Cosa Nostra
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Storia della mafia siciliana

  1. 580 pagine
  2. Italian
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Quando ho finito di leggere questa storia di Cosa Nostra non ho saputo se privilegiare l'accuratezza, la precisione, l'intelligenza dello storico o la leggerezza, la scorrevolezza, la fluidità del narratore.Andrea CamilleriNessun altro libro sulla mafia è insieme così persuasivo, comprensivo e leggibile.Denis Mack SmithIl miglior saggio mai scritto sulla mafia. Dickie è implacabile nella sua chiarezza.Massimo CarlottoUn saggio che scuote ogni certezza. Corrado AugiasUna storia narrata con la perizia di uno spregiudicato autore di thriller.Salvatore Ferlita, "la Repubblica"Incalzante. Si legge d'un fiato come un racconto romanzesco, ricco di episodi drammatici, di colpi di scena, di intrecci misteriosi, sullo sfondo della storia politica italiana dall'Unità a oggi.Vittorio Grevi, "Corriere della Sera"

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858121979

1. La genesi della mafia.
1860-1876

I due colori della Sicilia

Palermo diventò una città italiana il 7 giugno 1860, quando, in osservanza dei termini armistiziali, due lunghe colonne di soldati sconfitti filarono via attraverso il suo confine orientale, e una volta fuori delle mura fecero dietrofront per aspettare la navi che li avrebbero trasportati in patria, a Napoli. Il loro ritiro fu il momento culminante di una delle più celebri imprese militari del secolo, un atto di eroismo patriottico che lasciò stupefatto il resto dell’Europa. Fino a quel giorno la Sicilia era stata governata da Napoli come parte del regno borbonico, che abbracciava la maggior parte dell’Italia meridionale. Nel maggio 1860 Giuseppe Garibaldi e un migliaio di volontari – le famose Camicie Rosse – invasero l’isola mirando a congiungerla alla nuova nazione italiana. Sotto la guida di Garibaldi, questi uomini male in arnese ma pieni di entusiasmo seminarono lo sconcerto in un esercito napoletano di gran lunga più numeroso, e lo sconfissero. Palermo fu conquistata dopo tre giorni di intensi combattimenti strada per strada, durante i quali la marina borbonica bombardò la città.
Liberata Palermo, Garibaldi guidò i suoi uomini – le cui file stavano ora ingrossandosi, fino a diventare un esercito in piena regola – verso est, in direzione dell’Italia continentale. Il 7 settembre l’eroe era accolto a Napoli da folle festanti, e in ottobre consegnò i territori conquistati al re d’Italia. Garibaldi rifiutò ogni ricompensa, e se ne tornò nella sua casa di Caprera con poco più del suo poncho, alcune provviste di base e sementi per il suo orto. Di lì a poco un plebiscito confermò che Garibaldi aveva definitivamente acquisito al Regno d’Italia la Sicilia e la parte meridionale della penisola.
Già i contemporanei considerarono l’impresa compiuta da Garibaldi «epica» e «leggendaria». Eppure in breve tempo assunse ai loro occhi il carattere evanescente di un sogno, tanto tormentato e violento si rivelò il rapporto della Sicilia con il Regno d’Italia. La montuosa isola aveva un’antica fama di polveriera rivoluzionaria. Il successo di Garibaldi fu dovuto in gran parte al fatto che la sua spedizione innescò un’altra insurrezione, dinanzi alla quale il regime borbonico crollò rapidamente. Diventò chiaro che la rivolta del 1860 era stata soltanto il punto di partenza di una serie di sconvolgimenti. L’integrazione di 2,4 milioni di siciliani nella nuova nazione portò con sé un’epidemia di congiure, rapine, omicidi e regolamenti di conti.
I ministri del re, in maggioranza uomini dell’Italia settentrionale, avevano sperato di far partecipi delle responsabilità di governo elementi dei ceti più elevati della società siciliana, gente che gli assomigliasse: proprietari terrieri conservatori che capivano che cos’era il buongoverno e aspiravano a un ordinato progresso economico. Trovarono invece (così suonarono spesso le loro proteste) qualcosa che aveva piuttosto il volto dell’anarchia: rivoluzionari repubblicani provvisti di robusti legami con bande semi-criminali; aristocratici ed ecclesiastici nostalgici del vecchio regime borbonico o bramosi di una Sicilia autonoma; uomini politici locali che praticavano l’omicidio e il sequestro in una lotta per il potere contro avversari altrettanto privi di scrupoli. L’opposizione popolare all’introduzione della coscrizione, in precedenza ignota in Sicilia, era massiccia e furibonda. Ed erano in molti a pensare che la rivoluzione patriottica gli avesse conferito il diritto di non pagare un centesimo di tasse.
I siciliani che avevano investito le loro ambizioni politiche nella rivoluzione patriottica erano infuriati da quello che consideravano l’arrogante rifiuto del governo di accordargli l’accesso al potere – quel potere di cui avevano bisogno per affrontare i problemi dell’isola. Nel 1862 lo stesso Garibaldi era così disperato per le condizioni della nuova Italia, che uscì dal suo ritiro e utilizzò la Sicilia come base per lanciare un’altra invasione della penisola. Stavolta l’obiettivo era la conquista di Roma, tuttora sotto l’autorità del papa. Ma un esercito italiano lo fermò sulle montagne della Calabria, e nello scontro una pallottola lo raggiunse al piede destro. (Roma sarebbe diventata la capitale d’Italia soltanto nel 1870.)
Il governo italiano reagì alla crisi provocata dalla nuova invasione di Garibaldi instaurando la legge marziale in Sicilia. Con questo atto stabilì un precedente per gli anni a venire. Non volendo, o non potendo trovare l’appoggio necessario per pacificare la Sicilia con mezzi politici, il governo fece ripetutamente ricorso alla soluzione militare: corpi di truppa mobili, assedi di intere città, arresti in massa, incarcerazioni senza processo. Ma la situazione non migliorava. Nel 1866 a Palermo ci fu un’altra rivolta, per alcuni aspetti simile a quella che aveva rovesciato i Borboni. Come avevano fatto in occasione dell’attacco garibaldino nel 1860, bande di rivoluzionari scesero sulla città dalle colline circostanti. Circolarono voci (senza fondamento) che descrivevano i ribelli come cannibali e bevitori di sangue; e ancora una volta la risposta fu la legge marziale. La rivolta del 1866 fu domata, ma ci vollero altri dieci anni di tumulti e di repressione perché la Sicilia s’integrasse nel corpo dell’Italia. Nel 1876, per la prima volta, uomini politici isolani entrarono in un nuovo governo nazionale di coalizione.
A far da costante contrappunto ai disordini siciliani tra il 1860 e il 1876 c’era l’impressione che gli splendori dell’isola producevano sui visitatori che vi giunsero sulla scia dell’Unità. La straordinaria bellezza della cornice paesistica di Palermo s’imponeva di forza ai nuovi arrivati. Un garibaldino che si avvicinò per la prima volta a Palermo dal mare disse che aveva l’aspetto di una città costruita per realizzare la visione poetica di un bambino. Intorno alle mura correva una cintura di oliveti e limoneti dietro la quale si scorgeva un anfiteatro di colline e montagne. La stessa semplicità improntava la pianta urbana: Palermo aveva due grandi strade diritte, che s’incrociavano perpendicolarmente ai Quattro Canti, una piazza secentesca. In ciascun angolo dei Quattro Canti, un’elaborata facciata con balconi, cornicioni e nicchie simboleggiava una delle quattro zone della città.
Malgrado i danni causati dalle bombe borboniche, la Palermo degli anni Sessanta dell’Ottocento offriva numerose attrazioni sia ai residenti che agli estranei in visita; e tra queste la principale era forse il celebre lungomare. Durante l’estate, che sembrava interminabile, una volta spento il calore torrido del giorno i palermitani dei ceti alti facevano passeggiate in carrozza sulla Marina rischiarata dalla luna e invasa dai profumi dei suoi alberi in fiore, o gustavano gelati o sorbetti mentre bighellonavano ascoltando le amatissime arie d’opera suonate dalla banda cittadina.
Nelle anguste, tortuose stradine che si dipartivano delle arterie principali e lontano dalla Marina, i palazzi aristocratici condividevano lo scarso spazio con i mercati, le botteghe artigiane, le catapecchie e non meno di 194 luoghi di culto. Nei primi anni Sessanta i visitatori erano spesso colpiti dal mero numero dei monaci e delle monache che affollavano le strade. Inoltre, Palermo sembrava un palinsesto in pietra che riuniva culture formatesi in un arco di parecchi secoli. Come nel resto dell’isola, vi si distinguevano strati diversi che accoglievano monumenti lasciati da innumerevoli invasori. Il fatto è che a partire dagli antichi greci praticamente tutte le potenze mediterranee, dai romani fino ai Borboni, s’erano impadronite della Sicilia. L’isola apparve agli occhi di molti una favolosa vetrina di anfiteatri e templi greci, ville romane, moschee e giardini arabi, cattedrali normanne, palazzi rinascimentali, chiese barocche...
Ancora, la Sicilia la s’immaginava in due colori. Un tempo era stata il granaio dell’antica Roma; e anche dopo, per secoli, i grandi latifondi coltivati a frumento avevano dipinto in giallo oro gli imponenti altipiani dell’entroterra. L’altro colore dell’isola aveva origini più recenti. Quando, nel IX secolo, gli arabi conquistarono la Sicilia, v’introdussero nuove tecniche d’irrigazione e gli alberi di agrumi, il cui fogliame colorò di verde scuro la striscia costiera settentrionale e orientale.
Fu durante i tormentati anni Sessanta che la classe dirigente del Regno d’Italia sentì parlare per la prima volta della mafia siciliana. Senza avere una chiara idea della sua natura, i primi che studiarono il problema supposero che dovesse trattarsi di qualcosa di arcaico, di un residuo medievale, di una testimonianza dei secoli di malgoverno straniero che avevano mantenuto l’isola in una condizione di arretratezza. Ne segue che istintivamente ne cercarono le origini nel giallo oro degli altipiani dell’interno, tra le grandi tenute cerealicole. Malgrado la sua desolata bellezza, l’entroterra siciliano era una metafora di tutto ciò che l’Italia voleva lasciarsi alle spalle. I latifondi erano coltivati da moltitudini di contadini affamati soggetti allo sfruttamento di padroni brutali. Molti italiani speravano, e credevano, che la mafia fosse una manifestazione di questo tipo di arretratezza e di povertà, e fosse quindi destinata a scomparire non appena la Sicilia fosse emersa dal suo isolamento e si fosse messa al passo della storia. Un ottimista arrivò addirittura a sostenere che la mafia sarebbe scomparsa insieme con «il fischio della locomotiva». Questa convinzione dell’antichità della mafia non è mai del tutto morta, anche e non da ultimo perché molti uomini d’onore insistono nel risuscitarla. Anche Tommaso Buscetta credeva che gli inizi della mafia risalissero al Medioevo, che fosse nata come un mezzo per resistere agli invasori francesi.
Ma le origini della mafia non sono antiche. La mafia nacque più o meno negli anni in cui gli allarmati funzionari del governo italiano ne sentirono parlare per la prima volta. La mafia e la nuova Italia nacquero insieme. In verità, la maniera in cui la parola «mafia» affiorò e diventò d’uso generale è una curiosa faccenda, anche e non da ultimo perché il governo italiano che scoprì il nome ebbe altresì un ruolo nel promuovere l’associazione che lo portava.
Come è forse appropriato alla diabolica abilità della mafia, la sua genesi non è fatta di un’unica storia, ma di un intreccio di storie. Districare questi filoni narrativi e portarli alla luce sarà il compito dei paragrafi successivi; ed è un compito che esige una certa elasticità cronologica, poiché si tratta di muoversi avanti e indietro nel turbolento periodo dal 1860 al 1876, non senza una breve incursione nel mezzo secolo precedente. Bisogna inoltre far ricorso alla testimonianza degli uomini che in quella vicenda furono coinvolti, di coloro che furono attori o spettatori degli inizi della mafia.
Per motivi che si chiariranno più avanti, la cosa migliore è cominciare non con la parola «mafia», ma con ciò che la prima mafia faceva, e, cosa altrettanto importante, col dove lo faceva. Giacché se la mafia non era un fenomeno antico, allora il suo luogo d’origine non era il giallo oro dell’entroterra. La mafia emerse in un’area che è tuttora il cuore del suo territorio: si sviluppò là dove si concentrava la ricchezza della Sicilia, sulla striscia costiera di colore verde scuro, tra le moderne attività d’esportazione capitalistiche che avevano la loro base negli idilliaci giardini di aranci e limoni appena fuori Palermo.

Il dottor Galati e il giardino di limoni

I metodi della mafia furono messi a punto durante un periodo di rapida crescita dell’industria agrumaria. I limoni erano diventati per la prima volta un pregiato frutto d’esportazione verso la fine del Settecento. Poi, a metà Ottocento, un lungo boom degli agrumi ingrossò la cintura verde scuro della Sicilia. Due pilastri del modo di vita britannico ebbero un ruolo in questa espansione. A partire dal 1795, la Royal Navy utilizzò i limoni come rimedio contro lo scorbuto che colpiva i suoi equipaggi. Su una scala molto più modesta, l’essenza di bergamotto veniva usata per aromatizzare il tè Earl Grey (la cui produzione commerciale cominciò negli anni Quaranta dell’Ottocento).
Le arance e i limoni siciliani prendevano la via di New York e di Londra quando sulle montagne dell’interno erano ancora praticamente ignoti. Nel 1834 furono esportate oltre 400.000 casse di limoni. Nel 1850 si era già arrivati a 750.000, e a metà degli anni Ottanta ben due milioni e mezzo di casse di agrumi italiani (una cifra che lascia stupefatti) sbarcavano ogni anno a New York; e il grosso era di origine palermitana. Nel 1860, l’anno della spedizione garibaldina, si stimava che i limoneti siciliani fossero la terra agricola più redditizia d’Europa, battendo perfino i guadagni realizzati dai frutteti intorno a Parigi. Nel 1876 la coltivazione di agrumi aveva una redditività per ettaro superiore di oltre sessanta volte a quella media del resto della Sicilia.
Gli agrumeti ottocenteschi erano attività produttive moderne, che esigevano un massiccio investimento iniziale. Bisognava liberare la terra dalle pietre e terrazzarla; costruire magazzini e strade; innalzare muri di cinta per proteggere i raccolti dal vento e dai ladri; scavare canali d’irrigazione e installare scolmatori. Una volta messi a dimora gli alberi, occorrevano circa otto anni perché producessero i primi frutti. E parecchi altri anni dovevano passare prima che le somme investite cominciassero a fruttare un guadagno.
Oltre a richiedere investimenti ingenti, i limoneti sono altamente vulnerabili. Un’interruzione anche breve della fornitura d’acqua può avere effetti devastanti. Il vandalismo, diretto contro gli alberi o i loro frutti, è un rischio costante. Fu questa combinazione di vulnerabilità e di elevati margini di profitto a creare l’ambiente perfetto per i racket mafiosi della protezione/estorsione.
Sebbene ci fossero – e ci siano – limoneti in molte regioni costiere della Sicilia, la mafia è stata fino a tempi recenti un fenomeno concentrato in misura preponderante nella parte occidentale dell’isola. Essa emerse nell’area intorno a Palermo. Con quasi 200.000 abitanti nel 1861, Palermo era il centro politico, giudiziario e bancario della Sicilia occidentale. Nei settori della proprietà e dell’affitto della terra circolava più denaro che in qualunque altra zona dell’isola. Palermo era il centro dei mercati all’ingrosso e al consumo, ed era il porto principale. È qui che buona parte della terra agricola della provincia (e non solo) veniva comprata, venduta e affittata. Infine, era Palermo a decidere l’agenda politica. La mafia nacque non dalla povertà e dall’isolamento, ma dal potere e dalla ricchezza.
I limoneti appena fuori Palermo furono la scena in cui si svolse la vicenda della prima persona perseguitata dalla mafia che abbia lasciato un resoconto particolareggiato delle sue sventure. Si tratta di Gaspare Galati, uno stimato chirurgo. Quasi tutto ciò che sappiamo del dottor Galati in quanto persona (e specialmente il suo coraggio) lo dobbiamo alla testimonianza scritta da lui resa alle autorità a vicenda conclusa, e la cui veridicità fu da queste confermata.
Nel 1872 il dottor Galati si trovò ad amministrare un patrimonio ereditato dalle sue figlie e dalla loro zia materna. Il suo pezzo più pregiato era il Fondo Riella, un’azienda agricola, o «giardino», di quattro ettari che produceva limoni e mandarini ed era situata a Malaspina, a soli quindici minuti di cammino dal confine della città. Il Fondo era un’impresa modello: le sue piante venivano irrigate mediante una moderna pompa a vapore da 3 CV che richiedeva un operatore specializzato. Ma quando ne assunse il controllo Gaspare Galati sapeva bene che il gigantesco investimento assorbito dal Fondo Riella era in pericolo.
Il precedente proprietario, il cognato del dottor Galati, era morto per un attacco di cuore in seguito a una serie di lettere minatorie. Due mesi prima di morire aveva saputo dall’operatore della pompa a vapore che a spedirgli le lettere era stato il guardiano del Fondo, Benedetto Carollo, il quale le aveva dettate a qualcuno che sapeva leggere e scrivere. Può darsi che Carollo fosse un uomo poco istruito, ma certo non gli mancava l’insolenza: Galati racconta che si pavoneggiava in giro come se fosse il padrone dell’azienda, e secondo la voce corrente intascava il 20-25 per cento del prezzo di vendita del prodotto; non solo, ma rubava addirittura il carbone destinato alla pompa a vapore. Era tuttavia il modo in cui Carollo rubava che aveva causato...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’autore
  2. Prologo
  3. Introduzione
  4. Uomini d’onore
  5. 1. La genesi della mafia. 1860-1876
  6. 2. La mafia fa il suo ingresso nel sistema italiano 1876-1890
  7. 3. Corruzione nelle alte sfere 1890-1904
  8. 4. Socialismo, fascismo, mafia 1893-1943
  9. 5. La mafia s’insedia in America 1900-1941
  10. 6. Guerra e rinascita 1943-1950
  11. 7. Dio, il cemento, l’eroina e cosa nostra 1950-1963
  12. 8. La «prima» guerra di mafia e le sue conseguenze 1962-1969
  13. 9. Le origini della seconda guerra di mafia 1970-1982
  14. 10. Terra infidelium 1983-1992
  15. 11. Bombe e sommersione 1992 - estate 2003
  16. 12. Ricotta e fantasmi una cronaca di cosa nostra dopo l’estate del 2003
  17. 13. Diritti e doveri
  18. Ringraziamenti
  19. Bibliografia
  20. Note sulle fonti citate
  21. Immagini
  22. Referenze fotografiche