II. Identità e riconoscimento
1. Il paradosso dell’identità
Le identità sono invenzioni. Eppure, chi pensa di poterle liquidare sbaglia. Ancora più radicalmente, è sbagliato ritenere normativamente ‘giusta’ questa liquidazione. E che quindi uno degli obiettivi prioritari di una politica democratica e razionalista non possa che essere l’eliminazione delle identità, o perlomeno la loro sterilizzazione. Proprio la consapevolezza dei rischi insiti nel possibile cortocircuito tra politica e identità – semplificazioni polemiche, chiusure culturali, intolleranza – deve portarci a cercare di scavarne il concetto, non ad accantonarlo, nell’illusione che così il problema che nomina scompaia. L’identità è una risorsa necessaria della politica. Se non c’è, o è confusa e labile, non si è capaci di nitide e riconoscibili assunzioni di responsabilità rispetto al merito delle questioni, al loro contenuto di principio. Altri occuperanno quello spazio vuoto, e risponderanno a quel bisogno. E non è affatto detto che abbiano gli stessi scrupoli auto-riflessivi.
Un approccio diverso per problematizzare il tema, senza negarlo, può muovere a mio avviso da questo punto di partenza: il meccanismo generatore dell’identità è, fondamentalmente, il riconoscimento. La risposta alle domande ‘chi sono?, chi siamo?’ è il risultato di un’attribuzione reciproca di identità. Chi assume, interiorizza una determinata identità lo fa perché riconosce l’identità dell’Altro che gliela assegna o rimanda, in un gioco di specchi. Ma riconoscere l’identità dell’Altro significa anche attribuirgliene una. Chi ri-conosce, conosce da capo ciò che talmente gli appartiene (o, ma è lo stesso dal punto di vista dell’efficacia, sente appartenergli e appartenere alla relazione con l’Altro in quanto problema, ‘sfida’ che chiede una risposta), da apparire come un ‘presupposto’ comune: quando si acquisisce, accetta, afferma un’identità è come se, platonicamente, si ‘ricordasse’ ciò che era talmente implicito, profondo, da essere come ‘dimenticato’, non saputo, e quindi oggetto di nuova appropriazione. Chi riconosce conferma come ‘propria’ la qualificazione ricevuta, accettando con ciò la legittimità del soggetto che gliela assegna, identificandolo a sua volta. Naturalmente, questo è sempre un movimento reciproco, a doppio verso. E ha natura agonistica: il riconoscimento non è garantito in partenza e non ha nulla di melenso. Per quanto le identità possano essere inventate, ci sembrano sempre, non solo nel privato ma anche quando riguardano la sfera collettiva e politica, qualcosa di intimo, che ci parla di noi, e di serio, che ci mette in gioco. E questo per ragioni che non appaiono mai puramente utilitaristiche o strumentali (pur prestandosi magari a usi in questo senso), ma meritevoli di adesione perché espressive di un ‘plusvalore’ che ambisce a durare, di un’aspettativa di senso forgiata in comune. Se è così, a me pare che ciò non accada per puro inganno, ma proprio perché nella dinamica costruttiva delle identità interviene potentemente la dimensione politica del riconoscimento, che risponde a un bisogno irriducibile di soggettività, apre conflitti e mette in relazione, innova e stabilizza. Le identità si rivelano in questo senso cristallizzazioni di soggettività in relazione. Anche attraverso questi scambi identitari il ‘corpo vuoto’ del Leviatano, nel dispiegamento della modernità, si è riempito di contenuti normativi, forme di vita, interazioni sociali che si sono via via politicizzate, costituendo una ‘sfera pubblica’ spesso difficile da integrare e abitata da poteri indiretti, ma anche generatrice di legittimazione politica post-tradizionale, di nuovi vincoli collettivi, e appropriabile da parte di soggetti ‘esclusi’.
Contro una concezione essenzialista e naturalizzante, si può dunque difendere una nozione di identità come costruzione simbolica. Non un dato statico e compatto, ma il frutto e la posta in gioco di una lotta. L’identità, funzionalmente, è ciò che identifica (e in cui ci si identifica): energia psichica e sociale ancorata a contenuti accreditati di una certa stabilità e di valore, che attiva e mette in rapporto strati emotivi, pre-razionali, e azione consapevole, delimitando un senso dell’esperienza. Se si assume questo punto di vista, allora si comprende come e perché l’identità – rivendicata o riconosciuta –, che ci piaccia o no, svolga un ruolo decisivo in politica. Possiamo e dobbiamo decostruirla, guardarne con sospetto gli usi, sottoporla a un lavoro critico. Ma non si può pensare di liberarsene per sempre. Perché non è vero che non serve a niente. Perché è implicata inevitabilmente in ogni forma di politicizzazione (anche la più soggettiva e informale), in ogni processo di mobilitazione collettiva. Perché non c’è azione politica che non presupponga un’auto-definizione e non fissi delle gerarchie assiologiche. Quindi, in un modo o nell’altro, il suo ‘problema’ riemergerà sempre. E poi, non tutte le ‘identità’ sono uguali. Sia dal punto di vista dei ‘contenuti’. Sia dal punto di vista degli effetti che determinano. Ci sono identità ‘polemiche’ (che danno la sensazione di essere qualcosa solo per contrapposizione e mobilitano all’odio) e identità ‘in positivo’, centrate sull’auto-definizione di un nucleo di principi aperto all’esterno, su un progetto che non riduce e semplifica, ma integra la complessità e spinge ad uscire dal proprio guscio. Naturalmente, è una questione di misura: una certa differenziazione per contrasto, così come la paura di perdere la propria specificità, ci saranno sempre in ogni politicizzazione dell’identità. Si pensi a questo proposito all’ambiguità che segna il rapporto tra idea di nazione e nazionalismo, ben distinti e tuttavia intrecciati: l’una fonte di identificazione della libertà dei popoli, della loro indipendenza, ma anche radice di una concezione etnica della politica (‘terra e sangue’); l’altro strumento della politica di potenza e dell’espansionismo imperialista, e tuttavia capace di coinvolgere le masse, nazionalizzandole, magari sulla base di sincere convinzioni patriottiche. Tra l’altro, proprio la funzione politica dell’idea di nazione mostra come il problema dell’identità non sia affatto un retaggio pre-moderno, ma acquisisca un ruolo centrale nella modernità, anche in virtù del processo di secolarizzazione. Paradossalmente, il fatto che il diritto moderno operi per sottrazioni identitarie, non elimina, ma anzi fa rinascere in forme nuove e alla lunga enfatizza il bisogno di identità. Peraltro, la stessa secolarizzazione è caratterizzata da un’ambivalenza strutturale: da un lato sterilizza politicamente le identità religiose, dall’altro ne ‘filtra’ le narrazioni, consentendo di riutilizzare almeno in parte ciò che passa attraverso il suo ‘setaccio’ laicizzante nella costruzione di nuove identità post-tradizionali. Da una parte lo Stato moderno secolarizzato costituisce uno spazio pubblico neutrale (come sappiamo, solo così sono possibili le libertà plurali e la sterilizzazione del conflitto sulle ‘cose ultime’). Dall’altra esso deve essere anche il luogo dell’appartenenza a valori condivisi (per quanto plurali), che fissino un ‘limite’ e sorreggano il sistema delle regole, e quindi non può essere ‘neutro’. Ora, seguendo la nota analisi di Böckenförde sul tema, si vede appunto come la neutralizzazione sia sì necessaria, ma non possa mai essere completa, sfociare nell’indifferenza etico-politica, perché verrebbero meno quelle risorse di legittimazione – pur minime – funzionali ad ogni ordine. D’altro canto, un ‘resto’ di sacro – che non ha nulla di confessionale, ma è schmittianamente una pura ‘analogia’ teologico-politica, una credenza laica nel plusvalore del vincolo politico – è indispensabile allo stesso dispositivo della secolarizzazione, il quale presuppone per funzionare una forma di trascendenza politico-collettiva dell’immanenza sociale e dell’atomismo individuale, sostitutiva di quella religiosa, che produca una sufficiente omogeneità. Non è dunque casuale se, a un certo punto della storia europea, dopo la seconda, più potente ondata secolarizzante rappresentata dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, alla religione come sostrato etico collettivo si è sostituita l’idea di nazione, ovvero un altro costrutto identificante ‘trascendente’, per quanto del tutto mondano. La nazione mostra in modo tipico il ‘doppio lato’ dei concetti politici moderni: tanto un prodotto della volontà che si afferma, costruendo un ordine nuovo, quanto un sostituto secolarizzato del vincolo religioso. La possibilità di sostituire a un patriottismo della nazione, che oggi appare compromesso e certo assai meno spendibile politicamente rispetto al passato, un patriottismo etico-politico, non formalista, della costituzione e dell’identità europee, rappresenta la sfida attuale dell’Europa, sulla quale aprire una discussione pubblica e un conflitto reali (visto che le declinazioni di quell’identità non sono univoche). Tenendo presente un’avvertenza assai rilevante quando si maneggiano le identità collettive: esse possono sempre serbare – e magari coprire – un fondo di ‘violenza simbolica’, per cui chi accetta una determinata ‘qualificazione’ in realtà la subisce, assumendo in modo subalterno il discorso identitario dominante. Ma ciò ci dice anche che l’identità è sempre il frutto (provvisorio) di una lotta per l’attribuzione e la distribuzione di potere, e che a quel discorso dominante non è impossibile opporsi, imponendone la trasformazione, magari proprio in nome di identità ‘diverse’, che si attivino politicamente.
La questione fondamentale che la funzione politica dell’identità pone e allo stesso tempo svela è insomma quella relativa al significato, agli effetti, alle ipoteche concettuali persistenti dei legami di dipendenza e dei rapporti di potere attraverso cui i ‘soggetti’ – tanto individuali quanto collettivi – si costituiscono e riconoscono. Le credenze identitarie sono il precipitato di questi processi, carichi di violenza e irrazionalità, ma anche politicamente produttivi. L’identità è la scatola nera del nesso politica-soggetto. Il testo classico per affrontare alla radice questo nodo è la lotta delle autocoscienze nella Fenomenologia dello Spirito. Con questa celebre figura, Hegel punta dritto all’origine dell’obbedienza al potere in quanto ‘struttura di pensiero’. Il rapporto signoria (dominio)-servitù (assoggettamento) è infatti la preistoria concettuale del rapporto potere-obbedienza. Il teatro delle forze elementari che vengono a comporlo.
2. La politica come destino
Hegel afferma e indaga la politicità dell’umano (più propriamente, la politica come destino del genere umano) in senso opposto alla tradizione antica (si pensi a uno dei suoi luoghi classici, il primo libro della Politica di Aristotele), secondo cui la politica è ‘naturale’ perché spontanea, ordinata su un’unica sequenza di relazioni, inscritte in un ordine oggettivo complessivo: padre-figlio, marito-moglie, padrone-schiavo, polis-cittadini (anche se c’è differenza tra padrone e politikos, perché quest’ultimo esercita il dominio su uomini liberi). Nel Moderno invece la politica è fondata sulla volontà, ed Hegel accetta questo punto di partenza. Ma la sua idea di politica come sfida tragica e produttiva, a cui non ci sottrae e che determina le forme della ‘vita dello Spirito’ – in questo senso è un ‘destino’ –, si differenzia anche dalla condizione umana scarnificata che nello stato di natura hobbesiano costituisce la matrice dell’ordine (anche se in qualche modo ne assume e presuppone la radicale ‘problematicità’). In Hegel l’intreccio vita-artificio è più complesso, meno riduzionista: c’è la volontà, ma anche l’ethos, in un movimento reciproco, che immette una robusta iniezione di soggettività – e quindi di ‘trascendenza’ laica – nella Sostanza (spinoziana), ma non dimentica che il Soggetto proviene da mondi etici e ha sempre bisogno di partecipare alla riproduzione quotidiana di nuovi legami in cui riconoscersi e, soprattutto, da cui sentirsi riconosciuto, per non separarsi come un ‘idiota’ dalla ‘cosa’ comune. Soprattutto, Hegel sa che originaria è la relazione e la sua capacità di costruire i soggetti, non l’astrazione individuale. Il ‘soggetto libero’ non è un ‘dato’, ma il risultato di un processo emancipativo – di affermazione di sé e di interazione con il potere – permanente. Presuppone le istituzioni e un tessuto di legami sociali. La storia è storia della libertà, ma la libertà non è naturale. Non è un possesso o una dote. La libertà è liberazione.
Nella Fenomenologia, in un primo momento, sembra che sia l’autocoscienza che sceglie la fedeltà alla lotta, a tro...