I. Il principe redentore
L’idea ispiratrice
Il redentore fa la sua apparizione nelle pagine del Principe, insieme al profeta armato, nel capitolo VI (“De’ principati nuovi che s’acquistano con l’arme proprie e virtuosamente”). Fino a quel punto Machiavelli ha discusso, con tono distaccato, dei vari tipi di principato – nuovi, ereditari, misti – e ha elaborato uno dei suoi princìpi generali: “Dico adunque che ne’ principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo principe, si truova a mantenergli più o meno difficultà secondo che più o meno è virtuoso colui che gli acquista”. Cita poi i grandi uomini che sono diventati principi grazie alla loro virtù e alle loro armi, non per fortuna. Il primo è Mosè, che Machiavelli presenta come un profeta: “E benché di Moisè non si debba ragionare, sendo suto uno mero esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio, tamen debbe essere ammirato, solum per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio”. Per la sua virtù, rafforzata dall’aiuto di Dio, Mosè è la guida degli altri eccellentissimi uomini: “considerato Ciro e li altri che hanno acquistato o fondati regni, gli troverete tutti mirabili; e se si considerano le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti da quegli di Moisè, che ebbe sì gran precettore”.
Machiavelli anticipa nel capitolo VI l’argomento che svolgerà nell’“Esortazione”, ovvero che la fortuna offre ai fondatori di Stati e ai redentori l’occasione di mostrare la loro straordinaria virtù e di conseguire grandi risultati politici:
Ed esaminando le azioni e vita loro non si vede che quelli avessino altro da la fortuna che la occasione, la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma che parse loro: e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano. Era adunque necessario a Moisè trovare el populo d’Israel in Egitto stiavo e oppresso da li egizi, acciò che quegli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo. Conveniva che Romulo non capessi in Alba, fussi stato esposto al nascere [non avesse in Alba, dove era nato, uno spazio sufficiente per le sue imprese], a volere che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria. Bisognava che Ciro trovassi e’ persi malcontenti dello imperio de’ medi, ed e’ medi molli ed effeminati per la lunga pace. Non poteva Teseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli ateniesi dispersi. Queste occasioni per tanto feciono questi uomini felici e la eccellente virtù loro fe’ quella occasione essere conosciuta: donde la loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima.
Le figure del profeta e del fondatore appaiono nel testo del Principe improvvisamente, come se Machiavelli voglia sbigottire il lettore. La sua argomentazione prende le mosse dalla considerazione che la fondazione di nuovi ordini politici è ardua quanto nessun’altra: “Quelli e’ quali per vie virtuose, simili a costoro, diventono principi, acquistano el principato con difficultà, ma con facilità lo tengono; e le difficultà che gli hanno nello acquistare el principato nascono in parte da’ nuovi ordini e modi [ordinamenti e metodi di governo] che sono forzati introdurre per fondare lo stato loro e la loro sicurtà. E debbesi considerare come e’ non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo di introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nimico tutti quegli che degli ordini vecchi fanno bene [traggono vantaggio], e ha tiepidi difensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene”. Volge poi l’attenzione, di nuovo, al profeta per sottolineare che la fondazione di nuovi ordini politici non può essere realizzata soltanto in virtù della profezia, vale a dire il potere dell’eloquenza sostenuto dalla pretesa, e creduta, ispirazione divina: “È necessario pertanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi innovatori stanno per loro medesimi [hanno proprie forze] o se dependono da altri: cioè se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, o vero possono forzare [se hanno bisogno di chiedere aiuti o se possono ricorrere alla forza]. Nel primo caso, sempre capitano male e non conducono cosa alcuna; ma quando dependono da loro propri e possono forzare, allora è che rare volte periclitano [corrono rischi]”.
La conclusione dell’argomento è che il fondatore e il redentore, per avere successo, devono essere sì profeti, ma armati di armi proprie: “di qui nacque che tutti e’ profeti armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno. Perché, oltre alle cose dette, la natura de’ populi è varia [mutevole] ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermargli in quella persuasione: e però conviene essere ordinato in modo che, quando non credono più, si possa fare loro credere per forza. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono potuto fare osservare loro lungamente le loro constituzioni, se fussino stati disarmati; come ne’ nostri tempi intervenne a fra Ieronimo Savonerola, il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non credergli, e lui non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto né a fare credere e’ discredenti”. Già all’inizio dell’opera il principe nuovo è diventato dunque profeta armato, fondatore e redentore.
Per essere sicuro che il lettore intenda bene che il tema centrale del Principe sono le grandi azioni dei profeti armati e dei fondatori, Machiavelli li presenta esplicitamente come esempi da seguire. La stessa lettera dedicatoria a Lorenzo di Piero de’ Medici rende il lettore avvertito che intende trattare di grande azione politica: “Desiderando io adunque offerirmi alla vostra Magnificenza con qualche testimone della servitú mia verso di quella, non ho trovato, in tra la mia supellettile [fra i miei beni], cosa quale io abbia più cara o tanto esistimi quanto la cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche; le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate ed esaminate, e ora in uno piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenza vostra”.
Un’altra preziosa indicazione che al centro della riflessione di Machiavelli stanno il fondatore di Stati e il redentore è nella celebre lettera del 10 dicembre 1513: “Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandarli della ragione delle loro azioni”. Il Principe, ci spiega Machiavelli, è il risultato delle sue riflessioni sulle azioni dei grandi uomini dell’antichità (“loro azioni”). Chi siano i grandi uomini dell’antichità che lo ricevono amorevolmente e rispondono alle sue domande lo possiamo intendere dalle pagine del Principe: Mosè, Romolo, Ciro e Teseo: i fondatori di Stati e redentori che hanno ottenuto l’immortalità grazie alla loro straordinaria virtù, e proprio perché sono immortali possono rispondere alle domande di Machiavelli sulle ragioni delle loro azioni. E merita sottolineare che Machiavelli, diversamente dalla prima parte della lettera quando racconta di leggere Dante, Petrarca, Tibullo, Ovidio ed altri temi amorosi, per dialogare con i fondatori e i redentori immagina un rituale di rinnovamento spirituale che gli permette di ritrovare se stesso. Il Principe raccoglie l’essenza di questa trasformazione.
L’“Esortazione” è la conclusione delle considerazioni che ha svolto nei primi venticinque capitoli dell’opera. Essa si apre infatti con queste parole: “Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella, mi pare concorrino tante cose in benefizio di uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo”.
Come ha anticipato nel capitolo VI, Machiavelli ribadisce che la fortuna offre ai grandi uomini la possibilità di realizzare grandi imprese: “E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d’Isdrael fussi stiavo in Egitto; e a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, ch’e’ persi fussino oppressati da’ medi; e la eccellenzia di Teseo, che li ateniesi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi ne’ termini presenti, e che la fussi più stiava che li ebrei, più serva ch’e’ persi, più dispersa che gli ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, e avessi sopportato d’ogni sorte ruina”.
Il redentore è un profeta arm...