Il libro delle foreste scolpite
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Il libro delle foreste scolpite

In viaggio tra gli alberi a duemila metri

  1. 204 pagine
  2. Italian
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Il libro delle foreste scolpite

In viaggio tra gli alberi a duemila metri

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Informazioni sul libro

Il libro delle foreste scolpite è un viaggio nel tempo alla scoperta di sé scandagliando quei luoghi dove le conifere resistono alle avversità d'un ambiente estremo e d'una terra rocciosa, là dove il resto dei viventi ha smesso di sopravvivere. Lariceti, pinete e cembrete dispersi lungo l'arco alpino, ma anche le cortecce contorte dei pini loricati che abitano le creste del Massiccio del Pollino, fra Calabria e Basilicata. E, infine, i pini longevi o Bristlecone Pines sulle Montagne Bianche in California, gli esemplari più antichi del pianeta (oltre 5000 anni). Un viaggio in paesaggi lunari dove la vita cerca a suo modo la strada per l'eternità. Luoghi dove l'anima si riveste di radici, di sogni, d'immaginazione.

Un percorso da compiere in silenzio, con stupore e ammirazione e con animo disposto alla contemplazione e al rispetto, perché si ha l'impressione di passeggiare in un Eden. Carlo Grande, "La Stampa"

Ogni volta che un camminatore attraversa una foresta scolpita è come se inventasse un continente che non c'è.

Guarda l'album di foto che arricchisce il volume: 84 scatti in bianco e nero di Tiziano Fratus

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858133934

1. Pollino: ovvero dove abitano
gli dei dell’Olimpo sotto forma di alberi contorti

Reclamo che il mio peso
sia valutato in radici

1. Attraverso la Basilicata: dai calanchi di Aliano ai boschi di Rotonda

La finestra che c’è accanto al mio computer dà sull’ultimo segmento di pianura. Dalla parte opposta della casa la finestra inquadra le montagne: sono le Alpi. Amo guardare la pianura, soprattutto quando un temporale sta ruggendo sopra Torino, che vedo e sento laggiù, dove le linee orizzontali sono più consce di quel che sono. La bellezza della pianura è che vedi il tempo prima che arrivi, di lontano: sopra la linea degli alberi e dei campi si ammassano le nuvole scure e si disegna la tela fibrosa della pioggia. Vedi il sole che buca e si getta in basso come in un quadro del Rinascimento. Vedi il fulmine che si radica nel cielo e piomba a terra, prima che il fracasso sfondi la distanza e saturi la percezione. Vedi la luna rincorrere le ombre e tentare di accarezzarle al collo, di costringerle a scivolare sotto i sassi, di sfumare sotto i tetti, d’inarcarsi sotto la radice d’una chiesa. Le prede devono fare gamba e macinare più terra nelle notti di luna piena in pianura, se vogliono salvare la pelle. È molto più agile nascondersi dietro una pietra in montagna, dentro un bosco, nei muri crollati d’un’abitazione disarmata. Da bambino mi sono abituato ad amare la pianura perché riuscivo a distinguere le cime dei pioppi cresciuti lungo le strade accanto alle rogge, perché mi piaceva – e mi piace tuttora – guardare lontano. Forse è per questo che il Dio di tutte le creature mi ha fatto diventare quel che sono, orsifero, ben piantato sui piedi, spalle larghe, mani sui fianchi, sguardo che fiuta l’orizzonte.
Quante volte mi sono imbattuto nel suggerimento di andare ad ammirare i pini loricati del Pollino! Mi guardo intorno e conto almeno una ventina di libri che citano, elogiano, talvolta ne mostrano vecchie fotografie sbiadite o sgranate. Su Internet raccolgo molte informazioni. Eppure non esiste un libro, quantomeno non un libro di largo consumo, che possa rendere conto con esattezza di quel che il cercatore d’alberi secolari potrebbe andare a incontrare. Le informazioni sui luoghi, sulla dislocazione delle popolazioni più spettacolari e numerose, un elenco di grandi alberi da scegliere fra le migliaia custoditi, nulla. Decido di andare sul Pollino a fare una campagna d’alberografie. Mi si presenta l’occasione quando vengo invitato al festival «La luna e i Calanchi», ad Aliano, in Basilicata, la manifestazione diretta da Franco Arminio. Passerò due o tre giorni ad Aliano e poi mi sposterò sul Pollino, prima di salire verso il Parco Nazionale d’Abruzzo dove mi attende una passeggiata. I giorni ci sono. Mando una email al Parco per vedere se riesco a meritare un’accoglienza simile a quella che anni fa ho ricevuto in Sila. Mentre calo in Basilicata mi arriva la risposta, e una telefonata dall’ufficio stampa della riserva. Nel mentre, scambio qualche email con una guida di cui avevo già visto il lavoro su un sito, Giuseppe Cosenza, Viaggiare nel Pollino. Alla fine ottengo l’assistenza del parco per le visite in quota e l’ospitalità in una casa. Resterò cinque giorni. Come al solito, il tempo corre e fatico a inseguirlo.
Arrivare di notte nel cuore della Lucania è come uscire dal mondo conosciuto per inoltrarsi in un luogo creato con tutto quel che è stato dimenticato o disatteso. Si assiste ad un teatro nostalgico. Racimolando i fili si abbandona il caos controllato delle autostrade campane dove motociclisti improvvisati sfrecciano a duecento all’ora sulla corsia di sorpasso, a schiene annudate. Scompaiono gli eucalitti che stanno prendendo possesso dei Meridioni e si presenta il buio. In sessanta chilometri incrocio poche automobili, i limiti di velocità sono sistematicamente disattesi, tranne che dal sottoscritto. Non un animale a bordo strada, nessun paio di occhi ricoperto di acciaio inox. Ma cosa c’è lì fuori? Cosa esiste oltre la mezzaluna illuminata dai fari? Buio che figlia altro buio. Così doveva apparire il mondo prima che l’umanità inventasse e propagasse la luce elettrica. Curve, indicazioni per Aliano, i primi crolli di materia che qui chiamano calanchi, salite, e il nido di macchine, di persone appiedate, di suoni e chiacchiericci, di fumi di carne alla brace e risate, la musica. Il giorno dopo vedrò un paese diverso, la copia carbonata dalla luce è fatta di spazi che scappano via, di uliveti che sembrano mari in movimento, di quel mondo di sabbie immobili che decora il mondo intorno. I paesi sono nidi quaggiù, abitati come Aliano, o disabitati e dimenticati come Craco. Li rivedrò anche in Molise, dove le strade scorrono lungo strette vallate e gli abitati antichi sono cresciuti a lato, sulle cime, come se ci fosse un arcano timore di venir, prima o poi, invasi dalle acque del mare salato. Il giorno dopo conduco la mia passeggiata per cercatori di alberi, vendo un po’ di libri e mangio in compagnia di poeti e artisti romagnoli che, come spesso capita nel nostro panorama umano, risollevano le sorti della piacevolezza. Una di questi artisti diventa anche un’amica. Espone nidi, trovo la sua ricerca autentica e piena di poesia. Si chiama Maria Cristina Ballestracci, lavora con i “relitti” che trova – in spiaggia come omaggio alle maree, nei boschi, in altri luoghi –, spesso li abbina alle parole. La mia gratitudine si fa cocente.
Ad Aliano, oltre a rifarmi gli occhi, visito la piccola abitazione dove visse in confino Carlo Levi. Qui scrisse parte del suo romanzo più conosciuto, Cristo si è fermato a Eboli. Tre stanze. Una scala che punta al cielo. Un camino minuto. Forse mai acceso. Mi hanno detto che però d’inverno capita che nevichi, che l’intero paesaggio calanchiano si ricopra di silenzio, un silenzio diverso da quello solito: un silenzio di ghiacci, non un silenzio di sabbie. A due curve dal ponte che conduce al paese incontro una coppia di ulivi che crescendo si distanziano l’uno dall’altro: li ribattezzo «Gli Sposi», «Lo Sposo e la Sposa». Riparto. Lungo la strada trovo le indicazioni per Craco. La strada che sale è tutta una buca. Le rotabili laterali mettono a dura prova le sospensioni delle automobili. Un signore col figlio gira nel parcheggio in bicicletta, mi dice che c’è un ufficio vicino alle prime case dove chiedere il pass per accedere al paese dimenticato. Si paga una tassa e si viene accompagnati, per motivi di sicurezza. Non mi interessa, non oggi almeno, andare a vedere i muri scrostati. Le pareti sfondate. Preferisco osservare da lontano. Il cielo è luminoso. La luce profonda. Sembra una rocca bombardata al tempo della guerra. Invece è soltanto abbandonata dopo un terremoto.
Matera, i famosi Sassi dove Pier Paolo Pasolini nel 1964 ha girato lo splendente Vangelo secondo Matteo. Fra le comparse figuravano scrittori e poeti, come Alfonso Gatto, Giorgio Agamben, Natalia Ginzburg, Rodolfo Wilcock, Enzo Siciliano. Per vivere certe esperienze ci vanno i poeti, o almeno i poeti d’un tempo. I Sassi sono il quartiere antico, il resto di Matera è nuovo e, come spesso capita alle città sorte di recente, senza particolari bellezze. Parcheggio lungo la strada che accompagna nel quartiere. Oltre la balaustra c’è un canyon che va a sbattere contro la base dello spiazzo sul quale è stata costruita la chiesa. Purtroppo i Sassi sono diventati un business. Si vende qualsiasi cosa. Anch’io mi metto a rovistare fra le cartoline e le foto che un venditore ambulante, accanto alla chiesa, mi mette in mano. Foto in bianco e nero d’inizio Novecento, quando Matera era diversa da oggi: le grotte-casa, la gente che viveva con l’umidità nelle giunture e i bambini che spesso avevano un asino per fratello. Le strade improponibili. Una povertà smaccata. Miseria nera. Qualche immagine dal film di Pasolini, un ritratto di Levi che qui è venuto in visita. Le stesse cose da almeno mezzo secolo. Trovo un libro che acquisto senza pensarci due volte: uno splendido, irresistibile U Vangèle chendate da le quattre vangeliste: Matté, Marche, Luche e Giuanne. L’adoro immediatamente. Luigi Canonico ha tradotto il vangelo in vernacolo barese. Edizione autoprodotta. Già la nota al termine dell’introduzione merita: «Na parole do cudde c’ha fatte u libbre». Potete richiederlo, se vi interessa: l’email è [email protected]. L’ho pagato dieci euro, 346 pp., con vocabolario in appendice. Visito una chiesa rupestre, scavata con pazienza copta nella pietra, alle pareti si trovano figure smozzicate e scritte in greco sbiadite. I secoli sono passati. Un santo pantocratore mi fissa a occhi spalancati. Inevitabilmente ripenso ai mosaici di Ravenna. Mi nutro di luce riflessa, i sassi amplificano. Parto per Rotonda, paese che ospita la sede del Parco Nazionale del Pollino.
Lungo la strada costeggio un immenso lago artificiale. L’acqua è azzurra, limpida, poi la strada sfocia in una valle e si devia, inizio ad arrampicarmi nella selva. Supero gli abitati di Castelluccio Superiore e Castelluccio Inferiore, quindi Rotonda. Giuseppe Cosenza è simpatico, semplice, diretto. E dotato di uno spiccato sense of humor. Mi accompagna ad una casa, non ci abita più, ora vive nel paese vicino, a Licari, con la moglie e il figlio e una quercia monumentale nel giardino. Tre cani ci aspettano. Hanno fame. Sulla pelle diverse ecchimosi: le zanzare tigre colpiscono selvaggiamente all’alba e ancor più al tramonto. Mi sistemo e cucino le poche cose comprate in un ipermercato su in centro. La notte cresce e ingurgita l’abitazione, la strada, l’intero paese. Dentro questa notte affamata c’è una flebile luce che fluttua da una finestra, e dietro quella finestra ci sono io seduto al tavolo che scrivo le impressioni su un quaderno cucito a mano. Dopo le undici accade qualcosa di inatteso. Ad un certo punto sento ululare. I cani si muovono e si incendia un lungo ululato corale, che dura parecchi secondi. Smettono e sento altre bestie allontanarsi. Nonostante la differenza evolutiva fra il cane lupo e il cane addomesticato la radice comune resta. Accade anche più tardi. Ricordo la piacevole lettura di un saggio di Konrad Lorenz, E l’uomo incontrò il cane (1950). La teoria, negli uomini semplici, coincide con la pratica e l’esperienza.

2. Studio preliminare sul pino loricato

La mattina dopo incontro il presidente dell’Ente Parco del Pollino. La sede è alle porte di Rotonda. Edificio grande, uffici, gente che entra e gente che esce. Si chiama Annibale Formica. Fra pochi mesi raggiungerà l’agognata pensione. È un uomo gentile, dedito agli incontri con ministri, dirigenti, appassionato di convegni e pubblicazioni locali che ha curato e di cui mi fa omaggio. Mette a disposizione i mezzi del Parco per accompagnarmi in visita. Mi affianca una guida, un uomo cordiale, Carmelo. Modesto nei comportamenti, e questo – credo – ci avvicina.
Il Parco Nazionale è stato istituito nel 1988. Il Massiccio del Pollino domina il confine fra Basilicata e Calabria. Presenta cinque creste che superano quota duemila: Serra Dolcedorme (2267 m), Pollino (2248 m), Serra del Prete (2181 m), Serra delle Ciavole (2130 m), Serra di Crispo (2054 m). L’Ente Parco ha il compito di tutelare una delle bellezze naturali più straordinarie della botanica continentale: le colonie di pino loricato presenti sulle diverse creste e pianori. Su alcune di queste – lo stesso Monte Pollino, Serra del Prete, Serra delle Ciavole, Serra di Crispo – s’incontrano le popolazioni residue più diffuse, come sull’adiacente Orsomarso. La specie, Pinus leucodermis, ovvero pino dalla corteccia bianca, è presente in diverse zone della vecchia Europa: sui Balcani in Bosnia, Macedonia, Serbia e Montenegro, sui Monti Pirin in Bulgaria (dove c’è il Pino di Baikushev, 24 m di altezza e circonferenza tronco apd 7,8 m, 1300 anni, proposto da alcuni come l’esemplare più annoso) e sul Monte Olimpo in Grecia, dove è stata studiata negli anni Sessanta dell’Ottocento. Ha varie nomenclature, le più diffuse delle quali sono Pinus heldreichii subsp. leucodermis, Pinus laricio var. heldreichii, Pinus laricio var. pindica, Pinus nigra var. leucodermis. La specie viene scoperta nel 1826 dal botanico napoletano Michele Tenore, che al tempo la classifica con una specie già esistente; la sua unicità è individuata contemporaneamente e indipendentemente da due botanici fra il 1863 e il 1864: lo svizzero Konrad Hermann Christ e l’austriaco Franz Antoine. Il nome volgare oggi diffuso, pino loricato, è proposto nel 1905 da uno dei più attenti studiosi della specie, il professore Biagio Longo, che ravvisa una similitudine geometrica fra le placche che costituivano la lorica squamata, cioè il corpetto metallico dei legionari romani, e la forma della corteccia di questi pini maestosi e contorti. In lingua inglese è chiamato Bosnian Pine. Una lettura interessante è il saggio Breve storia del Pino Loricato e della Bramea Europea di Giuseppe Padula, che si può trovare in Internet nel sito Old.basilicatanet.it. Al museo del Parco mi viene regalata una copia dell’unico libro a disposizione sull’argomento: Il pino loricato (1996) di Silvano Avolio, direttore della sezione cosentina dell’Istituto Sperimentale per la Selvicoltura. In questo libro ci sono le immagini di Zi Peppu – o meglio, di ciò che ne resta – il grande pino bruciato il 19 ottobre 1993 sopra le Porte del Pollino. L’albero troneggiava con la sua mole e chioma, poi s’è accasciato e ne resta, come constateremo, un groviglio di legni spenti.
Lo studio specifico degli esemplari più grandi e più annosi di pino loricato s’è rinfocolato nel tempo; attualmente si stanno iniziando a tirare le fila dei dati raccolti e delle perforazioni eseguite da diversi esperti e appassionati. Il più annoso pare essere il Patriarca, l’albero presente sull’anticima del Pollino, con quasi mille anni d’età, comprovata da un carotaggio effettuato nel 1989 che ha rilevato la presenza di 963 anelli. L’area più spettacolare è stata ribattezzata da una guida del Parco, Giorgio Braschi, il Giardino degli Dei: mai nome fu più adatto a indicare la meraviglia d’un bosco! In queste foreste relitte, sopravvissute alle condizioni più sfavorevoli, si sono deformati alcuni degli alberi più impressionanti del nostro paesaggio arboreo monumentale. Nella nostra martoriata Italia non manca niente, questo luogo si colloca in cima alle mie personali preferenze. Qui le vostre lingue, i vostri occhi, le vostre mani, cari Uomini e Donne Radice, potranno affondare e radicare, qui potrete ammirare quanto selvaggia possa essere Madre Natura a poche ore di viaggio dalla civiltà. Ci troviamo al cospetto di veri e propri pinosàuri e alberi-elefante: la loro memoria è lunga, plurisecolare; alcuni di essi sono vivi, altri spenti, altri ancora abbracciano entrambe le dimensioni.
Fitomigrazione e paleoendemita: vi siete mai imbattuti in queste parole? La teoria più diffusa propone che la specie sia migrata durante una delle ultime glaciazioni, nel periodo in cui le acque del mare si erano talmente abbassate da creare un corridoio naturale fra Balcani e Pollino. Parlando con le guide del Parco ho percepito un certo scetticismo al proposito, come a ribadire che questa specie sia autoctona, sebbene imparentata con quella presente altrove. Non ho avuto modo di visitare le altre colonie sparse nel continente, ma pare che non ne esistano di paragonabili. È un argomento da approfondire. Il paleoendemismo è un fenomeno che riguarda le specie che si trovano in luoghi nei quali il clima è in stato di rapido mutamento. Questo cambiamento, dovuto all’evoluzione del pianeta o all’azione esterna dell’uomo, porta alcuni areali ad assottigliarsi e ciò che noi incontriamo è quel che resta di una popolazione un tempo distribuita su territori più vasti. È il caso dei pini loricati, la cui diffusione si sta riducendo, anche perché il faggio sta risalendo e tocca quota duemila sul Massiccio del Pollino, mentre sulle Alpi si ferma a 1600/1700 m. Si considerava paleoendemita anche la sequoia gigante, che secondo i primi studiosi era diffusa sull’intero arco montano californiano, ma già John Muir, la grande anima di Yosemite, nella relazione presentata ad un convegno sulla storia post-glaciale della sequoia gigante, svoltosi a Buffalo nel 1876 (On the Post-glacial History of Sequoia Gigantea), dimostrava le sue molte qualità, a cominciare da uno sguardo pro...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Non c’è luce nitida e profonda quanto quella che vediamo a occhi chiusi
  2. 1. Pollino: ovvero dove abitano gli dei dell’Olimpo sotto forma di alberi contorti
  3. 2. Le foreste della Valle d’Aosta: ovvero un boomerang di pinete e lariceti a Nord-Ovest
  4. 3. Sonata per pini cembri: ovvero a scandaglio nelle lande alpine dove la specie disegna i propri capolavori
  5. 4. Geografie inchiostrali: ovvero di letture e riferimenti cari al cercatore di foreste scolpite
  6. 5. L’eternità sulle Montagne Bianche della California: ovvero dove le cortecce giocano a scacchi con la Dama Nera
  7. 6. Foreste d’alberi-elefante in giro per il globo: ovvero luoghi dove cardare l’anima
  8. Epilogo di un Uomo Radice
  9. Bibliografia radicale