1. La letteratura di genere francese
Come si è visto, uno dei tratti distintivi degli anni Sessanta in Francia è l’accelerazione del processo di modernizzazione accompagnata dalla paura che il paese si stia americanizzando troppo. Come in America, anche in Francia l’espansione economica dei Trenta gloriosi ha portato a una maggiore importanza assunta dai giovani. Del resto, allo scoccare del decennio decisivo, lo storico Philippe Ariès (1914-1984) aveva concluso il suo celebre libro sulla storia del sentimento dell’infanzia (L’Enfant et la vie familiale sous l’Ancien Régime, 1960, tradotto in italiano col titolo Padri e figli nell’Europa medievale e moderna) con una profezia: come l’infanzia era stata l’età chiave nell’Ottocento, così il nuovo mondo sarebbe appartenuto agli adolescenti.
Questa premessa per dire che, a partire dagli anni Sessanta, nella Francia ossessionata dalla propria equidistanza e autosufficienza, si presenta il problema di essere autosufficienti anche nella produzione di una cultura popolare che possa soddisfare i giovani, prima che la produzione americana colonizzi tutto. Lo chansonnier Boris Vian (autore negli anni Quaranta e Cinquanta di romanzi scandalosi firmati con lo pseudonimo americaneggiante di Vernon Sullivan) e altre figure come quella di Albertine Sarrazin (morta nel ’67, prima francese a mettere per iscritto la sua vita di prostituta e delinquente) vengono ripescati, contribuendo alla costruzione di un corpus controculturale alla francese. In musica nella prima metà degli anni Sessanta si assiste all’ondata del cosiddetto yéyé, attorno a giovani cantanti come Sheila, Sylvie Vartan, Françoise Hardy, ecc. La vitalità delle nuove forme non si esaurisce però nella capacità di soddisfare il pubblico giovane, ma nella possibilità che divengano forme ‘adulte’, cosa che succederà maggiormente a partire dagli anni Settanta.
La forma ‘paraletteraria’ chiave è quella del fumetto. Il fumetto era già da tempo il genere più importante nell’opera di costruzione di baluardi francofoni contro la penetrazione anglosassone. Una legge protezionistica risalente alla fine della Seconda guerra mondiale aveva preparato in pratica il regno ventennale del fumetto belga, il cui maggiore successo era il Tintin di Hergé, un personaggio nato nel 1929. L’importanza della scuola belga è difficile da sottovalutare. Basti pensare che in un sistema culturale come quello francofono, in cui, se vuole, un autore belga o svizzero può benissimo presentarsi come semplicemente francese, il fumetto belga è uno dei pochi fenomeni di successo a non aver perso la sua connotazione nazionale. La vera uscita dall’infanzia del fumetto francofono avviene però prevedibilmente negli anni Sessanta. Nel 1962 esce Barbarella di Jean-Claude Forest. Nel 1968 Roger Vadim ne trae l’omonimo film con Jane Fonda.
La data del ’68 non è al solito casuale. È in quel momento che in Francia (ma non solo in Francia: del 1968 è anche il primo film di George Romero, La notte dei morti viventi, che inaugura la politicizzazione dell’horror) i generi cambiano pubblico. Anche perché lo spirito del ’68 è favorevole alla sperimentazione e alla variazione underground sui generi. Se negli anni Sessanta il luogo classico della sperimentazione erano state le riviste letterarie, negli anni Settanta la mano passerà a un altro genere di riviste. Il mondo delle riviste underground e quello della nuova bande dessinée tendono a coincidere, nel senso che è sulle riviste e sui giornali satirici che si fanno le ossa i nuovi disegnatori. Uno dei primi giornali satirici importanti era stato «Hara-Kiri», nato nel 1960 e proibito nel 1970 per aver ironizzato sulla morte di de Gaulle. Passata una settimana ecco che «Hara-Kiri» già rinasce come «Charlie Hebdo». Secondo una testimonianza del disegnatore Georges Wolinski il «Charlie» del titolo sarebbe stato appunto un riferimento a Charles de Gaulle, ma in realtà pare di no (l’editore di «Charlie Hebdo» aveva già in catalogo un «Charlie» mensile, il cui caporedattore era proprio Wolinski).
Prima di passare alle riviste propriamente di fumetti è necessario fare una precisazione. Non è che all’epoca il fumetto francese fosse propriamente così avanti rispetto ad altri paesi dall’importante tradizione fumettistica, come per esempio l’Italia (una rivista importante come «Linus» era stata fondata già nel 1965; anche in Italia nei secondi anni Settanta sarebbe esplosa l’epoca delle riviste, sulle quali avrebbero pubblicato autori non meno significativi di quelli francesi e spesso più significativi dei narratori italiani loro contemporanei). Italia e Francia avevano però avuto tradizioni molto diverse, condizionate soprattutto dal diverso canale distributivo e dal diverso pubblico di riferimento. L’Italia ha (e si tratta del caso più diffuso) una tradizione di fumetto più popolare: un fumetto venduto nelle edicole, stampato in bianco e nero per contenere i costi, basato su storie seriali affidate di volta in volta a diversi disegnatori. Nel campo delle serie un grosso ruolo è sempre stato svolto dalla Disney Italia, in alcuni periodi una realtà più viva persino della Disney originale. Il fumetto francese (anzi: franco-belga) ha invece una natura non necessariamente seriale, non prevede l’avvicendamento di diversi disegnatori, soprattutto è sempre stato pensato per l’uscita in grandi albi a colori. La cadenza tipica del fumetto francese prevede quindi una sola uscita l’anno, in libreria, in edizioni più costose. Il fumetto in bianco e nero appare in Francia solo negli anni Novanta, sempre allo scopo di contenere i costi ma senza che questo implichi un pubblico più popolare, anzi: il bianco e nero è la risorsa delle nuove piccole case editrici di fumetti ‘alternativi’. Uno degli ultimi maggiori successi internazionali della ‘narrativa’ francese, disegnata e no, è appunto uno di questi nuovi fumetti in bianco e nero: Persepolis dell’iraniana Marjane Satrapi (1969-), uscito a partire dal 2000 presso le edizioni L’Association. La diversità dei percorsi tra Italia e Francia ha avuto importanti ripercussioni: a differenza che in Italia e in molti altri paesi – e già da prima che negli anni Ottanta venisse attuata una politica di valorizzazione di qualsiasi forma artistica fino allora considerata ‘minore’ – in Francia la bande dessinée ha potuto presto diventare un’arte ‘seria’. Non c’è quindi da meravigliarsi se i fumettisti italiani sono sempre stati attirati dal mercato francese, più libero e meno costretto dalla logica delle serie, oltre che economicamente più forte. Andrea Pazienza, Filippo Scozzari e Tanino Liberatore provarono a sbarcare in Francia. Hugo Pratt ci si stabilì. Vittorio Giardino, Lorenzo Mattotti, Igort e Gipi ci lavorano regolarmente e di tanto in tanto ci vivono.
Un’importante rivista francese che, alla fine degli anni Settanta, scommetterà sull’idea di un fumetto in grado di competere con la letteratura sarà «(À suivre)», mensile inaugurato nel 1978 e uscito fino al 1997. Tramontata l’era delle serie, «(À suivre)» promuove i romans graphiques (l’equivalente di ciò che in Italia al solito viene chiamato con una parola inglese: graphic novels). In quel momento la Francia è peraltro all’avanguardia: la prima graphic novel di Will Eisner, A Contract with God, and Other Tenement Stories, viene pubblicata nello stesso anno in cui nasce «(À suivre)».
Ma la rivista francese di fumetti internazionalmente più influente del periodo è un’altra: «Métal Hurlant» (pubblicata dal 1975 al 1987). La premessa della rivista è la costituzione nel 1974 di un gruppo di disegnatori che, appassionati come sono di fantascienza, si scelgono il nome di Les Humanoïdes Associés. Il più famoso del gruppo e poi autore dei contributi alla rivista rimasti più significativi è forse l’unico francese la cui statura di star internazionale possa essere paragonata a quella di Derrida nel periodo coperto da questo volume: Jean Giraud (1938-), meglio conosciuto come Moebius. Moebius in realtà è solo uno degli pseudonomi di Giraud. L’altro (Gir), con cui Giraud ha firmato i fumetti western di Blueberry, rientra maggiormente nella tradizione grafica francofona (Hergé, l’autore di Tintin, si firmava così dalle iniziali del suo cognome e nome: R.G., Remi Georges; l’illustratore art déco di origine russa Erté si chiamava in realtà Romain de Tirtoff: R.T.), ricavato com’è dall’inizio del suo cognome (J.G. – Jijé – essendo già occupato dal fumettista belga Joseph Gillain). La scelta di uno pseudonimo enigmatico come Moebius rompe appunto con questa tradizione, come per segnalare la rottura col sistema del fumetto tradizionale.
Moebius diventerà subito famosissimo grazie alle prime opere pubblicate su «Métal Hurlant», specialmente quelle più sperimentali come il fumetto senza parole Arzach del 1975 («Vorrei essere Arzach…» avrebbe sospirato Fellini) e Le Garage hermétique de Jerry Cornelius (1979). Tra il 1981 e il 1988 collaborerà con Alejandro Jodorowsky (1929-) per la saga più tradizionale L’Incal. La collaborazione tra i due non è da sottovalutare. In questo modo il mondo del fumetto si alleava con l’ultima generazione surrealista. Jodorowsky, cileno di origine, sotto l’influenza surrealista aveva fondato nel 1962 il gruppo Panique insieme all’illustratore (e pittore e scrittore e cineasta, ecc.) Roland Topor (1938-1997) e al drammaturgo spagnolo (ma residente in Francia dal ’55) Fernando Arrabal (1932-). All’inizio degli anni Settanta era stato anche autore di film misticheggianti e surrealisti, diventati subito di culto. Nel ’75 aveva iniziato a lavorare a un adattamento del ciclo di Dune di Frank Herbert, progetto che avrebbe dovuto vedere la partecipazione di Orson Welles, Moebius, i Pink Floyd, i Tangerine Dream e Salvador Dalí nella parte dell’imperatore Shaddam IV. Non se ne farà niente, ma dei materiali si servirà più tardi David Lynch riprendendo il progetto per il suo film meno fortunato.
È difficile sottovalutare l’influenza di Moebius. Solo in Italia, profondamente influenzati da lui saranno disegnatori come Andrea Pazienza, Milo Manara e soprattutto Filippo Scozzari. In generale Moebius ha avuto un ruolo, non solo come fonte di ispirazione ma anche come collaboratore, in molti film di fantascienza dagli anni Ottanta in poi: Blade Runner (1982), Tron della Disney (1982), il già citato Dune di Lynch (1984), fino al Quinto elemento (1997) di Luc Besson.
Esiste in effetti una fantascienza francese, molto influente a livello mondiale, che è una fantascienza molto più fumettistica e cinematografica che non letteraria. Era stata letteraria solo all’inizio, con Jules Verne, e non è forse un caso se nel fumetto francese è molto diffuso il sottogenere che viene definito di rétro fiction. La rétro fiction, molto simile a ciò che negli anni del cyberpunk è stato definito lo steampunk, è banalmente una fantascienza povera: o la ricostruzione di come il passato, preferibilmente ottocentesco, poteva immaginarsi il futuro, oppure l’invenzione di un futuro che si sia sviluppato in modo avanzato ma con una tecnologia prettamente ottocentesca. L’immaginario di Jules Verne (e degli illustratori dei suoi romanzi) e, perché no, di Gustave Eiffel, tornerà in forze negli anni Ottanta nelle opere della coppia di fumettisti belgi composta da Benoît Peeters e François Schuiten.
Questo non significa che la fantascienza francese non abbia avuto apporti anglosassoni, ma si è sempre trattato di autori non completamente mainstream, e spesso più conosciuti in Francia che non nel loro paese. Come Poe, anche Philip Dick è stato riconosciuto come un vero scrittore prima in Francia che non negli Stati Uniti (celebre la visita francese di Dick nel ’77, quando arrivò in Francia trovando un paese ai suoi piedi e, tra la costernazione generale, tenne a Metz una conferenza in cui parlò di come gli extraterrestri l’avessero contattato). Fantascienza intellettuale quella francese (si è già parlato di Alphaville di Godard), ma anche, volendo, fantascienza di intellettuali. L’ossessione degli intellettuali francesi per lo spettacolo, la civiltà delle immagini e le simulazioni è servita infatti da fonte di ispirazione per il cinema americano nel momento in cui moltissimi film mainstream hanno iniziato a giocare sui problemi del virtuale, portando alla riemersione alcuni dei temi più massimalisti (il mondo esiste o no?) della filosofia moderna: tra Berkeley e Malebranche. Non ci deve quindi più sorprendere il fatto, già discusso, che Baudrillard sia stato contattato (rifiutando in entrambi i casi) come consulente sia per Matrix sia per la serie Wild Palms (1993) prodotta da Oliver Stone (il tema era quello della presa di potere da parte di un magnate della realtà virtuale grazie agli ologrammi che proietta e controlla). C’è anche un altro aspetto però. Come si trova scritto in un articolo americano su Baudrillard, «nella misura in cui condizioni sociali prima a stento immaginabili si sviluppano a causa degli effetti della tecnologia – soprattutto di quella informatica – gli oggetti della teoria culturale diventano concreti, e la riflessione teorica sul futuro diventa indistinguibile dalla fantascienza». E davvero, come si era già accennato, la prosa di Baudrillard da un certo punto in poi inizia sempre più a somigliare a quella di uno scrittore di fantascienza. Se i registi degli anni Sessanta erano stati capaci di vedere il futuro nella Francia americanizzata, con Amérique (America, 1986) Baudrillard tornerà, tradizionalmente, a scorgere i contorni del futuro in America, solo che non si tratta più di un futuro architettonico: «L’orgoglio capitalista transessuale dei mutanti costituisce la magia di questa città [Salt Lake City]»; «Supponiamo la ricostruzione delle grandi scene rivoluzionarie [della storia passata] in ologrammi giganti»; «la cosa più bella del Santa Ana è la notte in spiaggia, si fa il bagno come in pieno giorno e, proprio come vampiri, ci si abbronza alla luce della luna».
Torniamo al problema della politicizzazione dei generi. Oltre alla fantascienza, che comunque si tiene sempre su un piano speculativo, o al limite di ingegneria sociale, l’altro genere che più si carica di valori politici negli anni Settanta è il giallo. Per prima cosa la parola, anzi le parole. Si sa che in italiano la parola «giallo» deriva dalla collana «Il Giallo Mondadori» (nata nel 1929 col nome «I libri gialli»), che si distingueva appunto per il colore delle sue copertine. In Francia la collana equivalente (anzi, di prestigio ancora maggiore) è la «Série noire» di Gallimard (fondata nel 1945), in cui vengono pubblicati i romans policiers. Perché appunto, fino agli anni Sessanta, i gialli francesi continuano a chiamarsi romans policiers. La storia del termine noir invece è un’altra, ed è una storia curiosa. Nel 1946 il critico cinematografico Nino Frank (nato a Barletta da genitori svizzeri, amico di Joyce, fondatore con Massimo Bontempelli della rivista «900») pubblica un articolo intitolato Un nouveau genre «policier». L’aventure criminelle, in cui raggruppa una serie di film americani usciti a partire dal 1941 (data di The Maltese Falcon di John Huston, in italiano Il mistero del falco) che presentavano un certo numero di costanti stilistiche (illuminazione in chiaroscuro, ecc.) e tematiche (si ispiravano all’estetica del romanzo hard boiled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler). Pensando alla «Série noire», Frank finisce per parlare di questi film come di films noirs.
Le differenze tra i films noirs (e tra i romanzi cui si ispiravano) e il giallo classico sono note: pessimismo di fondo (nessuno è veramente innocente nel noir), predilezione per il personaggio del detective privato che va a rimpiazzare il poliziotto o il dilettante collaboratore della polizia (nel noir circola anzi una certa diffidenza, quando non aperto disprezzo, per le forze dell’ordine), sostituzione dell’azione e della violenza al piacere più intellettuale dell’enigma (chi è stato? e come ha fatto?), recupero di temi e situazioni più tragici e/o melodrammatici di quelli normalmente accolti dal giallo classico (infedeltà, tradimento, disincanto, ecc.), insistenza tanto sulla misoginia quanto sul romanticismo (un personaggio chiave è quello della femme fatale).
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, il romanticismo ruvido, è bene ricordare che il termine film noir era già stato in corso nella Francia della seconda metà degli anni Trenta. Era quella l’epoca (cinematograficamente parlando) del «realismo poetico» di Marcel Carné e Jacques Prévert. Alcuni film iper-romantici ambientati nell’ambiente criminale urbano (per esempio Le Quai des brumes, Il porto delle nebbie e Le Jour se lève, Alba tragica di Carné, Pépé le Moko, Il bandito della Casbah di Julien Duvivier, tutti interpretati da Jean Gabin, che sta quindi al cinema noir francese come Humphrey Bogart a quello americano) erano già stati definiti films noirs.
C’è poi un’ultima parola, polar, ch...