Identità
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L'altra faccia della storia

  1. 114 pagine
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Identità

L'altra faccia della storia

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Occorre sapere che, lungi dall'essere stabili, fissate una volta per tutte, le identità mutano, cambiano, tramontano, e a farlo capire, ad abbassare il rischio di restarne ottusamente prigionieri, a fungere da salutare antidoto – ci insegna Prosperi – è solo la conoscenza della storia. Una storia lunga e profonda che va ben oltre il solo Novecento. Massimo Firpo, "Il Sole 24 Ore"

Che cosa rivela l'inarrestabile diffusione della retorica identitaria? Il fatto che nella nostra epoca, mentre le merci e gli oggetti si mondializzano, gli esseri umani si tribalizzano. Fabbricare le identità serve soprattutto a questo, ad alzare una barriera di tradizioni e religioni che protegga 'noi' dagli 'altri', ignorando la dimensione del mutamento da cui nessuna storia è immune. Come tutto ciò che serve a distinguere e a prendere coscienza di una separazione, la parola 'identità' contiene un potenziale violento pronto a giustificare aggressioni e guerre.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858133477

I. Identità: uno, nessuno, centomila.
Questioni di parole e di cose

Decifrare le complicazioni dell’identità sta diventando difficile quasi quanto il compito di declinarne una nell’attraversare le molte barriere vecchie e nuove che tendono a dividere il nostro mondo multiculturale e teoricamente globalizzato. Perciò vale la pena di chiedere aiuto, per entrare in argomento, a un amabile poeta della vecchia Roma: Cesare Pascarella.
Apriamo la sua Scoperta dell’America e leggiamo il primo incontro di Colombo con un indigeno: un uomo “buffo, vestito mezzo ignudo, co ’na cresta / tutta formata di penne d’uccello”. Colombo e i suoi si fermano, lo interpellano: “Ah quell’omo! – je fecero – chi siete?”. “Eh – fece, – chi ho da esse’? So’ un servaggio”. Il riso, si potrebbe dire con Freud, nasce dal ritorno del represso, cioè dall’affiorare alla coscienza di una sopraffazione storica: l’imposizione a interi popoli di una identità collettiva che ha legittimato la loro riduzione in servitù e li ha spogliati della loro cultura, mentre su quella stessa definizione di “selvaggi” veniva costruito un impero coloniale e la pretesa di superiorità della civiltà europea.
Ecco come si fabbrica un’identità. Ci voleva la voce dialettale di un poeta romanesco per dire qualcosa di vero nel contesto dell’incipiente imperialismo italiano del tardo Ottocento: dirlo in tono minore, per lettori popolari, in una cultura italiana che stava faticosamente imparando dalle nazioni imperiali europee a gonfiarsi i muscoli nelle imprese africane di un colonialismo straccione, ma non per questo meno violento e assassino dei suoi modelli maggiori. Con ben altro respiro e dispiegamento di antichi e nuovi saperi e di creatività letteraria la Francia dell’Ottocento aveva inventato, catalogato e raccontato l’Egitto, e quella inglese aveva fatto dell’India una provincia aperta alla formazione dell’élite di potere impersonata dal Kim di Kipling: la letteratura, come ha spiegato brillantemente Edward Said, ha qualcosa da dirci su come le nostre culture si sono nutrite di identità “altre” nate da rapporti e progetti di dominio1.
Davanti all’Italia appena nata come nazione si paravano due strade: quella di riallacciarsi alla migliore tradizione di una curiosità libera e aperta alla conoscenza del mondo qual era stata quella del suo Cinquecento, oppure avviarsi alla fabbricazione di stereotipi dell’alterità da calare sulle plebi interne e sui “selvaggi” esterni, nel solco di quel topos delle “Indie interne” creato dai gesuiti della Controriforma per l’impresa di costruzione di un sapere funzionale al dominio e allo sfruttamento. E se la buona scuola filologica e storica dell’università italiana riprese il filo della raccolta delle Navigazioni e viaggi di Giovanbattista Ramusio e contribuì alla conoscenza del contesto intellettuale e scientifico dell’impresa di Colombo con un’eccellente impresa di storia e di filologia (la Raccolta di Documenti e Studi pubblicati dalla R. Commissione Colombiana), ben altre furono le proposte italiane per affrontare il problema della diversità delle culture: quel che si diffuse nella cultura europea fu l’antropologia di Cesare Lombroso. L’antropologia è “l’ancella del colonialismo”, secondo l’autorevole definizione di Claude Lévi-Strauss. Ma quella di Lombroso fu un’antropologia come scienza fisica delle differenze di razza: con quella sua anatomia della devianza2 si evitava la fatica di indagare le culture e si passava direttamente alla legittimazione scientifica del destino di emarginazione e di eliminazione dei diversi e dei ribelli.
Torniamo a quella flebile verità dei versi di Pascarella. Vi si raccontava qualcosa che era iscritto nella storia delle classi popolari: la violenza delle definizioni elaborate dal potere dominante. Quanta violenza si nascondesse dietro i saperi del potere, il mondo delle classi popolari italiane lo sapeva per esperienza e ancor più doveva impararlo nella fase dell’unificazione amministrativa e politica del paese. Ma non fu quella la versione entrata nella cultura dominante. Di fatto, se Pascarella avesse scritto che Colombo incontrò un popolo di selvaggi, l’effetto amaramente comico sarebbe mancato del tutto. Che l’identità collettiva dei popoli scoperti in quel primo incontro fosse quella definibile col termine di “selvaggi” è una nozione diffusa e diventata senso comune, in forza anche del fatto che la “famiglia selvaggia” era stata decimata dalla croce e dalla spada, come ha scritto Pablo Neruda nella sua Oda a la Araucaria Araucana.
Ma lasciamo da parte il discorso sulla letteratura e sulla cultura italiana tra Ottocento e Novecento, che richiederebbe altro e più analitico esame. Basti evocare quel paesaggio dove l’imperialismo e il razzismo si mescolarono alla tradizione caritatevole delle missioni cattoliche e dove i rivoli di lacrimoso socialismo diffusi nell’epopea dell’emigrazione3 si trasformarono rapidamente nella vocazione bellicista dei poeti-vati, da Pascoli a D’Annunzio. Ma bisognerebbe indagare meglio il modo in cui i germi del razzismo furono diffusi nella cultura destinata alle neonate scuole statali attraverso le classificazioni dei popoli secondo lo schema delle differenze “naturali” delle culture, preparando il terreno all’acquiescenza collettiva all’introduzione delle leggi razziali del 1938.
Torniamo a quella definizione di “selvaggi”: era stata calata fin dall’inizio sui popoli del continente scoperto dagli europei. Venne poi surrogata e sostituita da altre definizioni relative alle credenze religiose – popoli “pagani”, “gentili” – e dalla definizione generale di “barbari” che Michel de Montaigne doveva criticare con la fulminante individuazione del vizio originario dell’etnocentrismo: “Ciascuno chiama barbarie ciò che non rientra nelle sue abitudini”. Ne ricaviamo subito una constatazione elementare: c’è differenza tra il senso della propria identità e quello che ne ha il potere o i poteri che ci dominano. E c’è un uso del termine “identità” per dividere, distinguere, classificare l’umanità in gruppi determinati.
Non è da oggi che i popoli e gli individui vengono classificati e divisi sulla base di caratteri che si immaginano permanenti, immutabili. Un esercizio importante nella conoscenza razionale del mondo, quello del classificare e ordinare: che però quando si tratta non di minerali o di specie animali ma della specie umana sostituisce la conoscenza effettiva delle differenze storiche, culturali, ambientali, per degenerare in un duplice abuso: 1) quello di concepire la distinzione come barriera da alzare tra un gruppo umano e un altro; 2) e quello di ignorare la dimensione del mutamento che appartiene alla storia.
È ciò che sta accadendo nei tempi recenti e che caratterizza l’uso del termine “identità” nel linguaggio corrente della comunicazione sociale e politica. Si tratta di un fenomeno tipico della nostra epoca: che è quella in cui – com’è stato notato – le merci e gli oggetti si mondializzano mentre gli esseri umani si tribalizzano. Una reazione generale di chiusura e di rifiuto si è diffusa come contropartita della fine delle barriere che dividevano e segmentavano il mondo: prima la decolonizzazione, poi la caduta della cortina di ferro culminata nell’abbattimento del muro di Berlino, hanno avuto importanti effetti economici e politici e hanno stimolato l’avanzata di una cultura uniforme comune a tutte le periferie del mondo, suscitando reazioni difensive impaurite e un diffuso rifugiarsi sotto il mantello protettivo di tradizioni e religioni.
Osservatori attenti come Arthur Koestler ne individuarono i primi segni nelle società del defunto impero coloniale britannico4. Da allora il fenomeno è andato allargandosi e ha investito le società europee. Il tanto parlare di identità nasce da qui. Ma per la prima volta siamo stati posti davanti alla denunzia documentata della relazione tra gli stereotipi delle identità “altre” creati dal potere coloniale e la perpetuazione del dominio in altre forme: è con l’opera di Edward Said, studioso e intellettuale di frontiera, che la rappresentazione dell’Oriente elaborata dall’orientalismo occidentale è stata ricondotta a forze e progetti di natura politica, diventando uno strumento di semplificazione e di opposizione nelle mani del potere dominante5. È stata così posta all’ordine del giorno della riflessione intellettuale la critica degli stereotipi oppositivi di cui si nutre oggi il rinnovato tentativo di rinsaldare quel potere nelle mutate condizioni della società post-coloniale, quelle della cosiddetta globalizzazione: un sistema in cui “una piccola élite finanziaria ha diffuso il proprio potere su tutto il mondo, facendo aumentare il prezzo dei beni e dei servizi, ridistribuendo la ricchezza dai settori a reddito più basso... a quelli di reddito più alto”6.
La diffusione inarrestabile del termine “identità” è il sintomo più evidente di un conflitto in atto: la parola, denunziata come sintomo di un pericolo e oggetto di dotte disquisizioni e di appassionate testimonianze, conosce specialmente nella terminologia degli storici un successo quasi senza opposizioni. E prende il posto nel loro linguaggio di termini un tempo tradizionali, come civiltà, cultura, mentalità. Per questo il tema sembra particolarmente adatto a essere trattato da chi fa per mestiere lo studioso di storia. Le considerazioni che seguono partiranno da una premessa sullo stato della discussione generale sull’identità e sulle ragioni dell’affermazione di questo termine nel linguaggio corrente e si articoleranno nell’analisi di tre tipi di identità, indicate con un titolo pirandelliano che qui era d’obbligo: uno, nessuno, centomila. 1) L’uno è l’identità come coscienza individuale del proprio essere; 2) il nessuno è il suo contrario, l’assenza di identità (a sua volta divisibile per tre: per condizione biologica o psichica, per rifiuto deliberato, per espropriazione violenta); 3) infine, nei centomila indichiamo la coscienza di una appartenenza collettiva, di gruppo, come qualcosa che si può imporre, ereditare e conservare, ma anche perdere, rifiutare o recuperare: e qui interviene l’azione del potere e la risposta dell’individuo, materia che interessa e riguarda da vicino gli storici.
Ma soffermiamoci un attimo su una questione preliminare: che cosa è l’identità e perché se ne discute tanto?
Di identità si parla ormai abitualmente. È un termine usato normalmente dal potere e dalla cultura: figura nel linguaggio della politica e della religione, da lì rimbalza in quello di sociologi, psicologi, filosofi, teologi e anche storici. Ora, l’emergere di una parola sulle altre nel linguaggio è sicuramente un sintomo importante: come dice il proverbio, la lingua batte dove il dente duole. E il dente dolente in questo caso è nientemeno che il senso di sé dei singoli e delle collettività. Un senso che sembra problematico nel nostro tempo: tanto che di esso si occupano poteri e istituzioni. In Francia c’è un ministero dell’Identità nazionale. In Italia c’è un Dipartimento dell’Identità che opera nell’ambito del Consiglio nazionale delle ricerche: e, coerentemente col localismo nostrano, ci sono dipartimenti regionali e assessorati locali per l’identità. Nello statuto della Regione Lombardia, all’articolo 2 comma 4, si afferma che la Regione “persegue, sulla base delle sue tradizioni cristiane e civili, il riconoscimen...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. Identità: uno, nessuno, centomila. Questioni di parole e di cose
  3. II. L’Europa e le altre civiltà, le altre civiltà e l’Europa