25 luglio 1943
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25 luglio 1943

  1. 320 pagine
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25 luglio 1943

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Emilio Gentile, uno dei più autorevoli allievi di Renzo De Felice, mette in dubbio – sulla base di un'accurata esegesi delle testimonianze di tutti gli altri partecipanti alla seduta del Gran Consiglio e di documenti inediti provenienti dalle carte di Federzoni – le ricostruzioni di Grandi e dello stesso Mussolini su cosa avvenne il 25 luglio 1943.Paolo Mieli, "Corriere della Sera"

Un libro di storia puro e crudo è 25 luglio 1943 di Emilio Gentile che, anche grazie a nuovi documenti, ha dato la sua autorevole risposta a molti interrogativi ancora aperti su quella notte decisiva per l'Italia durante la quale si tenne la seduta del Gran Consiglio che provocò la caduta di Mussolini. La conclusione è ineccepibile e, se non interverrà nuova documentazione, definitiva.Giordano Bruno Guerri, "Il Giornale"

Un'accurata ricostruzione del 25 luglio, il libro più approfondito dedicato al tema.Raffaele Liucci, "Il Sole 24 Ore"

Ventiquattro ore di una vicenda rimasta finora avvolta in una selva di racconti mistificanti e di domande senza risposta: la fine del regime fascista.

Premio Acqui Storia 2018

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858142868
Argomento
History

Epilogo.
Eutanasia del duce

Nell’uscita di Mussolini dalla sala del Pappagallo qualcuno dei presenti vide l’uscita di scena di un capo sconfitto. «Passò dalla parte mia: eravamo tutti in piedi lungo le pareti della sala», ha raccontato De Marsico: «salutavamo col braccio levato un uomo che, anche nel passo con cui scomparve nel suo Gabinetto, mi sembrò non calcare più le vie della potenza: salutammo, sì, col cuore ferito, colui al quale avevamo guardato come a un simbolo, a un’idea, a una fede»395.
Fu probabilmente questa l’impressione che ebbero tutti gli altri gerarchi, favorevoli o contrari all’ordine del giorno approvato, dopo dieci ore di discussione; durante le quali, tuttavia, non vi erano stati mai – come hanno raccontato gran parte dei presenti –, neppure nei momenti di maggior tensione, gesti o parole ingiuriose nei confronti del duce. «Coloro che hanno avuto la fortuna di parteciparvi non dimenticheranno il tono altissimo e la dignità di quella assemblea», ha ricordato De Stefani396. Il dibattito, ha confermato Federzoni, «fu per dieci ore tutto sostenuto da un’alta tensione drammatica»397, ma senza «mai dar luogo – ha scritto Alfieri – a nessun incidente violento, a scambio di frasi offensive o ingiuriose, a parole od a gesti violenti, a forme esteriori di minaccia o di teatralità»398. La discussione fu «animata ma ordinata», ha raccontato Acerbo, riassumendo efficacemente le critiche che erano state manifestate durante la seduta, e il modo in cui erano state espresse:
In generale i discorsi di accusa si aggirarono sulla condotta della guerra, sull’impostazione che a questa Mussolini aveva voluto dare come guerra d’idealità fascista accomunandola alla causa del nazismo, ovvero fecero riferimento all’obliterazione arbitrariamente da lui compiuta dei programmi primordiali del fascismo al fine di attuare la dittatura politica della quale ora si maturavano le funeste conseguenze.
I diversi interlocutori se talvolta furono aspri negli argomenti che esponevano, nondimeno si mostrarono in ogni momento rispettosi nella forma con cui a lui si rivolgevano, ad eccezione di Farinacci il quale ad un certo punto l’investì virulento rimproverandogli di aver tradito il fascismo e di considerare il governo come un affare di famiglia e, in particolare, censurandolo mordacemente per i criteri seguiti in talune nomine dell’ultima ricomposizione del ministero. E fu rivolgendosi a lui che Mussolini disse, anzi quasi mormorò, con accento di amarezza: «Durante il ventennio mi si è parlato sempre con tono differente!» [...]
Ogni tanto, ma non frequentemente, Mussolini interrompeva o per contestare o per chiarire con brevi parole qualche particolarità asserita dagli oratori, ovvero per confutare un po’ più ampiamente talune loro enunciazioni; ma quegli interventi furono ognora stentati e quasi timidi399.
Durante la seduta, tutti i gerarchi rimasero sorpresi dal contegno del duce, che apparve non solo sofferente per il suo male fisico, che lo affliggeva dalla fine del 1942, ma dominato da una sorta di abulia, tanto da non contrastare efficacemente la sfida al suo potere condotta non solo dai promotori dell’ordine del giorno Grandi, ma anche dai gerarchi che ad esso si opponevano. Gli argomenti non gli sarebbero certo mancati. Per esempio, dal momento che aveva già in mente di proporre al re una mutazione nella composizione del suo governo, rinunciando ai dicasteri militari e persino al comando supremo, avrebbe potuto esporre chiaramente in Gran Consiglio questa soluzione, che certamente avrebbe condizionato gli incerti, gli indecisi o i perplessi, che non erano una minoranza fra i gerarchi, almeno fino al momento in cui la seduta fu sospesa verso le 23.
Inoltre il duce, dopo la sua deprimente relazione sulla situazione militare dell’Italia, riprendendo il quesito posto nel suo primo intervento – «Guerra o pace?» –, avrebbe potuto mettere gli oppositori di fronte al rischio di esautorare l’unica persona che avrebbe potuto convincere Hitler ad accettare un’uscita dell’Italia dalla guerra, per l’impossibilità di proseguirla con mezzi e armi adeguati che neppure l’alleato tedesco poteva più fornire. Oppure, avrebbe potuto insistere sul dilemma della sua personale dignità, cioè di dover rinunciare anche al comando politico e considerare finito il suo compito, qualora il re avesse accolto l’invito a riassumere il comando militare: dai racconti dei presenti, risulta che fu quello effettivamente il momento in cui vacillarono le adesioni dei meno risoluti fra i sostenitori dell’iniziativa di Grandi.
Secondo il racconto di Grandi, nel suo ultimo intervento, Mussolini avrebbe lanciato un ammonimento:
Tra pochi giorni io avrò sessant’anni, e potrei anche chiudere questa «bella avventura» che è stata la mia vita. Senonché noi vinceremo la guerra. La mia fiducia nella vittoria della Germania e nostra è oggi intatta, così come lo era all’inizio della guerra. Io non intendo rivelare al Gran Consiglio (forse l’avrei fatto se la discussione avesse preso corso diverso) gli importanti segreti di carattere militare, che al Führer e a me non fanno dubitare un solo momento della vittoria. È prossimo il giorno nel quale i nostri nemici saranno inesorabilmente schiacciati. Io ho in mano la chiave per risolvere la guerra. Ma non vi dirò quale. Ora, in questa situazione, è la fine del regime che si vuole. Ebbene, fate molta attenzione, signori, a quello che fate e alle conseguenze. L’ordine del giorno Grandi pone la questione della esistenza stessa del regime. Esso non si dirige al governo e chiama direttamente in causa la Corona, il Re. In altre parole esso domanda che io me ne vada. Ebbene il Re può accettare l’invito dell’ordine del giorno Grandi e allora nascerebbe il mio caso personale, il caso Mussolini. Io non sono disposto a farmi jugulare (qui Mussolini fece un gesto come di tagliarsi la gola).
Il Re, del quale sono stato per venti anni il servitore fedele, può dirmi, quando gli racconterò domani quello che è avvenuto stanotte (come egli certamente mi dirà): «La guerra è pervenuta ad una fase critica. I vostri vi hanno abbandonato. Ma il Re, che vi è stato sempre vicino, rimane con voi». Questo sono certo che mi dirà il Re. E allora quale sarà la vostra posizione? Fate attenzione, signori!400
Secondo Grandi, se Mussolini avesse insistito sulla linea dell’ammonimento, avrebbe potuto influenzare a suo vantaggio l’orientamento del Gran Consiglio, perché le sue parole, pronunciate «con tono studiatamente pacato, senza mostrare irritazione e inquietudine, con certezza, con sicurezza e dall’alto, quasi rattristato di dover constatare la pochezza degli uomini che gli stavano di fronte, quasi volesse apparire come Cristo all’ultima cena», scossero molti e fecero riguadagnare al duce «di colpo tutto quello che sembrava aver prima perduto. [...] Egli era ancora, malgrado tutto, il mago e il padrone». Grandi ha raccontato di aver reagito di scatto all’ammonimento del duce, gridando: «Questo è un ricatto. Il Duce ci ha posto un dilemma, quello di scegliere tra la nostra fedeltà a lui e la nostra fedeltà alla patria. Ebbene, gli rispondo, non si può esitare un solo istante, quando si tratta della patria».
Ma a sostegno del duce giunse subito l’intervento di Scorza, la cui autorità, come segretario del partito, «è la più alta di tutte, dopo quella del Duce», precisava Grandi nel suo racconto, contraddicendo quanto lui stesso affermava di aver detto in Gran Consiglio nel suo ultimo intervento, nel quale aveva negato a Scorza il diritto di «parlare qui a nome del partito. Qui tu non sei altro, come tutti noi, che un membro del Gran Consiglio»401. Grandi comunque osservava che se Mussolini avesse apertamente sostenuto la posizione del segretario del partito, facendo suo l’ordine del giorno presentato da Scorza, che il duce stesso aveva concepito o comunque approvato, l’esito della seduta avrebbe potuto essere diverso. Rievocando il discorso di Scorza e il suo effetto, Grandi racconta: «La partita appare perduta. Federzoni, Bottai, De Marsico che sono di fronte a me mi guardano. Questo dicono i loro occhi: È perduta»402.
Una più risoluta opposizione del duce all’ordine del giorno Grandi avrebbe certamente influito sul voto di gran parte dei gerarchi che partecipavano per la prima volta al Gran Consiglio o su coloro che avevano dato un’adesione di massima, non pienamente convinta. Nel suo racconto sul 25 luglio, De Stefani ha confermato che il dilemma posto dal duce e persino «la sua passività silenziosa e abbattuta rendeva titubanti tutti davanti al sommo gerarca i fedeli gregari di tante battaglie e di tante vittorie. Noi dovevamo difenderci contro noi stessi, contro l’imperativo della fedeltà, contro la prepotenza del sentimento sulla ragione»:
Ci fu un momento in cui questa esitazione ci aveva preso un po’ tutti. Un senso di rispetto, radicato e inestirpabile. La proposta di far confluire l’ordine del giorno Grandi in quello del Segretario del partito ci tentava. Vi fu un istante di equilibrio instabile della coscienza del Gran Consiglio, che avrebbe potuto farci precipitare in una decisione di compromesso che avrebbe lasciato le cose al punto in cui erano e ci avrebbe allontanato dagli scopi che ci proponevamo di raggiungere403.
Analoghe considerazioni fece nelle sue memorie Acerbo, affermando che quando il duce, «riprendendo in esame la mozione Grandi, espresse il convincimento che la questione in essa posta andava al di là della semplice sostituzione nell’ufficio del comando supremo; e dalle sue parole, pur pronunciate senza energia e fermezza, trapelava chiaramente un monito di diffida e di minaccia»; quell’«estremo tentativo di scompaginare la massa di ostilità che si era formata contro di lui non rimase senza effetto»: infatti i «sintomi di resipiscenza dell’ultim’ora, sia pur limitati e indecisi, e la tardiva ostentazione di combattività da parte dei ‘fedelissimi’ [...] lasciano supporre che se Mussolini avesse avuto la possibilità, diciamo psichico-fisica, di riarmarsi dell’antico contegno aggressivo e risoluto, e sviluppare come altre volte gli artifizi della sua stringente dialettica, con l’ascendente di cui godeva anc...

Indice dei contenuti

  1. Prologo. Rashōmon a Palazzo Venezia
  2. Capitolo primo. Fatti in cronaca
  3. Capitolo secondo. Il verbale che non c’è
  4. Capitolo terzo. Il regime del duce
  5. Capitolo quarto. Ai tuoi ordini, duce
  6. Capitolo quinto. I tirannicidi del 25 luglio
  7. Capitolo sesto. Prova di Gran Consiglio
  8. Capitolo settimo. Gioco grosso
  9. Capitolo ottavo. L’incognita del Gran Consiglio
  10. Epilogo. Eutanasia del duce
  11. Ringraziamenti