Il paese leggero
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Il paese leggero

Gli italiani e i media tra contestazione e riflusso (1967-1994)

  1. 320 pagine
  2. Italian
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Il paese leggero

Gli italiani e i media tra contestazione e riflusso (1967-1994)

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Fra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Novanta l'Italia cambia due volte pelle, corpo, anima. Prima, nel decennio 1967-1977, scopre la partecipazione, l'egualitarismo, il femminismo, la democratizzazione della cultura; poi, negli anni fino al 1994, l'individualismo, la microimprenditorialità, il diritto al consumo, la seduzione del benessere e della moda. Due paesi, o meglio due immaginari, il secondo sovrapposto al primo e alla fine vittorioso.Il libro li racconta attraverso un'analisi trasversale dei media: stampa, cinema, fumetto, musica, radio e televisione.Scorrono, riscoperti in un'analisi del tutto inedita, i fatti, i personaggi, le storie e i testi che hanno appassionato e avvinto gli italiani, guidandoli dalla contestazione al riflusso. Canzoni, film, programmi televisivi, eventi sportivi, protagonisti della cultura e della politica entrano a far parte di un racconto nuovo, che rileggendo il passato ci porta al cuore dell'Italia di oggi.Ne emerge la biografia culturale di un paese leggero: leggero come la fantasia, capace di grandi voli, ma anche come il disimpegno, il disinteresse, la fuga dalla realtà, fino alla tragica dimenticanza delle proprie virtù.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858100684
Argomento
Storia

Atto secondo
Del sogno e dell’incubo (1978-1994)

Scena prima: Nel nome di Aldo Moro

Cominciamo con il Fatto, quell’autentico luogo di passaggio da un’Italia all’altra che è il rapimento Moro (16 marzo 1978). Fatto storico, in primo luogo, che tratteggia il compimento e insieme la fine del lungo sogno di superamento dell’anomalia italiana, quel Fattore K che escludeva in modo misterioso eppure visibile e assai concreto il più grande Partito Comunista dell’Occidente dal governo del paese. Nel momento in cui la storia sta per compiersi, sotto la regia delle idee lucide e del linguaggio labirintico del presidente della Democrazia Cristiana, ecco che l’attentato delle Brigate Rosse scompagina le carte, apre un nuovo gioco in cui le regole diventeranno diverse e dà inizio al declino della Prima Repubblica. Ma anche fatto mediatico, perché – a brevissimo intervallo dall’esplosione di quella che un comunicato terrorista definirà la «geometrica potenza» del tiro incrociato che stermina cinque uomini di scorta – un giornalista apprezzato e stimato della Rai, Paolo Frajese, casualmente per le strade di Roma a provare con una troupe nuove telecamere, si precipita sul luogo dell’eccidio e ne dà testimonianza praticamente diretta, mostrando i cadaveri appena coperti, i bossoli per la strada, le macchie di sangue che appaiono ancora in bianco e nero sulla maggior parte dei televisori nelle case. È una brusca sterzata verso una nuova televisione, figlia di quella grande volontà testimoniale, di pedinamento della realtà che aveva attraversato la Rai degli anni Settanta, eppure anche per la prima volta senza guida se non quella della violenza della realtà, della legge dello scoop, in fondo del voyeurismo implicito in una nuova dimensione sia produttiva che spettacolare. Frajese vuole soltanto testimoniare. Fa il suo mestiere. Ma lì ci sono dei morti, non i primi cui il terrorismo ha abituato, e nemmeno gli ultimi, purtroppo, visto che solo due anni separano la notizia del rapimento dal grande shock collettivo costituito dalle bombe alla stazione di Bologna. Ci sono dei morti su cui le telecamere indugiano mostrando senza spiegare, in un dramma che non riesce a farsi tragedia per mancanza di una scrittura scenica, di una distanza testimoniale che provi a reinterpretare e avvalorare. Il panico che prende gli spettatori davanti ai televisori è dato dall’abisso che si squaderna improvvisamente sullo schermo, dove non appare solo una notizia, per quanto tragica, ma l’esibizione della morte recente, della violenza barbarica che richiama solo l’emozione e il pianto.

L’ambigua verità delle immagini

A leggere la ricostruzione della copertura mediatica del rapimento Moro, appare in tutta la sua chiarezza il ruolo centrale della televisione nella sua dimensione ambigua di apertura all’immediatezza della tragedia. Cominciamo dal diverso ruolo del Tg1 e del Tg2, il secondo dei quali, dopo la prima notizia, ritorna solo più tardi per gli approfondimenti, ben inquadrati in una solida regia. Il Tg1, invece, la rete ammiraglia, sceglie un’altra strada: alle 10.01 vengono interrotte le trasmissioni e segue una edizione straordinaria della durata di 86 minuti e 10 secondi (seguita da una edizione pomeridiana di 108 minuti). Dodici di questi minuti sono dedicati alle riprese della troupe che accompagna Frajese (l’operatore è Claudio Speranza). Le scene sono variamente ripetute, selezionate e montate. Il servizio originario dura 2 minuti e 41 secondi e va in onda alle 10.10. Eccone la trascrizione:
«Audio originale. La telecamera portatile muove in avanti, riprendendo in campo lungo un assembramento di persone. Frajese descrive, ansimando, la scena, precisando via e ora. Zoom-in sui tetti delle auto in mezzo alla folla. La troupe imbocca Via Fani, avvicinandosi alla 128 e alla 130 di Moro. Si scorgono altri operatori video. Primo piano all’interno delle auto. Panoramica. Frajese descrive emozionato la scena. Dettaglio delle borse a terra, di un berretto da aviere. Ipotesi di Frajese sulla natura del berretto. Dettaglio di un caricatore di mitra. Zoom-out e panoramica su Alfetta bianca della scorta. Dettaglio dei buchi sulla carrozzeria e sui vetri. Panoramica verticale in basso fino a inquadrare un corpo steso a terra, coperto da un lenzuolo. Frajese insinua che potrebbe trattarsi di un passante. Dettaglio della mano del cadavere, di sangue sull’asfalto, su una pistola, su dei bossoli»[154].
La scena è agghiacciante, anche a rivederla oggi, anche a rileggerla. Il servizio pubblico radiotelevisivo, o almeno una sua testata (la più autorevole e istituzionale), la mostra nella sua brutalità per una complessa serie di ragioni: il caso che pone Frajese sul posto praticamente da subito; l’idea di offrire istantaneamente la presa diretta di quello che si intuisce come un momento storico capitale; il senso dello scoop giornalistico tradizionale; una nuova disponibilità a rompere la rigida routine del palinsesto in un happening informativo che produce certamente ascolti, emozioni, adesione. Qualunque giudizio si voglia dare di quelle scelte e della rappresentazione in diretta che ne derivò, rimane il fatto che quel drammatico evento nazionale fu l’inizio della Tv verità, e di essa, genere destinato a esplodere negli anni Ottanta, svelò da subito il lato oscuro e razionalmente irredimibile, anche se radicato in una volontà di svelamento e di servizio. Accadrà lo stesso con Vermicino e – se possibile ancora più drammaticamente – con l’assurdità dell’Heysel e delle sue morti insensate. Ma queste storie le racconteremo più avanti.
Torniamo comunque al rapimento Moro e alla quasi diretta Rai. Vale la pena citare le parole dell’allora capo della Redazione cronaca, Leonardo Valente:
«Al Tg1 dopo la riforma del ’75 abbiamo dovuto specializzare un nucleo di cronisti che prima non esisteva. Ciò ha fatto sì che arrivassimo con una certa preparazione agli avvenimenti drammatici concernenti il terrorismo, dei quali il caso Moro è stato quello più emblematico, ma non l’unico. Siamo così riusciti in diverse circostanze di terrorismo a drammatizzare la notizia. Era una cronaca molto realistica, con immagini forti che in passato sarebbero state buttate via. Ci siamo abituati a immaginare immagini sanguinose e a evidenziarlo solo in casi eccezionali, anche per dovere di documentazione. Quindi anche per il caso Moro riuscimmo a fare dei servizi molto drammatici. Non credo però che ci sia stata in quella occasione specifica la volontà di drammatizzare. Eravamo tutti scioccatissimi per l’accaduto»[155].
La dichiarazione autoriflessiva di Valente è interessante sotto diversi punti di vista. In primo luogo ci racconta le conseguenze dirette sul modo di fare informazione da parte della Rai dopo la riforma del 1975, di cui ci siamo già occupati nelle pagine precedenti. Quella riforma aveva modernizzato e svecchiato gli apparati informativi del servizio pubblico (soprattutto televisivo) e in generale aveva enfatizzato il ruolo della diretta. Come Valente ricorda, questa nuova filosofia di aderenza al mutamento del reale aveva anche comportato la caduta di alcuni vincoli «moralistici», legati alla violenza delle immagini e al loro più generale impatto emotivo. D’altronde, ricorda ancora il caporedattore, il terrorismo era ormai stato incorporato come filone contenutistico, e alla violenza della realtà si adeguava in misura crescente – proprio per la sua nuova e spregiudicata natura informativa – il giornalismo Rai. Con grande lucidità, Valente definisce questa operazione di racconto della realtà come «drammatizzazione», con tutte le ambiguità del termine.
Comincia dunque qui, da molti punti di vista, quel percorso della cosiddetta Tv verità, che segnerà il futuro del mezzo. E comincia, è bene ricordarlo, a partire dal pedinamento del reale tipico del giornalismo, ma insieme dalla sua forzatura, dalla consapevolezza che questo giornalismo non può farsi sfuggire il controllo sulla notizia e sul modo di raccontarla. Saranno i fatti di Vermicino a far comprendere fino in fondo il lato oscuro di questa vocazione alla drammatizzazione. Ma non sorprende che – nell’intervista citata – Valente non guardi a questo fattore, anzi piuttosto rivendichi la natura di «finestra su un mondo brutale» della Tv cui partecipa come giornalista del servizio pubblico.
Insomma, a guardare al caso Moro come evento mediatico[156] diventa chiaro un fenomeno che attraverserà tutto il lungo decennio che stiamo considerando: la conversione di una tendenza degli anni Settanta in una motivazione e in un significato sociale differenti da quelli originari. I giornalisti del Tg1 fanno il proprio mestiere: vengono da una scuola di strada e di sangue che non li fa retrocedere davanti alla violenza, soprattutto di natura terroristica, e alla sua rappresentazione. Possiamo immaginare che all’assuefazione anche a quest’ultima avesse contribuito il proliferare di rappresentazioni finzionali: il cinema poliziottesco, ma anche la tarda esibizione western dell’inevitabile sanguinosità delle rivoluzioni e dei cambiamenti sociali (Sergio Leone o Sam Peckinpah, un autore molto amato in Italia), per non fare che due esempi. D’altronde il giornalismo Rai si sente spinto dalla riforma appena entrata in vigore a scendere in strada, a pedinare la realtà. Si tratta di una logica di svelamento e di implicazione per molti versi nuova, soprattutto per il servizio pubblico radiotelevisivo. Ma insieme, sottilmente, quello che viene sdoganato dalla lunga diretta del Tg1 sul rapimento di Moro è l’idea che la realtà possa prendere il sopravvento sulla narrazione al punto da dettarne le regole, i tempi, il senso. L’informazione Rai vuole governare in modo nuovo e adeguato quell’evento (anche grazie alle nuove risorse tecniche), ma in qualche modo ne è governata. La televisione in grado di pedinare e svelare la realtà si trasforma così in un primo nucleo di Tv verità, facendo scoprire il primato degli eventi drammatici sul loro racconto; in fondo, la resa della ragione televisiva davanti all’emotività dei fatti.
A sancire l’importanza della svolta, l’incastro tra il turning point politico segnato dalla vicenda Moro e la trasformazione del sistema mediale italiano, arriva poi un’ulteriore coincidenza, in atto questa volta alla fine del rapimento, nel momento del ritrovamento del cadavere dello statista (9 maggio 1978). È questa volta una televisione privata – naturalmente romana –, Gbr, a girare le prime immagini del cadavere chiuso nel portabagagli di un’auto (una Renault 4 rossa). La redazione di Gbr era stata costituita da Franco Alfano, che nel giorno fatidico, avvisato del ritrovamento di un’auto sospetta, si infiltra sul posto, superando le prime barriere di ordine pubblico. Vede dunque la scena. Il suo operatore la riprende. Le immagini vengono trasmesse dall’emittente e poi cedute gratuitamente alla Rai (con l’unico obbligo di lasciare visibile il marchio di Gbr). Si tratta del primo grande scoop informativo di una Tv privata in Italia, che sancisce in qualche modo l’ingresso dell’emittenza televisiva «libera» o «commerciale» nel panorama della «grande» comunicazione. Ma – simbolicamente – il caso Gbr-Alfano ci parla anche di ciò che avverrà poi nel decennio che iniziava, e che avrebbe visto il trionfo di un certo modello di concorrenza televisiva.
Gbr era nata come radio privata nel 1974, e dal 1976 aveva cominciato il proprio percorso televisivo. L’imprenditore che l’aveva fondata, Giovanni Del Piano, era proprietario di una piccola catena di negozi di elettronica e di impianti di ripetizione laziali[157]. L’emittente – che subì come molte altre interventi restrittivi da parte dell’autorità giudiziaria – trasmetteva essenzialmente musica e intrattenimento. Ma la redazione giornalistica di Franco Alfano si rivelò presto un piccolo gioiello informativo. È allora interessante seguire le vicende successive. Alfano approda ben presto alla Rai. L’emittente è in una fase complessa, con la radio che involve fino alla cessione delle frequenze e la Tv che viene invece rilevata da un’altra società, la quale affida la direzione all’attrice Anja Pieroni e si affilia al circuito Cinquestelle. Con la svolta, la Tv entra nell’influenza del Partito Socialista di Bettino Craxi e ne segue i destini. La sintesi è in un articolo del «Corriere della Sera» dell’8 marzo 1996, intitolato Fallisce Gbr, Tv degli anni d’oro di Craxi. Eccone un breve passaggio:
«E se ne va anche Gbr. Aveva resistito al tramonto di Bettino Craxi. [...] Ma [...] il Tribunale di Roma ha emesso sentenza di fallimento per la società che la controllava. Si chiude così quella che è stata nel bene e nel male un pezzo di storia degli anni Ottanta. Una storia legata anche a un personaggio come l’attrice Anja Pieroni. Una donna dagli occhi chiari e dallo sguardo di bambina che i giornali dell’epoca timorosamente definivano ‘amica’ di Bettino. Quanto quest’amicizia fosse spinta era oggetto di chiacchiere e pettegolezzi. Fatto sta che per gli studi televisivi dell’emittente romana passavano tra l’incredulità dei ‘televisionari’ programmi e ospiti degni dei grandi network televisivi nazionali. Certo, poi, qualche anno più tardi, magistrati milanesi e romani cominciarono a interessarsi del fatto che qualcuno dei rivoli di Tangentopoli forse sfociava anche dalle parti di Gbr. E che qualche società pubblica, probabilmente ansiosa di avere la propria pubblicità su Gbr, era disposta a pagare tariffe ben superiori a quelle di mercato. Ma proprio con Tangentopoli e l’esilio di Craxi, per Gbr il futuro si fa buio. Fino alla decisione di ieri del Tribunale di Roma che ha emesso una sentenza di fallimento»[158].
Ecco: vediamo qui la sintesi della complessa trasformazione – appena agli albori nel 1978 – dell’emittenza televisiva privata, destinata a crescere e svilupparsi nel decennio degli Ottanta fino a portare al duopolio televisivo in cui Mediaset diventerà per anni l’unico, decisivo concorrente commerciale del servizio pubblico Rai, dotato di altrettanta forza in termini economici e di audience. L’emittenza televisiva privata nasce sul modello di quella radiofonica e si ispira alla medesima ambiguità fra comunicazione controinformativa e intrattenimento alternativo (tanto che è la redazione di Gbr a fare lo scoop durante l’epilogo dell’affaire Moro). Si sviluppa in sintonia con la crescita del potere socialista (persino nelle modalità «chiacchierate» del presunto rapporto fra il segretario del Partito e poi presidente del Consiglio Bettino Craxi e la direttrice della Gbr). Infine naufraga sulla vicenda Tangentopoli, insieme all’intera Prima Repubblica. In un’immaginaria struggle for life di quella specie nascente che è l’emittenza televisiva privata, televisioni come Gbr ricordano le varianti perdenti divorate dall’evoluzione, le farfalle con il colore sbagliato delle ali che volano solo un’estate prima di cadere sotto i becchi dei predatori, vittime della storia.

Piccoli fatti senza importanza

L’anno 1978 e l’affaire Moro rivestono davvero un ruolo simbolico nella storia dell’immaginario e dei media italiani. Alcuni eventi, concatenazioni, coincidenze sembrano scolpire attraverso metafore il senso di quello che stava a...

Indice dei contenuti

  1. — epigrafe
  2. PROLOGO
  3. Atto primo: Dell’utopia e della disillusione (1967-1977)
  4. INTERMEZZO
  5. Atto secondo Del sogno e dell’incubo (1978-1994)
  6. Epilogo
  7. Cronologia
  8. Ringraziamenti