Motivati si nasce o si diventa?
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Motivati si nasce o si diventa?

  1. 160 pagine
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Motivati si nasce o si diventa?

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Movimento, questo è il significato di 'motivazione'. È uno spostamento lento o veloce verso una direzione nota o sconosciuta. A volte è anche un fermarsi o un retrocedere perché «la motivazione va cercata, curata, capita, coltivata, incrementata, sviluppata, compresa ogni giorno». Angelica Moè illustra i principali modelli teorici, presenta le 'marce' e le 'armi' della motivazione, definisce le relazioni con gli aspetti emotivi, soprattutto le paure (di non riuscire, di non valere...) e le speranze (di farcela, di potere essere...). Infine, suggerisce esercizi per chiunque: demotivati, poco motivati, troppo motivati, alle prese con il faticoso compito di motivare gli altri.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115398

IV. Motivati e (in)soddisfatti

Motivato è bello.
Motivato, però, non significa necessariamente piacevolmente motivato o facilmente motivato. Talvolta uno stato di motivazione si accompagna ad emozioni spiacevoli, a fatica, a impegno. Con altrettanta frequenza può capitare che sia difficile motivarsi o riacquistare una motivazione, magari a fronte di frequenti insuccessi o dopo aver attraversato momenti caratterizzati soprattutto da paura e da tristezza.
Altre volte motivato non è bello, perché le motivazioni non sono le più funzionali. Può capitare perché ci vengono ‘imposte’, cioè quando ad essere motivati sono gli altri, che ci costringono a fare certe cose, non noi. Può accadere quando il tipo di motivazione che possediamo e il modo in cui la amministriamo non contribuiscono al benessere personale e non si traducono in costruzione e crescita di stati motivazionali positivi. Succede quando la motivazione non ci consente di essere soddisfatti, ossia di percepire che ciò che stiamo conquistando corrisponde ai nostri ideali, a quanto realmente consideriamo importante per noi, e ai valori in cui crediamo.
Insomma, è una lotta essere motivati ed esserlo bene!
L’inizio del capitolo irriterà qualche lettore, ma promette alcune armi che – ben sfoderate – vi aiuteranno nella fatica di conquistare le vostre motivazioni, con determinazione e coraggio; oppure di ri-conquistarle, al bisogno. Attenti però a padroneggiare bene le armi e a rivolgerle nella giusta direzione. Si tratta, insomma, di sapere cosa farsene, delle proprie motivazioni, prima di conquistarle.

4.1 Mal motivati e spiacevolmente motivati

Tutti i giorni della nostra vita ci troviamo
di fronte a una scelta: o la sofferenza di amare
o quella – ben peggiore – di non amare
Dag Hammarskjöld
Non potete leggere questo paragrafo. Dovete proprio passare al successivo. Dico sul serio o, almeno, prendete sul serio questa richiesta.
Come vi sentite? Ecco, la vostra risposta definisce chiaramente gli effetti della proibizione.
Come si sente una persona cui è proibito di fare qualcosa o di pensare, atteggiarsi, esprimersi come vorrebbe e talvolta – come in questo caso – per ragioni che non comprende?
La proibizione, ovvero negare a una persona di completare un compito che ha intrapreso o di portare a compimento una scelta fatta, presenta importanti risvolti negativi. In particolare:
1) riduce la frequenza di un comportamento con effetti immediati, ma non a lungo termine (fino a quando ‘il vigile’ è presente il divieto è osservato, non appena gira i tacchi, ‘in assenza del gatto i topi ballano’). Ciò è chiaro segno che non si è costruita una motivazione solida;
2) non produce il comportamento contrario a quello indesiderato (evito di fare una cosa, ma non faccio ciò che si aspettano da me). Questo può condurre addirittura ad abulia, cioè ad un atteggiamento caratterizzato dal desiderare di non fare niente.
In effetti, la proibizione indica che cosa non fare, ma non cosa fare. Semmai – stando sempre ad un livello di ‘comportamento’ (che è comunque altro da quello motivazionale) – è preferibile gratificare la persona che si atteggia nella direzione desiderata e lasciare che si estinguano eventuali comportamenti indesiderati, senza farli seguire da alcuna conseguenza.
La proibizione è un classico esempio di come si possa essere ‘mal motivati’ (perché non è una motivazione intrinseca e nella fattispecie porta anche ad evitare) e ‘spiacevolmente motivati’ (perché il processo motivazionale non risulta accompagnato da emozioni positive).
Esistono diversi altri ambiti in cui si può essere motivati sia in modo poco funzionale che spiacevole, e altri in cui la motivazione è efficace o comunque adattiva pur non essendo piacevole.
Non potendoli analizzare tutti ci soffermeremo su alcuni, in particolare, la motivazione a
– evitare anziché affrontare;
– ottenere rinforzi, se viene ad essere l’unica o la predominante;
– sfuggire da emozioni negative o da situazioni che potrebbero sostenerle.
La motivazione ad evitare risulta spesso disfunzionale, perché non consente di accrescere i livelli di auto-efficacia, favorisce l’assunzione di un modello che porta ad evitare sempre più, incrementa emozioni legate all’ambito delle paure, in particolare l’ansia (Pekrun et al., 2002). Ciò avviene perché meno si affronta un compito o una situazione, più si creano emozioni anticipate mai vissute e meno si affinano abilità e strategie utili nell’ambito specifico. Più mi dico «Non sono capace, non posso riuscire» maggiore sarà la mia propensione ad evitare e a sviluppare una rappresentazione di me stessa come ‘incapace’, facile fonte di emozioni spiacevoli. Diversamente, affrontare alimenta un sistema di fiducia che favorisce la percezione di essere capaci e quella, spesso correlata, di valere.
Quando capita di essere motivati ad evitare? In molti casi. Uno particolare si riferisce agli stereotipi e al timore di confermarli, definito anche stereotype threat (Steele e Aronson, 1995). Questa paura fa evitare di affrontare compiti e situazioni stereotipizzate negativamente. Ad esempio, ‘donna e matematica’, ‘anziano e memoria’ sono tipici accostamenti che fanno credere ad una donna di non riuscire in matematica e agli anziani di non ricordare altrettanto bene dei giovani. Un rovesciamento di questi stereotipi, attraverso istruzioni opposte (ad esempio ‘in questo compito di memoria vanno meglio gli anziani’), o meglio ancora sostenuto da un cambiamento nelle convinzioni (ad esempio credere che si può migliorare in attività stereotipizzate o di essere brave in matematica o anziani con buona memoria), fa rovesciare gli effetti sia sul piano motivazionale che su quello della prestazione oggettiva (Moè e Pazzaglia, 2006; Moè, 2009a; Moè, Meneghetti e Cadinu, 2009). Chi non si lascia ‘sedurre’ dagli stereotipi risulta libero di affrontare anziché costretto a compiacere una visione che lo porta ad evitare e – evitando sempre più – ad ottenere risultati che finiscono con il confermare la convinzione che pur si vorrebbe smentire.
«Se farai questo compito ti regalerò...»: mai sentita o detta una frase di questo tipo? È un esempio di motivazione data da rinforzi, sostenuta dall’aspettativa che ‘se farò xy otterrò’ e talvolta dall’abitudine che ‘ogni volta che farò xy otterrò’. Perché non è fra le migliori motivazioni? Ad essere motivato non è chi agisce, ma il motivatore. Lo stesso avviene se ad essere ‘promesso’ è un mancato rinforzo, ad esempio dicendo: «Se non farai i compiti non vedrai la tv». Appare evidente che il genitore si sentirà soddisfatto: «Bene! Visto che bravo che sono? Ho ottenuto l’effetto. Ha svolto gli esercizi». Sicuro di avere ottenuto anche la motivazione? Molto probabilmente il bambino si sarà sentito attratto e motivato dal rinforzo o premio (vedere la tv) anziché dal fare i compiti e forse avrà anche intuito che «Non vale la pena svolgere questi noiosi esercizi se non per fini assolutamente estranei ad essi» (= l’eventuale motivazione al compito risulterà inferiore). Insomma, avrà letto il compito solo come ‘ostacolo da superare’ per ottenere ciò che davvero interessa. Implicito in questo ragionamento sarà anche il dedicare meno attenzione, interesse e tempo possibile in ciò che in fondo pare essere solo la moneta da pagare per ottenere ciò che invece motiva davvero (e che comunque già motivava da prima: vedere la tv!).
Smuoversi da uno status quo per affrontare un compito nuovo è spesso fonte di emotività negativa. Lo dice la teoria comunicativa delle emozioni, secondo la quale prima di provare piacere nello svolgere un compito si passa necessariamente per espressioni di emotività negativa quali tristezza, paura, rabbia e forme associate (si veda anche il paragrafo 1.5). Se a motivare dovesse essere l’emozione positiva non affronteremmo mai il compito. Ecco perché spesso a smuovere (= motivare) è l’emozione che proveremo (quella sì è attesa come piacevole) e non quella che proviamo, che in itinere potrebbe assumere le più svariate sfumature in base a come stiamo andando e allo scorrere di pensieri e di aspettative, che fungono da inseparabili bagagli nei tanti viaggi motivazionali.
Lasciarsi guidare troppo dal flusso emotivo è un modo inadatto di motivarsi (disfunzionale per il benessere), perché slegato da un concetto motivazionale cardine: lo scopo. E difatti, si può essere spiacevolmente motivati, senza essere mal motivati. Ovvero l’equazione «motivato = piacevolmente motivato» non regge. Semmai il piacevolmente motivato è un sotto-insieme del motivato e talvolta un esito di un processo motivazionale, più raramente la scintilla che accende la motivazione.
Quando accade questo? Vi sono diversi casi. Il primo si ha quando ad essere perseguito è un obiettivo non immediatamente raggiungibile, come appena illustrato. Un secondo si realizza allorché si percepisce di ‘agire contro voglia’, non perché si è stati costretti da altri, ma in quanto si esercita un cosiddetto atto di volontà ovvero, avendo compiuto delle scelte, si agisce di conseguenza ed in coerenza con le stesse anche se i singoli compiti intrapresi sono percepiti come faticosi, spiacevoli e comportano delle rinunce.
L’importante è sapere a cosa si rinuncia, perché e per chi.
In ultima analisi, al di là del contenuto specifico degli obiettivi e di quanto una persona ci tiene e crede in essi, l’unica cosa a cui non si può rinunciare e da cui non si può sfuggire è una sola: se stessi. Questa istanza unica e irripetibile gestisce e coordina i vissuti emotivo-motivazionali e riassume il perché e il per chi dell’agire anche in percentuali traboccanti, oltre il 100%.
Chi di noi non si è mai sentito ribollire per la rabbia, con addosso una tristezza strisciante, fuor di sé per la gioia e l’entusiasmo? L’emotività talvolta ci prende ‘sopra 100’, oltre le nostre capacità di gestirla. Può quindi capitare che questa parte che sembra superare le nostre ‘forze’ e ‘risorse’ venga riversata sulle persone che ci stanno vicine, di solito familiari o colleghi di lavoro. Tutto questo – noto anche come condivisione sociale delle emozioni (social sharing: Rimé, 2005) – è naturalmente cosa apprezzabile quando si tratta di gratitudine, amore, gioia... È la bellezza del contagio emotivo. Più critica è la situazione quando a inondarci sono emozioni di rabbia, delusione, insoddisfazione, incertezza.
Vi è mai capitato di trovarvi in una nursery di un reparto maternità? Un bimbo inizia a piangere e subito altri cominciano ad imitare. Accade anche negli adulti. Se una persona ci attacca in preda all’ira, tenderemo a reagire con una emozione simile. Analogamente, una persona triste ci contagerà con la sua tristezza. Una allegra ci risolleverà il morale.
Nell’adulto, tuttavia, non vale solo il contagio. Possono essere messi in atto consapevolmente dei processi che conducono all’empatia, a ‘sentire l’emozione dell’altro’ e parimenti ‘avvertire la propria’ distinguendo i due vissuti emotivi ed evitando di ‘pensare all’emozione che io proverei al suo posto’. Essere empatici non significa, infatti, mettersi cognitivamente dalla parte dell’altro immaginandosi nella sua situazione, e cercando di indovinare le emozioni che noi proveremmo. Significa piuttosto avvertire ciò che l’altro sente, anche e soprattutto se non ne condividiamo pensieri, atteggiamenti e stati d’animo. È empatico colui/colei che a) prova la propria emozione, b) può immaginare cosa proverebbe al posto dell’altro (ma non se ne lascia influenzare), c) comprende l’effettiva emozione che l’altro prova (senza confonderla con la propria di cui al punto a). Anche questo è un processo sopra 100: avvertire l’emozione che prende forma in noi e quella che si snoda nell’altro.
Può quindi capitare di vivere le emozioni dell’altro (la parte che eccede la sua capienza). L’importante è comprenderlo e da questo scombussolamento che non è nostro trovare la strada per le nostre emozioni: quelle che – riconosciute – possono essere nostre alleate, anche ed eventualmente per abbassare i livelli percentuali di emotività nell’altro.
La psiche, infatti, non fa calcoli ‘perfetti’, di solito cerca equilibri. Le emozioni ben gestite possono aiutare in questo, non importa se provengono da noi o dal surplus emotivo dell’altro. Sono strumenti che possiamo accogliere e direzionare, purché ad essere almeno un po’ chiari siano gli obiettivi, di solito di crescita, che abbracciamo.
A livello strutturale funzioniamo attraverso una serie di ‘assimilazioni e accomodamenti’. Questi – originariamente studiati da Piaget e Inhelder (1968) nell’ambito della psicologia dello sviluppo – prevedono l’inglobare nuovi elementi in strutture pre-esistenti.
Le strutture sono l’insieme di caratteristiche, potenzialità, motivazioni che ci caratterizzano e che si intersecano creando un sé complessivo dove il tutto è più della somma delle parti. I nu...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. Motivi, ragioni e scopi
  3. II. Dall’andare bene al benessere
  4. III. Costruire risorse positive
  5. IV. Motivati e (in)soddisfatti
  6. V. Nati per motivarsi
  7. Riferimenti bibliografici