Contro il massacro
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Contro il massacro

Gli interventi umanitari nella politica europea 1815-1914

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Gli interventi umanitari nella politica europea 1815-1914

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Gli interventi umanitari non sono affatto, come spesso si pensa, una invenzione recente: Davide Rodogno smonta un luogo comune e racconta una pratica internazionale assai controversa chiamata intervento umanitario, fra la caduta di Napoleone e la prima guerra mondiale. La storia risale quindi ad almeno due secoli fa, quando le grandi potenze europee si arrogarono il diritto morale e la legittimità politica di intervenire per salvare popolazioni straniere vittime di massacro, atrocità e sterminio. I casi di intervento riguardano specificamente popolazioni cristiane vittime di violenze commesse da regimi 'barbari' come quello turco, che violavano gravemente 'il diritto alla vita'.Rodogno esplora la percezione politica, legale e morale che gli europei svilupparono dell'impero ottomano e le ragioni per le quali quest'impero fu escluso dalla cosiddetta 'famiglia delle nazioni'. Esamina le ragioni ufficiali e ufficiose che portano le grandi potenze a intervenire in nome dell'umanità, la relazione tra la ragion di stato e le agitazioni nazionali e transnazionali dell'opinione pubblica, la natura selettiva e i pregiudizi dell'umanitarismo occidentale europeo del Diciannovesimo secolo.

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Informazioni

Capitolo 1. Il contesto internazionale degli interventi umanitari nel XIX secolo

L’essenza dell’intervento è la forza, o la minaccia della forza nel caso che i dettami della potenza che interviene vengano ignorati. Esso pertanto si differenzia chiaramente dal semplice consiglio o dai buoni uffici offerti da uno Stato amico senza alcuna idea di costrizione; dalla mediazione svolta da una potenza terza su richiesta delle parti in conflitto, ma senza alcuna promessa da parte loro di accettare le condizioni suggerite o alcuna intenzione [da parte della potenza mediatrice] di forzare i suoi pari ad accettarli; e dall’arbitrato, che ha luogo quando le parti contendenti concordano di rimettere la questione a un tribunale indipendente e accettano anticipatamente di rispettarne il giudizio arbitrale, anche se esso non dispone di strumenti per costringerle a obbedire alla sua decisione. Non può esservi intervento, da una parte, senza la presenza della forza, esplicita o velata, e dall’altra senza il consenso di ambedue le parti contendenti. Vi sono stati casi in cui una delle parti in causa ha chiesto l’intervento di una terza potenza; ma se ambedue le parti concordano su questa richiesta, l’interferenza non è più intervento ma diventa mediazione.
Thomas J. Lawrence
The Principles of International Law [1895], 2 voll., 4a ed. riveduta e corretta, MacMillan, London 1911, vol. 1, p. 124.
Il sistema internazionale europeo del XIX secolo, da alcuni storici definito «direttorio», rappresentò un ordine legale internazionale fondato su un principio di legittimità. Gli Stati europei accettarono le regole di questo sistema anche in materia di interventi. Fra le regole principali che gli Stati membri si diedero, la pace doveva essere garantita da un gruppo definito di Stati, le «grandi potenze»[43]. I principi del direttorio si ritrovano nel sistema, più modesto, noto come Concerto europeo, attraverso il quale le potenze europee si consultavano per comporre le divergenze dei rispettivi piani e ambizioni. Il Concerto europeo andava oltre il sistema dei pesi e contrappesi. Permetteva il raggiungimento del consenso tra «grandi potenze» conservatrici e antirivoluzionarie e contribuiva a mantenere la pace utilizzando la diplomazia come strumento per gestire le crisi suscettibili di metterla a repentaglio. Gli Stati europei, che condividevano civiltà e valori comuni, concertavano la limitazione del proprio diritto sovrano in un sistema di bilanciamenti complessi, applicando il diritto internazionale e procedure diplomatiche comuni[44]. Le «grandi» potenze, autoproclamatesi custodi della pace, si assunsero la responsabilità del mantenimento dell’ordine in Europa. Il Concerto era definito da cinque regole: 1) solo la pentarchia – ovvero le cinque «grandi» potenze – poteva decidere le grandi questioni europee, compresa la «questione d’Oriente»; 2) nessuna di esse doveva condurre guerre in Europa in funzione di conquiste territoriali, o promuovere rivoluzioni o agitazioni politiche nel territorio o nella sfera degli interessi vitali di un’altra grande potenza, neanche nell’impero ottomano; 3) non poteva essere sollevata alcuna questione internazionale che fosse di interesse vitale per una grande potenza senza il consenso di quest’ultima; 4) in caso di controversia, nessuna poteva rifiutarsi di prendere parte a una conferenza internazionale o porre il veto alla partecipazione di un’altra grande potenza; 5) erano da evitare i conflitti tra grandi potenze e, qualora si fossero verificati, dovevano essere rimessi al Concerto[45]. Le decisioni, specialmente in questioni politicamente delicate come quella d’Oriente, dovevano essere prese all’unanimità; il voto contrario di una delle grandi potenze impediva la legittima composizione di qualsiasi questione. Vista la complessità dei rapporti e degli equilibri, le decisioni collegiali richiedevano lunghe ed elaborate fasi di preparazione.
Con alcune significative interruzioni durante la guerra di Crimea (1854-1856) e la guerra franco-prussiana (1870-1871), la diplomazia del Concerto favorì materialmente il mantenimento della pace fino a quando la creazione di due blocchi, la Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) e la Triplice Alleanza (Germania, Austria-Ungheria e Italia), impedì al Concerto di funzionare. L’impero ottomano divenne formalmente membro del Concerto d’Europa dopo la guerra di Crimea. La partecipazione della Sublime Porta al Concerto, subordinata al rispetto di precise clausole previste dal Trattato di Parigi, che aveva posto fine al conflitto, durò solo dal 1856 al 1878. In questo periodo le potenze europee intervennero due volte per motivi «di umanità» in due diverse province ottomane: in Libano e in Siria (1860-1861) e a Creta (1866-1868).
L’analisi del contesto internazionale dell’epoca è necessaria per comprendere perché l’intervento umanitario si manifestò in una forma peculiare, e perché questa pratica internazionale ebbe luogo in una precisa area geografica, l’impero ottomano (lo Stato-target), e in un particolare contesto geopolitico, quando i cristiani ottomani furono vittime di massacri, atrocità e sterminio.

Il concetto e la pratica dell’«intervento»

Nel corso del XIX secolo i governi europei intesero il termine «intervento» come un processo politico-militare spesso ibrido, un’azione politica coercitiva e non richiesta e/o in qualche modo forzosa da parte di uno Stato esterno (o di più Stati), una via di mezzo tra pace e guerra. Sin dal Congresso di Vienna, gli statisti europei tennero ben distinti concetto e pratica di intervento e atto di guerra. La Santa Alleanza del 1815 propose il principio dell’intervento armato negli affari interni di altri Stati sovrani per restaurare monarchie legittime spazzate via da rivoluzioni. Gli studiosi di diritto erano in disaccordo su alcuni aspetti relativi alla pratica dell’intervento, ma concordavano ampiamente sul fatto che si trattasse di un’azione coercitiva, avente obiettivi e durata limitati[46]. Nei casi d’intervento rientravano azioni intese a fare rispettare diritti e obblighi derivanti da trattati; a prevenire atti ostili; a mantenere l’equilibrio delle forze; a tutelare o creare istituzioni politiche; a reprimere l’intolleranza e l’anarchia; e a imporre riparazioni per i reati contro la vita e la proprietà[47].
Nel 1860, con il termine «intervento» lo studioso inglese Montagu Bernard, docente di diritto internazionale a Oxford, sul quale ritorneremo, intendeva l’interferenza, forzosa o con il supporto della forza, di uno Stato indipendente negli affari interni di un altro. Le opinioni di Bernard sull’intervento si basavano sulla giurisprudenza e sulla recente storia delle relazioni tra le potenze europee. A suo modo di vedere, l’«intervento» era una circostanza eccezionale. Il principio fondamentale delle relazioni internazionali era quello del non intervento, che proibiva precisamente di interferire negli affari interni di uno Stato sovrano, cioè nella relazione di un governo con i suoi sudditi[48]. La definizione di Bernard era ampiamente condivisa da altri eminenti giuristi, come Thomas J. Lawrence[49]. Uomini di Stato e giuristi europei riconoscevano che un ricorso eccessivo all’intervento coercitivo poteva sconvolgere il sistema internazionale. Consideravano quindi l’intervento armato un evento eccezionale e vi facevano ricorso con la massima circospezione, per timore che potesse degenerare in una guerra.
Nel 1815 gli esperti europei di diritto internazionale parlavano di Stati o nazioni come di organismi legali e politici che governavano un popolo, principalmente secondo il concetto dello Stato nazionale, avente un territorio definito e retto da un potere statale sovrano[50]. Per sovranità, gli europei dell’Ottocento intendevano il possesso da parte di un paese europeo dei simboli riconosciuti della qualità di Stato indipendente, e l’immunità da controlli o sanzioni dall’esterno. Il corollario del principio di sovranità era la regola del non intervento negli affari di competenza esclusiva di uno Stato. Questo principio, sviluppato in gran parte da Emer de Vattel verso la metà del XVIII secolo, oltre alla minaccia o all’uso delle armi, escludeva anche qualsiasi altra forma di pressione che superasse i limiti di ciò che era legalmente consentito nei confronti delle competenze di un altro Stato, che implicasse o meno misure di carattere economico o finanziario o di altro tipo.
In linea di massima, i governi europei rispettavano la sovranità degli altri Stati europei e il principio di mutuo non intervento nei rispettivi affari interni. Nel sistema multipolare internazionale europeo l’intervento aveva luogo quando le maggiori potenze si dichiaravano d’accordo. Esse erano spinte da una varietà di considerazioni che non erano dettate unicamente dall’equilibrio di potere[51]. Per un verso, gli Stati intervenivano negli affari interni dei paesi confinanti (specialmente di quelli «minori») perché temevano che gli sviluppi della situazione interna in altri paesi potessero minare la propria sicurezza, sia aumentando le occasioni di conflitto con altri Stati, sia indebolendone la legittimità dei regimi. Gli interventi militari della Santa Alleanza dopo il 1815 furono determinati appunto da questi timori. Gli Stati contemporanei – compreso il governo britannico, che contestava duramente la legalità e la legittimità di questo tipo di operazioni militari[52] – non consideravano «guerre» tali interventi (e non li definivano mai «umanitari»). Per altri versi, valori collegati solo vagamente a interessi materiali o di sicurezza spingevano alcuni Stati a fare pressione su altri Stati perché cambiassero il modo in cui trattavano i propri sudditi o i propri cittadini, come nel caso della Gran Bretagna e del suo impegno per l’abolizione della tratta degli schiavi[53]. Nonostante il commercio degli schiavi non minacciasse direttamente in alcun modo l’integrità politica o territoriale della Gran Bretagna, il governo britannico impiegò risorse finanziarie, forze militari e vite umane per giungere alla sua totale abolizione.
Le operazioni di polizia condotte dalla Marina britannica nei primi anni dell’Ottocento per porre fine alla tratta degli schiavi costituirono un’eccezione rispetto al principio, condiviso dalle «grandi» potenze europee, di non intraprendere operazioni coercitive nei rispettivi territori metropolitani e coloniali per influire sul trattamento dei sudditi o cittadini. Dopo le guerre napoleoniche e a causa degli sconvolgimenti da esse provocati, il principio di non intervento negli affari interni di altri Stati allo scopo di mantenere la pace si estese persino alle azioni volte a reprimere l’intolleranza e l’anarchia, o a imporre riparazioni per la violazione del diritto alla vita e alla proprietà. Di conseguenza, il verificarsi di un massacro entro i confini delle potenze europee non dava origine ad alcun intervento militare, come avvenne in varie occasioni: la repressione a opera delle autorità russe delle insurrezioni dei cattolici polacchi negli anni Trenta e negli anni Sessanta dell’Ottocento; i pogrom scatenati contro gli ebrei alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento; le decine di migliaia di donne e bambini che morirono di malattie e di fame nei campi di concentramento britannici durante la guerra anglo-boera tra il 1898 e il 1902; le oltre 60.000 vittime civili fra gli herero nella colonia tedesca dell’Africa sudoccidentale sterminate dalle autorità germaniche.
Il sistema e il diritto internazionale del XIX secolo stabilirono una gerarchia discriminatoria tra Stati europei e non europei basata sul principio della presunta superiorità della civiltà europea rispetto a tutte le altre. La norma del non intervento negli affari interni di uno Stato sovrano si applicava solo alle nazioni «civilizzate» europee. La comunità degli «Stati civilizzati», che erano a pieno titolo membri della cosiddetta «famiglia delle nazioni», comprendeva gli Stati europei e gli Stati Uniti d’America. Gli Stati non europei, impero ottomano compreso, non erano membri del club delle «nazioni civilizzate». L’impero ottomano era al di là dei confini della civiltà; nell’ottica dei governi occidentali era uno Stato «barbaro» o al massimo «civilizzato a metà», la cui sovranità non era né riconosciuta né rispettata dagli europei, neanche durante il periodo 1856-1879, quando fu ammesso al Concerto d’Europa. Di seguito saranno esaminate le circostanze nelle quali le potenze europee intervennero militarmente entro i confini di uno Stato «non civilizzato» come l’impero ottomano e quali criteri furono adottati per giustificare tali interventi.

La «questione d’Oriente»

Durante la seconda metà del XVIII secolo l’impero ottomano si dimostrò incapace di fronteggiare l’espansionismo della Russia e di altre potenze europee. Nel 1798 un corpo di spedizione francese comandato da Napoleone Bonaparte invase e occupò l’Egitto[54]. Fu una squadra della Royal Navy agli ordini di Horatio Nelson a costringere i francesi al ritiro, dimostrando che una potenza europea poteva agire a suo piacimento nei territori ottomani e che solo l’intervento di un’altra potenza europea avrebbe potuto imporre il ritorno allo status quo ante. L’impero ottomano «terrore del mondo» era ormai uno Stato debole e vulnerabile, che, per i suoi disordini interni, costituiva una seria minaccia per la pace in Europa. Per tutto il XIX secolo, temendo che l’implosione dell’impero ottomano potesse dare origine a una guerra per la spartizione delle sue spoglie, le potenze occidentali giunsero alla considerazione che fosse meglio mantenerlo in vita (anche se non necessariamente integro). Le «grandi» potenze intervennero frequentemente per ragioni tutt’altro che umanitarie e legate esclusivamente al mantenimento della pace internazionale.
Nell’ottobre 1831 Mehmet Ali d’Egitto, vassallo del sultano, inviò un corpo di spedizione comandato dal figlio Ibrahim in Siria, una provincia ottomana. Ibrahim sconfisse l’esercito ottomano e penetrò in Anatolia. La sua avanzata fu bloccata da un intervento militare della Russia e dell’Austria. Il sultano Mahmud II sottoscrisse la Convenzione di Kütahya (aprile-maggio 1833), che concedeva al signore d’Egitto il possesso a vita delle province siriane e del distretto di Adana. La ricompensa per il sostegno fornito dai russi fu il Trattato di Hünkâr I˙skelesi (o Unkiar Skelessi), che impegnava la Russia e l’impero ottomano a prestarsi mutua assistenza e un sostanziale aiuto nel caso di un attacco, e sanciva la chiusura degli Stretti alle navi da guerra straniere. Nel 1839 Mahmud II inviò in Anatolia un esercito ottomano che fu sconfitto di nuovo dalle forze egiziane. Nel luglio 1840 le potenze europee intervennero e sottoscrissero la Convenzione di Londra per la pacificazione del Levante. In cambio della sottomissione al sultano e della restituzione della flotta ottomana, a Mehmet Ali furono offerti il possesso ereditario dell’Egitto e l’amministrazione della Siria meridionale a titolo vitalizio. Al rifiuto di Mehmet Ali, la flotta britannica e quella austriaca imposero un rigido blocco navale contro la Siria e il Libano e bombardarono Beirut. Il 10-11 ottobre l’esercito egiziano fu sconfitto da una forza militare anglo-turca alla quale si aggiunsero ribelli libanesi. La flotta britannica fu inviata nelle acque di Alessandria e Mehmet Ali fu costretto ad accettare un armistizio. Gli interventi appena ricordati sostennero e rafforzarono il governo ottomano al fine di mantenere la pace in Europa. Le medesime «grandi» potenze intervennero invece contro le stesse autorità ottoma...

Indice dei contenuti

  1. — epigrafe
  2. Introduzione
  3. Capitolo 1. Il contesto internazionale degli interventi umanitari nel XIX secolo
  4. Capitolo 2. L’esclusione dell’impero ottomano dalla «famiglia delle nazioni» e la dottrina giuridica dell’intervento umanitario
  5. Capitolo 3. L’intervento a favore dei greci (1821-1833)
  6. Capitolo 4. L’intervento nelle province ottomane del Libano e della Siria (1860-1861)
  7. Capitolo 5. Il primo intervento a Creta (1866-1869)
  8. Capitolo 6. Il non intervento durante la crisi d’Oriente (1875-1878)
  9. Capitolo 7. Intermezzo: il contesto internazionale (1880-1908)
  10. Capitolo 8. Il non intervento in difesa degli armeni ottomani (1886-1909)
  11. Capitolo 9. Il secondo intervento a Creta (1896-1900)
  12. Capitolo 10. L’intervento senza l’uso della forza nelle province ottomane della Macedonia (1903-1908)
  13. Capitolo 11. Scenari contemporanei. Riflessioni su un paradigma
  14. Bibliografia[951]