Capitolo 1.
Le italiane all’alba del XX secolo
Nella sua inchiesta del 1902 sul numero crescente di laureate in Italia, Vittore Ravà le descriveva come una «numerosa e forte falange che si avanza [...] e si prepara a combattere battaglie nel campo economico e sociale». Ravà non fu certo l’unico osservatore dell’epoca a percepire cambiamenti nell’aria per le donne italiane. All’alba del XX secolo sempre più ragazze ricevevano un’istruzione e alcune donne si affermavano nella sfera pubblica distinguendosi in campi quali l’insegnamento, la letteratura e la medicina. Le donne dei ceti superiori cominciavano ad avventurarsi fuori dalle pareti domestiche. Un piccolo ma determinato e tutt’altro che insignificante movimento femminista conduceva campagne in favore di una riforma giuridica e tentava di mettere in discussione, o almeno riconsiderare, alcune idee diffuse sul ruolo della donna nella società.
Fu anche un’epoca di grandi cambiamenti che interessarono molte donne, comprese quelle al di fuori dell’élite istruita. L’ultimo decennio dell’Ottocento fu caratterizzato da una rapida crescita industriale nel Nord, che contribuì ad accelerare l’esodo dalle campagne verso le città. Il tasso di natalità cominciava ad abbassarsi in alcune regioni, l’aspettativa di vita si allungava con la continua diminuzione del tasso di mortalità e, sebbene l’Italia presentasse il tasso di emigrazione più elevato d’Europa, la popolazione era in crescita (25 milioni nel 1861, 33 milioni nel 1901 e 37 milioni nel 1921). Un giovane e vigoroso movimento socialista, se pur diviso e litigioso, era attivo in numerose regioni dell’Italia urbana e rurale. Il primato della Chiesa cattolica nel definire i valori sociali e morali veniva messo in discussione da un gruppo di nuovi scienziati sociali.
Il cambiamento era però disomogeneo, e per milioni di donne fu limitato. L’inchiesta di Ravà individuò, all’inizio del secolo, soltanto 224 donne in possesso di una laurea conferita dalle università dello Stato unificato. Le divisioni di genere erano ancora ampie e i due sessi conducevano esistenze molto diverse e spesso separate. La condizione giuridica, economica e sociale delle donne era per molti versi inferiore a quella degli uomini. Escluse dal voto e dai pubblici impieghi in ragione del loro sesso e, soprattutto se sposate, prive di molti diritti giuridici riconosciuti agli uomini, le donne italiane non erano ancora cittadine attive.
Il fatto che l’Italia fosse ancora una società a carattere prevalentemente regionale, con uno scarso senso di identità nazionale e un sistema politico mal funzionante e solo in parte democratico, aveva una profonda influenza sulla vita delle donne. Lo sviluppo economico variava notevolmente da regione a regione, così come i costumi sociali e le credenze culturali. Ovunque esistevano grandi disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza e ampi divari sociali. I contadini, la maggior parte dei quali viveva in condizioni di estrema povertà, rappresentavano la più vasta categoria occupazionale. Nonostante l’antagonismo tra la Chiesa e lo Stato creato dall’unificazione nazionale, la Chiesa cattolica continuava a esercitare una grande influenza sulla società, in particolare sulle questioni morali riguardanti la famiglia, la sessualità e i ruoli di genere.
L’inferiorità della donna era una convinzione assai diffusa. Molti consideravano le donne esseri deboli ed emotivi, poco adatti all’interazione con il duro mondo esterno. Veniva dato grande risalto alla loro condotta sessuale. Nell’Italia meridionale (ma in certa misura anche in alcune zone rurali del Nord), il concetto dell’«onore» era estremamente importante. Nel «codice d’onore» il prestigio sociale di una famiglia, soprattutto dei maschi della famiglia, poteva essere compromesso dall’«immoralità sessuale» della parentela femminile. Questo codice morale condonava l’omicidio delle donne colpevoli di trasgressioni sessuali da parte di padri, mariti e fratelli. Se si veniva a sapere che una donna nubile aveva perso la verginità, ciò era considerato prova della debolezza dei familiari maschi, una dimostrazione della loro incapacità di proteggerla o controllarla in modo adeguato. In questo sistema il «matrimonio riparatore» poteva restituire l’onore alla famiglia, ma a volte ciò significava che una donna era costretta a sposare il proprio stupratore. Pur ponendo un forte accento sulla verginità delle donne nubili e sulla fedeltà di quelle coniugate, e considerando essenzialmente negativa la sessualità femminile, il codice d’onore si differenziava dalla moralità cattolica. Come ha fatto notare Margherita Pelaja, la differenza emergeva «soprattutto per l’enfasi sulla pubblicità, sul foro esterno della fama piuttosto che su quello interno della coscienza, e per la violenza del doppio standard tra uomini e donne, per la divaricazione cioè tra le prerogative maschili di conquista sessuale e gli obblighi femminili alla purezza e alla castità». La Chiesa cattolica considerava invece tutto il piacere sessuale, per entrambi i sessi, potenzialmente peccaminoso. Inoltre nel codice d’onore non vi era spazio per l’azione purificatrice del pentimento e del perdono.
Praticamente tutti gli italiani erano cattolici, almeno nominalmente, e per la grande maggioranza il credo religioso e la pratica religiosa rappresentavano aspetti importanti della vita quotidiana. Nonostante l’aspro conflitto tra Chiesa e Stato che aveva seguito l’unificazione e l’emergere del movimento socialista (perlopiù antireligioso), la Chiesa conservava una forte presa sulla società. Svolgeva un ruolo importante nell’educazione e nell’assistenza sociale, e l’influenza esercitata dal clero, attraverso la predicazione e il confessionale, era enormemente rafforzata dagli alti livelli di analfabetismo, che conferivano ai preti un monopolio quasi assoluto dell’informazione nei riguardi di alcune categorie della popolazione, in particolare le donne e la gente di campagna.
Si percepivano tuttavia segnali di cambiamento. Anche se non sono disponibili vere e proprie statistiche sulle presenze in chiesa in questo periodo, è evidente che, sebbene l’osservanza dei precetti religiosi fosse ancora forte in campagna, nelle zone industrializzate e urbane andava scemando. Questa tendenza si differenziava però in base al sesso. Come ha osservato John Pollard, in alcune zone «gli uomini accompagnavano le mogli a Messa, ma rimanevano all’esterno della chiesa a conversare con i compagni finché non era terminata». La situazione variava anche a livello regionale. Gli italiani del Nord, in particolare nelle zone rurali, erano più propensi a seguire la dottrina del cattolicesimo ufficiale, stabilita dal Vaticano, e le reti parrocchiali erano forti. Al Sud, per contro, le credenze precristiane, pagane e superstiziose rimanevano assai diffuse, ed era tutt’altro che insolito credere contemporaneamente a Gesù e a forme di magia popolare come il malocchio. In tutte le regioni rurali d’Italia, ma soprattutto nel Meridione, il cattolicesimo popolare dava grande risalto a eventi quali le processioni e le festività dedicate ai santi, specialmente i santi patroni.
La Chiesa si opponeva energicamente al divorzio, considerava gli uomini superiori per natura e riteneva che la disuguaglianza tra i sessi nel matrimonio fosse essenziale per il suo funzionamento nella quotidianità. Vedeva la maternità come il ruolo primario delle donne e osteggiava l’emancipazione femminile e l’occupazione al di fuori delle pareti domestiche. L’esposizione più completa degli enunciati del Vaticano sul matrimonio e sulla famiglia è fornita dalla lettera enciclica Casti Connubii del 1930, ma tali idee si possono trovare anche in diversi altri pronunciamenti papali di fine Ottocento. Secondo la Casti Connubii, le coppie sposate dovevano sì amarsi, ma soltanto nell’ambito della piena accettazione di una gerarchia di genere all’interno della famiglia. L’enciclica predicava «da una parte la superiorità del marito sopra la moglie e i figli, e dall’altra la pronta soggezione e ubbidienza della moglie». L’emancipazione femminile veniva liquidata come «falsa libertà e innaturale eguaglianza con l’uomo».
Sarebbe comunque un errore attribuire alla Chiesa una posizione eterna e immutabile, perché persino la Chiesa stava cambiando. La venerazione della maternità, soprattutto la maternità verginale del culto mariano, era particolarmente sentita in questo periodo e sempre più donne venivano dichiarate sante, come Rita da Cascia (Margherita Lotti), una monaca del Quattrocento canonizzata da Leone XIII nel 1900. Tutto ciò aveva la capacità di esaltare le attrattive del cattolicesimo tra le donne. Inoltre, alla fine del secolo, il discorso cattolico che dipingeva la madre ideale come una creatura silenziosa, paziente e capace della massima abnegazione, popolare a metà dell’Ottocento, stava cedendo il posto a un modello più attivo. Alle madri cattoliche veniva affidato il compito di arginare la marea montante della secolarizzazione provocata dalla Rivoluzione francese e di arrestare l’avanzata del socialismo ateo. Le madri erano chiamate a svolgere un ruolo attivo nell’educazione religiosa dei figli e a...