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Angela Merkel spiegata agli italiani

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Angela Merkel spiegata agli italiani

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Si è fatta strada fra le macerie di uno stato; è sopravvissuta alla crisi profonda del suo partito. Oggi governa la Germania e comanda in Europa. Chi è stata e chi è Angela Merkel?

E dire che venticinque anni fa Angela non c'era, o quasi.Nell'autunno del 1989 il regime della DDR già vacilla. Decine di migliaia di persone scendono in strada e si formano gruppi organizzati di opposizione. Non ne fa parte la Merkel. Quando un milione di persone si riunisce ad Alexanderplatz, lei non c'è. La giovane scienziata quasi si perde l'evento del secolo: la caduta del muro, cinque giorni dopo. È alla sauna, quella sera. Poi, però, cambia passo. Dopo poche settimane entra in politica e già nel dicembre del 1990 viene eletta al Bundestag della Germania appena riunificata, nelle liste della CDU di Kohl. Nel 2005, la consacrazione: diventa la prima donna Cancelliera. Sarà la crisi dell'euro a permettere alla Merkel di conquistare la scena mondiale nel ruolo di timoniere dai nervi saldi. Oggi è venerata dai suoi elettori come 'Mutti', come 'mamma', e guardata con diffidenza dai paesi europei economicamente meno solidi.Questo libro racconta tutto – la scalata al potere, le ambiguità, le straordinarie doti politiche – della donna che, piaccia o meno, è silenziosamente alla guida dell'Europa intera.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858123447
Argomento
Economia

L’apoteosi di Angela Merkel
(almeno a casa):
la crisi dell’euro

La storia della Germania è stata, fino al 2011, una success story improvvisa. Invece la Cancelliera, in termini di popolarità, non ha tratto particolari profitti da questa rinascita repentina del paese. Ne regge le sorti dal 2005, dall’anno in cui è partita la svolta economica; governa una nazione che si è riscoperta forte, fiduciosa, all’altezza delle sfide mondiali, leader economico in Europa. Eppure quasi nessuno riconosce alla Merkel meriti particolari che avrebbero favorito gli sviluppi positivi del paese.
Ancora nel 2011 sono più che deludenti tutti i sondaggi su Angela e anche sul suo partito. Sebbene i dati economici siano confortanti, il rischio che il suo secondo mandato alla cancelleria possa essere anche l’ultimo sembra molto concreto. La coalizione fra cristiano-democratici e liberali si perde in piccole diatribe e non produce nulla di memorabile.
Ma nel frattempo è subentrata, immediatamente dopo la crisi finanziaria globale del 2008, una seconda crisi: quella dell’euro. Cambierà sia le sorti dell’Europa che quelle della Cancelliera Merkel, ma percorrendo due direzioni opposte: mentre l’Europa va incontro ad una crisi esistenziale, la Merkel vede aumentare in modo esponenziale il suo potere in Europa e la sua popolarità in Germania.
Il fischio d’inizio ufficiale del quasi patatrac della moneta unica risuona nell’ottobre del 2009. In quel mese i greci hanno votato e mandato a casa il governo conservatore di Antonis Samaras. È subentrato Giorgos Papandreou del Pasok, il partito socialista, che raggiunge quasi il 44 per cento. Ma dopo uno sguardo ravvicinato alla contabilità statale, Papandreou si vede costretto a rimangiarsi tutte le promesse elettorali: il deficit pubblico del 2009 non si aggira affatto al 6 per cento, come affermato ancora subito prima delle elezioni da Samaras, ma raggiunge la cifra strabiliante del 12-13 per cento.
È uno choc per la Grecia, ma anche per l’eurozona: da un giorno all’altro si viene a sapere che per anni uno dei paesi membri ha sistematicamente falsificato i bilanci pubblici, che ora si trova in una crisi nera e va incontro all’insolvenza. Potremmo dire che la crisi dell’euro inizia con il piede sbagliato: parte da un paese che per anni ha truccato i conti pur di nascondere la realtà sotto il tappeto; che ha gonfiato il debito pubblico, nascondendo in gran parte la verità, non per creare sviluppo, ma per finanziare le clientele, gonfiare il numero dei dipendenti pubblici e concedere loro, in molti casi, trattamenti salariali e pensionistici più che generosi, per permettersi un Welfare State sovradimensionato. E il tutto non a spese dei contribuenti, bensì di un credito diventato facile e a bassi tassi grazie all’appartenenza della Grecia alla zona euro.
Va anche detto però che quel fatto – che la crisi apparentemente parta dalla Grecia, che inoltre apparentemente parta dal debito pubblico di quella nazione – aiuterà molto, in futuro, a mistificare la realtà. Per dirla tutta, alla fine del 2009 sono diversi i paesi della zona euro che si trovano non in cattive, ma in pessime acque: anche se non hanno truccato i bilanci statali, anche se non hanno neanche particolari problemi sul versante del debito pubblico. Parliamo ad esempio dell’Irlanda e della Spagna, che negli anni antecedenti alla grande crisi globale con i loro tassi di crescita sostenuti e il debito pubblico contenutissimo hanno fatto morire di invidia mezza Europa. L’Irlanda, reduce da un decennio di crescita a ritmi forzati con tassi del 6 per cento annuo, nel 2006 si ritrova con un debito pubblico pari al 44 per cento; la Spagna, altra tigre immaginaria, nel 2007 è scesa addirittura a un debito del 36 per cento, mentre la Germania si trova al 63 e l’Italia al 103 per cento.
A ben vedere la Grecia, che nel 2007 ha un PIL di 230 miliardi di euro – quasi identico a quello dell’Assia, regione tedesca di appena sei milioni di abitanti –, non può essere stata la vera ragione della crisi dell’euro, una moneta usata da 330 milioni di persone! Le ragioni strutturali, relegate in secondo piano dalle vistose magagne greche, sono altre: con la crisi finanziaria globale del 2008 si sono manifestati i crescenti squilibri europei fra paesi debitori e paesi creditori.
Inoltre diventa palese l’ingenuità della «teoria della convergenza», secondo la quale bastava introdurre l’euro per fare in modo che le economie aderenti alla moneta unica si avvicinassero. Certo, fra il 1999 e il 2007 il massiccio flusso di capitali dai paesi del nucleo forte dell’Europa, e in primis dalla Germania, a quelli cosiddetti «di periferia» crea l’illusione di una possibile convergenza, suffragata dal fatto che i paesi periferici e più poveri in quel periodo crescono più di quelli centrali e più ricchi; i PIL pro capite delle diverse nazioni si avvicinano; lo spread fra i titoli statali è ancora qualcosa di ignoto. I mercati finanziari, infatti, trattano la zona euro come unica, senza fare grosse distinzioni fra prestiti elargiti alla Grecia, alla Spagna, all’Italia o alla Germania; tutti praticamente con lo stesso tasso di interesse.
Tanto la moneta è una, l’euro. E nessuno si prende la briga di studiare tutte le clausole dei trattati stampate a fondo pagina. Ma nell’autunno del 2008 scoppia la crisi finanziaria globale e parte anche la crisi dell’euro. Inizia in sordina, assai prima dell’emergenza greca, innescata nell’autunno del 2009 e poi deflagrata nel 2010. Comincia a decollare nel 2008, quando le banche di tutto il mondo diventano diffidenti, l’era del credito facile finisce e di conseguenza salta l’equilibrio intra-europeo fra paesi creditori e paesi debitori, garantito fino ad allora dal flusso continuo di miliardi di euro degli uni verso gli altri.
Inoltre «i mercati» si sono accorti che l’euro non è figlio di un patto inossidabile, né una promessa «nella buona e nella cattiva sorte» di solidarietà incondizionata fra i paesi che ne fanno parte, bensì una partita in cui ognuno gioca per sé, seguendo le condizioni che la Germania aveva a suo tempo dettato in cambio dell’approvazione della moneta unica. Ora, con la crisi finanziaria, il gioco si fa duro. Ne è un primo indicatore lo spread: all’inizio del 2007 quello fra la Germania e l’Italia sui titoli pubblici a dieci anni si trova al livello irrisorio dello 0,25 per cento, ma già all’inizio del 2009, ben prima dello scoppio della crisi greca, si avvicina all’1,5 per cento. E le curve dello spread che erano rimaste piatte fino al 2007 per i «PIIGS», per quei paesi che conosceranno la crisi (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), ora iniziano ad alzarsi: un chiaro segno che i destini delle nazioni dell’euro, apparentemente uniti nella moneta unica, si stanno platealmente separando.
Nel febbraio del 2010 la crisi dell’euro deflagra definitivamente, la Grecia rischia il default, la bancarotta, entro tempi brevissimi. L’Unione Europea reagisce con un vertice straordinario che assicura la solidarietà europea al paese sull’orlo dell’abisso. E Angela Merkel da parte sua dichiara: «La Grecia non sarà lasciata sola». A parole no, ma nei fatti sì. È proprio la Cancelliera a frenare: per settimane non ne vuole sapere di aiuti finanziari straordinari alla Grecia.
Ammirata come persona che «risolve i problemi» passo dopo passo, stimata per il suo pragmatismo puro da scienziata quale è, lontana dai «grandi principi» inossidabili, la Merkel è però anche, secondo molti osservatori, una «capitan tentenna» che aborrisce le mosse repentine e le soluzioni veloci, che esita talvolta troppo. E i primi tre mesi della crisi dell’euro sembrano confermare questo secondo giudizio.
Infatti la Merkel sa che si sta muovendo su un campo minato. La «Bild», il potentissimo quotidiano tabloid che, secondo i dati del 2010, ogni giorno vende più di tre milioni di copie, ha lanciato una ferocissima campagna contro «i greci da bancarotta», con titoli cubitali come I greci vogliono i nostri soldi o Vendete piuttosto le vostre isole, voi bancarottieri!. Non è da meno il settimanale «Focus», che a febbraio 2010 mette in copertina una Venere di Milo con il dito medio alzato (si presume verso i tedeschi), titolando Truffatori nella famiglia dell’euro.
«Bild» e «Focus» parlano alla pancia dei tedeschi e i sondaggi danno loro ragione: più del 65 per cento dei cittadini non ne vuole sapere di concedere aiuti alla Grecia. Anche nei gruppi parlamentari dei partiti di governo, cristiano-democratici e liberali, le resistenze sono forti. I deputati liberali sono ad un passo dal votare una mozione che chiede la cacciata della Grecia dall’euro, ma vengono stoppati dal governo all’ultimo minuto. E come se non bastasse, il 9 maggio 2010 gli elettori della Renania settentrionale-Vestfalia, il Land più popoloso della Germania, sono chiamati alle urne per le elezioni regionali.
Molti in Germania e in Europa hanno biasimato la titubanza della Merkel, le sue esitazioni, la mancanza di coraggio, che avrebbe contribuito ad inasprire la crisi in atto. Ma la diagnosi è superficiale. Il suo «esitare» segue un copione preciso, incentrato non tanto sui «problemi» concreti, quanto su alcuni «grandi principi»: un copione che fissa fin da subito i paletti della linea tedesca nelle politiche anticrisi seguite dall’Europa e che permette alla Merkel di diventarne la regista.
Certo la Grecia «non sarà lasciata sola», ma la Cancelliera ci tiene anche a sottolineare la sua contrarietà ad «aiuti affrettati, che imboccherebbero la strada sbagliata». Già nel dicembre del 2008 aveva dichiarato che gli Stati debbono seguire il modello della «casalinga sveva» (gli svevi sono rinomati in Germania per essere morigerati, per non dire tirchi). Il modello è semplice da capire: «Nessuno può perennemente vivere al di sopra delle sue possibilità».
Ai greci vengono dunque promessi aiuti soltanto se accetteranno una drastica politica di austerità: è questa la prima ricetta anticrisi. Poi, come ultima ratio, la Merkel chiede la facoltà di cacciare dall’euro tutti quei paesi che presentano un deficit eccessivo. Questa possibilità non è prevista nei patti costitutivi dell’euro, e difatti la richiesta tedesca non passa, ma il messaggio arriva a destinazione: chi viola le regole dovrà affrontare conseguenze serissime.
Sul piano operativo la Cancelliera riesce già a marzo a far passare una seconda regola sfidando le forti resistenze iniziali della Francia. In futuro la Grecia dovrà trattare le sue politiche di austerità e di «riforme di struttura» non solo con le istituzioni europee, ma anche con il Fondo monetario internazionale (FMI). Nasce così quella che sarà poi conosciuta come la «Troika», formata da BCE, Commissione europea e FMI.
Un terzo principio è altrettanto caro a lei e al suo ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble: altolà alla «ristrutturazione del debito» greco, non ci sarà nessun taglio, i greci dovranno tenersi tutti i loro obblighi verso i creditori. A questo servono gli «aiuti»: a mantenere lo Stato greco solvente verso chi ha investito in titoli del paese. Un quarto precetto rende chiarissimo il concetto: non ci sarà compartecipazione delle banche alla soluzione dei problemi ellenici, e i crediti alla Grecia andranno serviti fino all’ultimo centesimo. Tre sono i paesi particolarmente interessati: le banche francesi detengono titoli greci per 75 miliardi di dollari, quelle svizzere per 64 miliardi, quelle tedesche per 43 miliardi.
I mesi che intercorrono tra febbraio ed aprile sono certamente mesi persi per la Grecia, dato che Atene è ormai diventata teatro di violente proteste e scioperi, ma non per la Germania. Il 23 aprile 2010 il governo greco fa richiesta formale di aiuti finanziari ai partner europei per evitare la bancarotta imminente. Il pacchetto di salvataggio viene varato in pochissimi giorni, ma segue fedelmente i principi stabiliti dalla Germania della Merkel, ed è congegnato in una maniera tutta particolare. Si chiama «salvataggio della Grecia», ma non la salva affatto, ne garantisce soltanto la solvibilità; salva però l’euro. E lo fa partendo da un’interpretazione della crisi imposta dalla Germania. Per leggerla bisogna inforcare gli occhiali della «casalinga sveva»: prende atto degli squilibri europei, delle forti e crescenti asimmetrie che separano paesi creditori e debitori, ma lo fa in maniera riduttiva, decretando che questi ultimi hanno vissuto «al di sopra delle loro possibilità». Una visione che sembra presa in prestito dalle polemiche nei confronti dei «terroni» care fino a qualche anno fa alla Lega Nord, ma applicata questa volta non all’Italia, bensì all’Europa intera: secondo questo schema gli uni si alzano tutte le mattine per produrre ricchezza, gli altri invece solo per consumare allegramente a spese dei primi. Tant’è che nei primi mesi della crisi la Merkel accusa i greci di fare «troppe vacanze», salvo poi scoprire che sono proprio i lavoratori tedeschi a godere dei regimi contrattuali più favorevoli di tutta l’Europa per ciò che concerne le ferie.
Sono ragionamenti opinabili che non forniscono un’analisi delle assurdità create dall’euro, una moneta che ha unito sotto un unico tetto economie lontanissime fra di loro. Ma sono pur sempre argomentazioni funzionali, perché spostano il discorso dalle cause della crisi alle presunte «colpe». E la colpa, seguendo questa diagnosi, non è di un sistema mal costruito né tanto meno della Germania, che ha magnificamente beneficiato dell’euro almeno fino al 2007, guadagnando sia sulle esportazioni che sui crediti poi elargiti ai paesi debitori. No, la colpa è soltanto ed esclusivamente di questi ultimi.
Quindi, secondo questa logica, ad adattarsi devono essere soltanto loro. E la Germania? Ha fatto e fa, secondo il suo punto di vista, ogni cosa nella maniera giusta, anche ora che comincia a fare la faccia feroce. Per dirla con le parole del ministro Wolfgang Schäuble, pronunciate nel dicembre del 2010, «È evidente che i primi della classe non siano particolarmente amati, soprattutto quando dicono: fate come noi!».
Ma la Germania non si limita a fare la secchiona un po’ antipatica: il ruolo di prima della classe semmai l’ha esercitato fino al 2007-2008, accumulando successi e promozioni nella zona euro. Ora, con la crisi dell’euro, sale in cattedra, si autopromuove maestra bacchettona. E gioca, sotto l’egida virtuosa della Merkel, sulla dialettica fra la divisione delle responsabilità dei debiti sovrani nazionali, fissata nei trattati europei, e il diritto all’ingerenza negli affari altrui, diritto anch’esso insito nella costruzione dell’euro.
Le responsabilità infatti sono, e saranno, divise, non condivise: la zona euro è uno spazio economico e monetario, ma ogni Stato continua a rispondere in proprio del suo debito. Ogni Stato, in altri termini, continua a giocare per sé, a godersi da solo i successi e ad assumersi le responsabilità di eventuali insuccessi. E i bilanci sia commerciali che statali, sebbene siano espressi nella stessa moneta, rimangono rigorosamente nazionali e quindi separati. I trattati prevedono il famoso «No bail out», escludono l’ipotesi che altri Stati della zona euro possano farsi carico dei debiti accumulati da uno di loro verso terzi. E anche se il divario fra i paesi si allarga, rimane esclusa la transfer union, un’unione in virtù della quale le zone più ricche mettono a disposizione parte della loro ricchezza per riequilibrare la situazione.
Quanto le stia a cuore questo concetto, Angela Merkel lo dimostra nel dicembre del 2010. La crisi dell’euro è progredita, ha ormai coinvolto Irlanda e Portogallo, sta contagiando la Spagna. Più voci in Europa, ma anche in Germania, propongono la soluzione degli euro-bonds: un indebitamento comune dei paesi europei, potenziale salvaguardia contro gli spread sempre in agguato; uno strumento che permetta anche ai paesi più deboli di indebitarsi a tassi di interesse sostenibili. Ma la Merkel non ne vuole sapere e taglia corto: «La competizione sui tassi di interesse è un incentivo a rispettare i criteri di stabilità». Una bella frustata per i paesi «meno virtuosi». Poi aggiunge: «È nostra ferma convinzione che i trattati non debbano permettere euro-bonds emessi in comune».
Ad esprimere lo stesso concetto, in maniera più rude, è Alexander Dobrindt, uno dei maggiori esponent...

Indice dei contenuti

  1. Una carriera da favola
  2. Allegro ma non troppo: la giovane Angela e la DDR
  3. Né a destra né a sinistra: avanti!
  4. Uno Stato, due unioni monetarie
  5. La gavetta nel governo e nel partito
  6. Un’altra crisi, un’altra occasione
  7. L’Angela di ferro
  8. La Germania dei primi anni Duemila: il malato immaginario d’Europa
  9. Vincere perdendo: la conquista del Cancellierato
  10. La mutazione genetica: da candidata di parte a Cancelliera ecumenica
  11. La Germania dopo il 2005: l’ex malato scoppia di salute
  12. L’apoteosi di Angela Merkel (almeno a casa): la crisi dell’euro
  13. La Cancelliera della porta accanto (chiusa)
  14. La consacrazione
  15. Ma Angela Merkel entrerà nella storia?