Letteratura russa contemporanea
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Letteratura russa contemporanea

La scrittura come resistenza

  1. 352 pagine
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Letteratura russa contemporanea

La scrittura come resistenza

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Un blocco di carta gialla sbiadita. Da leggere tutto in una notte. Perché leggere è un crimine, e domani il manoscritto aspetta un altro lettore complice. Questo libro è l'avventura del lettore ideale e della parola poetica, protagonisti essenziali della resistenza all'omologazione culturale sovietica. Li seguiremo attraverso cucine come salotti letterari, registratori umani di decine di migliaia di versi, nuovi raffinati modelli di scrittura, analisi monografiche dei testi di massima densità formale (da Brodskij a Venedikt Erofeev, Sokolov, Dovlatov). Per giungere dopo il crollo dell'Urss al fatidico incontro con il mercato editoriale e il mainstream davanti ai quali, nell'ombra della dittatura light putiniana, la parola d'ordine poetica continua a essere 'resistere resistere resistere'.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116630

1. L’universo del samizdat

Nell’oceano isbnnizzato della letteratura mondiale del Novecento c’è un’isola vastissima, una Groenlandia pregutenberghiana, in cui il concetto di libro moderno a stampa è interamente soppiantato. Nata in risposta al totalitarismo sovietico, ha spontaneamente elaborato meccanismi alternativi di produzione, diffusione e fruizione del prodotto letterario, il quale come primo e strabiliante effetto ha subito smesso di essere un prodotto.
Il samizdat è il nucleo centrale e cruciale della resistenza della letteratura russa che, nella seconda parte del Novecento, ha reagito agli indirizzi socio-culturali dominanti, che tendevano a emarginarla o ignorarla. Negli anni successivi alla morte di Stalin, appena le coscienze si sono scrollate di dosso il terrore glaciale di poter morire per le proprie parole (Dio ne guardi se scritte!), tantissimi in parallelo giungono alla conclusione: voi stampate solo la più turpe immondizia, quindi non spero, ma neppure lontanamente ci provo, di venire a patti col vostro sistema, e mi stampo da me. Così, in Unione Sovietica per trent’anni, orientativamente tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Ottanta, si sono prodotti con mezzi artigianali e diffusi illegalmente milioni di testi di pubblicistica e propaganda politica, di filosofia, religione, pornografia, ma in cospicua e a tratti preponderante percentuale anche d’invenzione, in prosa e, molto più spesso che altrove nello stesso periodo, in versi.
Quello del samizdat è un mondo magicamente unico, pionieristico, fitto di contenuti estetici come una foresta, e anche per questo ancora in molta parte inesplorato, in cui la creazione letteraria, regredendo a dinamiche in qualche modo atemporali, trova nella clandestinità fervore ed energie inimmaginabili per il mondo moderno. Chiunque senta l’impulso più o meno malato di scrivere può farlo, e non avrà altro giudice che i suoi pari: formulato come esercizio teorico da Šklovskij appena prima che si scatenasse l’orrore sovietico, il punteggio d’Amburgo diventa il metro quotidiano e basilare per l’attribuzione del valore artistico. La comunità letteraria si sostituisce al mercato, in un rigoglio di rapporti interpersonali, dentro e fuori gruppi che sono circoli di sodali, non condizionato da nulla se non dal carisma di alcuni, in un clima che trova precedenti solo nella poesia medievale. Il contatto diretto tra gli scrittori compensa l’assenza del pubblico e lo rimpiazza come preziosissimo surrogato; ci si offre reciproco conforto e stimolo, si rinsaldano i propositi creativi. All’interno di questa comunità l’influenza taglia i ponti, è l’eco diretta della parola poetica e non più della riflessione generalizzante su di questa o della sua promozione pubblicitaria. Scarsissima è anche l’interferenza della finalità politica, perché all’ovvio e irrevocabile rifiuto di ogni rapporto con l’ufficialità sovietica si associava in genere una sostanziale indifferenza a ogni tematica in odore di pubblicismo.
Ciò non risparmiava persecuzioni. I tre grandi casi giudiziari che hanno scosso l’opinione pubblica mondiale e dato l’avvio al fenomeno della dissidenza (di Alik Ginzburg nel 1960, Brodskij nel 1964, Sinjavskij e Daniel’ nel 1965-1966) erano interamente fondati su «crimini letterari», e a Brodskij in particolare non si imputava altro che aver scritto al di fuori dei rigidi canali consentiti. L’assurda equazione del potere sovietico conduce a un’identificazione di spirito e d’intenti tra chi nel samizdat si occupava esclusivamente di arte e chi prevalentemente di lotta politica. Insieme in carcere, ai lavori forzati, in manicomio, sia gli uni che gli altri diventano tessuto organico della stessa resistenza.
Autore = lettore = autore
Scegliere il mondo sommerso e clandestino del samizdat era per molti aspetti un vero tuffo nell’abisso, che implicava la rinuncia anche ai minimi conforti della società sovietica e richiedeva senza dubbio una componente eroico-masochista. Ci potevano essere due esiti, o anche obiettivi: la difficile emigrazione o la sicura trasformazione in paria. Chi entrava nel mirino degli onnipresenti servizi segreti doveva rinunciare a ogni ruolo nella società, se anche lavorava in una scuola elementare era costretto a dimettersi, e visto che al lavoro l’unica alternativa era il carcere, le occupazioni canoniche degli scrittori clandestini erano il fuochista e il custode di stabili e cortili. Liberatisi del peso di scendere a qualsiasi patto con la società sovietica, anche solo per avere di che dar da mangiare ai bambini, si poteva godere di una sensazione di libertà unica e irripetibile, che portava la coscienza autoriale a una totale autonomia e autosufficienza. Anche dal lettore, in ultima analisi.
Quest’ultimo però era in realtà il più prezioso alleato. Da un lato in un circolo di amici e compagni di resistenza artistica il ruolo di autore e lettore era costantemente interscambiabile, e in alternativa al volume nelle librerie era la più sicura garanzia dell’esistenza reciproca. Le frequentazioni erano però comunque più ampie, l’ambiente letterario si incrociava costantemente con quello artistico, e artisti e scrittori clandestini erano gli eroi della gioventù di fronda e di bohème. Il pubblico assente finiva con l’essere prodigiosamente palpabile, e a una qualsiasi occasionale lettura nell’immancabile fumosa cucina di un minuscolo appartamento l’eventualità di avere di fronte (o di fianco) il tanto ambito lettore ideale era quasi la norma. Uno scrittore aveva la possibilità di cercare e trovare riscontri, crearsi nicchie di intenditori ed estimatori. Le dinamiche della fama, in un ambito così circoscritto e così omogeneo, intimizzato dal sistema di fruizione, conducevano, oltre che al delatore di turno, a mirabolanti affinità elettive. Ci si poteva sentir dire a un festino, come l’Erofeev-personaggio di Tra Mosca e Petuški: «Ho letto una sua cosetta. E sa, non avrei mai pensato che in una cinquantina di pagine si potessero accumulare tante scempiaggini. Ha del sovrumano!». Proprio con questo tono, marca ideale del cortocircuito della comunicazione letteraria. Tenendo presente che nessun commento può essere più gradito e sentito per Erofeev, per il quale «scempiaggini» vale un’onnicomprensiva dichiarazione di poetica.
I «BARDY»: CANTAUTORI-POETI
La musica sulle ossa: perfetta metafora dell’arte che immolandosi resiste. Con un dettaglio: non è una metafora, ma una metonimia; e non molto discosta dalla lettera: i dischi clandestini negli anni Sessanta si incidevano su pellicole radiografiche usate.
In questo universo di primitiva passione e ribellione, di profluvi di alcol attorno alla chitarra russa e autentici concerti in appartamenti e scantinati, dove il jazz e le canzoni della mala si miscelano a fotografare l’assurdo quotidiano e il ruggente desiderio di vita fino a farsi colonna sonora di un’epoca, nasce una figura di artista unica e irripetibile, un cantautore che scrive e interpreta non solo testi e musica, ma anche l’immaginario collettivo. Simile a nessun altro al mondo, il bard si porta dietro già dal nome celticheggiante il retaggio del mito e dell’epica, e un moderno incrollabile mito di artista in rivolta, voce dell’anima profonda della Russia, se lo crea nell’arco di poco più di una generazione. I bardy sono poeti (poeti russi) a tutto tondo, in primo luogo per il ruolo sociale, impensabile altrove, poi perché si muovono all’interno della tradizionale metrica sillabo-tonica della poesia russa e perché dietro tutte le loro canzoni si annida un principio lirico e traluce l’io.
Il 28 luglio del 1980 è una delle date simbolo della crisi dell’Unione Sovietica: nel bel mezzo delle Olimpiadi di Mosca una folla oceanica radunatasi per i funerali di Vladimir Vysockij (1938-1980) paralizza la città, nonostante la televisione e i giornali avessero totalmente taciuto la notizia della sua morte. Vysockij è il bard per eccellenza, dotato di una travolgente energia vitale e poetica, di una voce roca e aspra da dare i brividi, tipico eroe maudit distrutto dall’alcol e da uno spleen sovieticamente metafisico che trapela da tutte le sue canzoni al di là del ritmo incalzante, della varietà dei temi e delle maschere autoriali, a ciascuna delle quali però sa trasmettere una porzione di autentica sofferenza.
Altrettanto grande è la popolarità delle canzoni di Aleksandr Galič, spesso sferzantemente parodistiche, aneddotiche, brechtianamente teatrali, eppure colte e raffinate, che gli valgono nel 1974 l’emigrazione obbligata, o di Bulat Okudžava, più romantico e convenzionale, ma non meno intimo all’orecchio e alla memoria. Accanto a loro una folla di idoli piccoli e grandi, da Jurij Vizbor a Julij Kim ad Aleksandr Gorodnickj.
Il successo immenso dei bardy è certamente dovuto alla relativa tolleranza di cui a partire dagli anni Settanta ha goduto il samizdat musicale, non identificato dal regime come aperta dissidenza e autorizzato a diffondere album artigianali incisi su precarie bobine, al di là di ogni nozione di qualità o copyright, ma oggi leggendarie. Sulle stesse bobine, alla fine del decennio, si inizia a incidere musica ormai distintamente identificabile con gli stilemi e i ritmi del rock occidentale, che apre una stagione completamente distinta e avrà in Boris Grebenščikov un altro grandissimo poeta.
Il samizdat è in misura forse addirittura preponderante un fenomeno di fruizione. È difficile immaginare oggi le emozioni che potevano suscitare quei fascicoletti dattiloscritti in lettori imbevuti e assetati di cultura e magia della parola, ma abituati come lettura quotidiana solo ed esclusivamente alla stantia menzogna seriale dell’ortodossia sovietica. O la sensazione di ignoto e di azzardo nell’ascoltare, e vedere, e toccare con mano parole proibite, che mai si immaginerebbero pubblicate. Ogni copia era letta da decine di persone, letteralmente consumata, concessa solo per una notte all’avidità degli occhi, cospirazione, piacere segreto, primordiale, estremo della lettura. Questo lettore è insieme complice (anche di un reato), editore, coautore, incredibilmente esigente quanto condiscendente, non ammette sotterfugi, bluff, bufale, ma sostiene, incoraggia, innerva di energia. Niente a che vedere con il pubblico anonimo mediato dal patto sempre ambiguo con la casa editrice, dal redattore, dal recensore, e distributore, e libraio. Il lettore è invitato a un ruolo incredibilmente attivo: diffondere l’opera, moltiplicarla trascrivendola e quindi facendosi lui stesso autore, incorrendo in chissà quante lezioni soggettive, integrazioni, correzioni arbitrarie di ciò che potrebbe sembrargli erroneo. Ma questo puro medioevo, che genera oggi attorno al samizdat problematiche filologiche di cui mai si sarebbe preventivata una nuova insorgenza, richiede al lettore un esclusivo spirito critico, concentrazione, individualità, personalità. Di nuovo ad anni luce dalla nostra bestselleria. E se ci si allontana appena dalla componente creativa, all’interno del samizdat ciascun lettore aveva la possibilità di ritagliarsi un ruolo, di sentirsi partecipe del processo letterario e investito di una missione, spesso conservativa, nella generale ottica della resistenza: fissare il loro universo alla futura memoria, comporre elenchi di arrestati, emigrati, chiese distrutte, mediare, anche traducendo, il lontano bagliore della cultura d’oltrecortina, coagulare le istanze spirituali, anche molto eterodosse o di derivazione orientale.
Le origini del samizdat
Naturalmente il samizdat non è per intero un merito collaterale dell’oppressivo sistema sovietico, e qualche traccia ne reca per certo il codice genetico della società e della letteratura russa, che fino a quel momento erano state pericolosamente legate a filo triplo. Già per secoli erano passati di mano in mano i manoscritti degli eretici e dei settari, dei pornografi e dei rivoluzionari. La censura, da sempre vigile e stolida, nella prima metà dell’Ottocento aveva tenuto per decenni lontano dalle tipografie testi capitali come Il demone di Lermontov o Che disgrazia l’ingegno di Griboedov, innescandone la fama e una capillare diffusione manoscritta. Con l’avvento della dittatura staliniana tutto, naturalmente, inizia a essere proibito e chiunque approcci senza pedissequa reverenza un testo letterario diventa il candidato ideale per lo sterminio. Negli anni Trenta e Quaranta mettersi a riprodurre testi in casa equivaleva al suicidio, ed è quindi comprensibile che nulla o quasi sia rimasto delle voci libere che non erano emigrate per tempo. E qualsiasi cosa si scrivesse non ha certo trovato archivi per essere conservata, anche se interessanti scoperte (eh sì, siamo dalle parti delle biblioteche dei monasteri!) non si possono escludere, in particolare per la memorialistica.
Regredendo verso quella zona ibrida della creazione dove il passato più passato sposa il futuro, diventa possibile, in questi anni, conservare e tramandare testi poetici oralmente: così, di voce in voce, passavano nella Mosca prebellica le poesie dello stravagante poeta, di piglio e look anticorusso, Nikolaj Glazkov, al quale spetta il merito di aver usato per primo alla metà degli anni Cinquanta il termine samsebjaizdat (edizione di se stesso), poi semplificato dall’arguzia collettiva in samizdat, a fare il verso alle abbreviazioni onnipresenti nella lingua sovietica, che aveva Edizioni politiche (Politizdat), Edizioni militari (Voenizdat) e tante altre.
Spesso i germi della letteratura clandestina sono posti nelle università, che sono il primo nucleo di aggregazione degli indocili e di circolazione, seppur limitatissima, delle idee, dove anche i discorsi di Tito o di Togliatti veicolati dai pochi studenti stranieri possono suonare eversivi. Di norma le relazioni universitarie si consolidano altrove, nei primi appartamenti non in coabitazione che lo Stato iniziava a mettere a disposizione nelle grandi città: un minimo di privacy, i vincoli sempre più stretti dell’amicizia e della comunanza d’intenti (resistere!) e uno spettro di orizzonti estetici sempre molto frastagliato. Così a Mosca, all’inizio degli anni Cinquanta, si forma il circolo di Čertkov, a partire dagli incontri di appassionati di poesia all’Istituto di lingue straniere e attorno alla figura carismatica di cercatore-passionario del poeta Leonid Čertkov, con la camera, in questo caso ancora in un appartamento in coabitazione, della comune musa Galina Andreeva come centro gravitazionale. Vi partecipano tra gli altri Stanislav Krasovickij e Andrej Sergeev, che ne ricostruirà il clima, tra memoria e finzione, in Album per francobolli. «Scuola filologica» è invece definito l’eterogeneo gruppo di poeti che negli stessi anni frequentavano a vario titolo la Facoltà di filologia (lettere) di Leningrado, da Michail Krasil’nikov a Vladimir Ufljand, da Leonid Vinogradov a Michail Erëmin, ai quali, un po’ più dall’esterno, si sommavano le due figure di maggior spicco, Lev Losev e Aleksandr Kondratov. A unirli c’è solo il senso di libertà dell’arte, la capacità di riconoscersi in mezzo al branco degli ossequiosi e di sentirsi per questo un clan, che ostenta l’io come bandiera e professa un épatage futurista rimpicciolito alla dimensione sovietica: ma basta, per l’epoca, stendersi in mezzo alla folla della prospettiva Nevskij a guardare le stelle per abbattere molti muri.
Sempre legato alle università è un altro fenomeno, quasi esclusivamente leningradese, in cui la libera creatività riesce in qualche misura a farsi sentire anche in istituzioni ufficiali. Presso ogni Facoltà dalla metà degli anni Cinquanta (e per il ventennio successivo) sono attivi i lito (Literaturnoe Ob’’edinenie), associazioni letterarie presso le quali era possibile incontrarsi legalmente, seguire seminari, confrontarsi e leggere i propri versi (erano anni di autentica poetomania). Sono poc...

Indice dei contenuti

  1. I penultimi. Viaggio nelle letterature d’oggi (Serie diretta da Gabriele Pedullà)
  2. Introduzione. Letteratura come resistenza
  3. Parte prima. La magia clandestina della parola
  4. La Russia sovietica: 1968-1984
  5. 1. L’universo del samizdat
  6. 2. Letteratura e ideologia
  7. 3. Neoavanguardie e tardo modernismo
  8. 4. Concettualismo
  9. 5. Le forme dell’umorismo
  10. Parte seconda. Di tre letterature, una
  11. La fine dell’Urss: 1985-1996
  12. 6. Il gioioso collasso
  13. 7. Postmodernismo postsovietico
  14. 8. Fantastoria
  15. 9. Saggi finzionali
  16. 10. Rinarrare il passato: il quotidiano sovietico
  17. 11. Microracconti
  18. 12. I non emersi
  19. Parte terza. Oltre
  20. Oltre la democrazia: 1997-2010
  21. 13. Il Grande grafomane
  22. 14. Tra consumo e congiuntura
  23. 15. All’orizzonte
  24. Cartine
  25. Bibliografia essenziale