di adattarsi alle richieste del mercato, raramente si è assistito a un’indagine sul tessuto imprenditoriale italiano e su quale sia realmente il contributo delle imprese in termini di investimenti, che continuano a diminuire: a fine 2016 si contano 20 miliardi di euro in meno per investimenti in impianti e macchinari rispetto al 2008. Sul totale degli investimenti in capitale fisso la differenza è di oltre 48 miliardi di euro, il 24% in meno. Inoltre, da un’indagine di Ucimu presentata alla Camera dei Deputati a inizio 2016 emerge che l’età media del parco macchine installato nelle imprese italiane è di 12 anni e 8 mesi, la più alta di sempre. Addirittura, il 27% delle macchine ha un’età superiore ai 20 anni e soltanto il 13% di queste non supera i 5 anni. C’è poi il dato sull’automazione: tutti ne parlano, ma di fatto in Italia siamo ben lontani dalla robotizzazione dei processi produttivi. L’incidenza delle macchine a controllo numerico sul totale è del 32%, con una crescita di un punto percentuale rispetto al 2005, anno in cui i tassi di crescita erano ben più elevati (6 punti percentuali rispetto a inizio anni Duemila).
Figura 4. Investimenti in capitale fisso (1999-2016).
Fonte: Elaborazione su dati Istat.
Nella totale assenza di una visione strategica nonché della politica industriale che viene lasciata all’arbitrio imprenditoriale, lo Stato non ha fatto mancare comunque il proprio sostegno. Addirittura i cittadini con le loro tasse – che, ricordiamo, sono per lo più quelle dei lavoratori – pagano di tasca propria gli investimenti alle imprese. È questo il meccanismo del superammortamento al 250% previsto dalla legge di stabilità 2017: costato 100 l’investimento, la riduzione delle tasse applicate all’ammortamento viene calcolata non sui 100 effettivamente spesi, ma su 250. Tutto questo mentre si tagliano la spesa per la sanità e quella per l’istruzione e gli ammortizzatori sociali per chi perde lavoro.
E, nonostante tutto questo, sono sempre i lavoratori il problema: costano troppo, pretendono diritti, esigono pure di essere pagati. Lo Stato deve intervenire, al diavolo il laissez-faire. Seguono a tamburo battente gli incentivi per stimolare le assunzioni: prima condizionate all’occupazione delle cate...