L'Italia del miracolo economico
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L'Italia del miracolo economico

  1. 160 pagine
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L'Italia del miracolo economico

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Sono gli anni dei sogni di benessere e di evasione, della Fiat 500 e del primo consumismo, dei tanti nuovi oggetti che riempiono le case, delle speranze che modificano i bisogni e i desideri degli italiani. Sono gli anni della commedia all'italiana, del celebre Il sorpasso, della dolce vita, dei cantautori, di Lascia e raddoppia. Sono gli anni in cui cambiano stile di vita, composizione sociale ed equilibri politici: l'Italia, in parte provinciale e codina, in parte alla rincorsa di tutto ciò che sa di moderno, è in bilico fra il vecchio e il nuovo.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115817
Argomento
History

III. Un capitalismo bicefalo

1. All’insegna dei grandi gruppi privati

Del mondo economico e dei suoi protagonisti si parlava poco nelle pagine dei quotidiani. D’altro canto, non è che gli imprenditori comparissero volentieri in scena, al di là di alcuni convegni ufficiali; e nelle cerimonie per l’inaugurazione di uno stabilimento, riprese talora dai cinegiornali, quelli che figuravano in primo piano, al taglio dei nastri, erano quasi sempre ministri e autorità locali. Per il resto, ancora nella seconda metà degli anni Cinquanta, gli uffici stampa dei principali complessi si tenevano piuttosto abbottonati; c’erano, anzi, grosse aziende che non avevano nel loro organigramma un addetto alle pubbliche relazioni. Prevaleva la consegna del silenzio o la tendenza a dosare al minimo indispensabile le informazioni su quanto si faceva o stava bollendo in pentola, e ciò per non dare esca prima di tutto a richieste sindacali di miglioramenti salariali.
Ma c’era pure chi era assolutamente refrattario a mettersi in mostra, non solo per motivi di opportunità, ma per indole e temperamento personale. Il primo a mantenersi il più possibile fuori dalla ribalta era lo stesso presidente della Confindustria, Angelo Costa, a cui era toccato nel 1945 il difficile compito di riorganizzare le fila di un ceto imprenditoriale che, alla fine della guerra, non godeva di buona stampa, in quanto erano in molti che l’accusavano di palesi compromissioni col regime fascista e c’era comunque chi non lo riteneva capace di assicurare un avvenire economico al paese.
Di Costa e del suo clan familiare, che si occupava, dalla seconda metà dell’Ottocento, dell’esportazione di olio e poi anche dell’attività cantieristica, si diceva a Genova che erano «dediti alla Chiesa e al profitto». Nota era infatti l’amicizia personale di Angelo Costa con il cardinale Giuseppe Siri, e altrettanto proverbiali erano le severe regole che vigevano nel suo entourage. Se le donne di famiglia non potevano far parte dell’azienda, i figli maschi entravano in ditta solo se ritenuti idonei dal consiglio degli anziani, dopo un anno di buona prova e senza stipendio. E comunque, una volta che fossero stati promossi a impiegati di prima categoria, in attesa di guadagnarsi i galloni della dirigenza dovevano attenersi a norme spartane, per cui era bandito ogni genere di comportamento, in privato, che potesse avere qualche parvenza di lusso o di mondanità. La norma categorica che ognuno doveva rispettare era quella della massima austerità nei costumi e negli stili di vita.
Quanto al successo della sua impresa, Angelo Costa l’aveva costruito con indubbia abilità, senza mai dare nell’occhio, e l’aveva gestito poi con estrema oculatezza e parsimonia. Al termine della guerra, della sua flotta di carico (che esportava derrate agricole e carbone nel Levante e in Sudamerica) era rimasto ben poco, come del resto era avvenuto anche per i Parodi, altri grossi armatori genovesi. Ma Angelo Costa, a differenza di Enrico Parodi (che aveva finito per concentrare l’attività di famiglia sulla costruzione di motociclette), aveva ottenuto dagli americani la cessione di due navi Liberty e in più un finanziamento per farle ripartire; e questo gli era bastato per creare il primo embrione di una grossa flotta per passeggeri.
A chi gli chiedeva quale fosse la linea di condotta a cui attenersi negli affari, rispondeva invariabilmente che si doveva prima di tutto risparmiare e non buttare via nulla, e per il resto investire a colpo sicuro, senza mai fare il passo più lungo della gamba, dato che l’Italia era un paese povero e occorreva non sprecare un soldo. Proprio per queste sue inclinazioni, oltre che per essere rimasto in epoca fascista fuori dal «padronato del Littorio», Costa era stato chiamato nel dopoguerra a reggere il timone della Confindustria per rialzarne le quotazioni. E determinanti a questo riguardo erano stati i rapporti personali da lui stabiliti con De Gasperi in base a sentimenti di reciproca fiducia seppure con opinioni talora molto diverse su temi di politica sociale.
Di tutt’altra pasta era il principale armatore di allora, il napoletano Achille Lauro, che ai quattrini sembrava non badare affatto. Tanti ne spendeva non solo quale presidente della squadra partenopea di calcio, ma anche come fondatore di un partito-azienda come il Partito popolare monarchico, che l’avrebbe portato a conquistare, nel 1951, in capo a una campagna elettorale in cui di soldi ne avrebbe spesi ancor di più per procurarsi una gran messe di voti, la poltrona di sindaco della città, per poi ripetere con successo la stessa operazione nel 1956 e nel 1958. Tuttavia, aveva allora di che scialare. Figlio di un piccolo armatore di Sorrento, Gioacchino, perito in un naufragio, aveva cominciato a lavorare a 14 anni da mozzo e, divenuto poi capitano di lungo corso, era riuscito, insieme ai suoi due fratelli maggiori, a ingrandire la flotta di famiglia, grazie anche alla sua amicizia con Galeazzo Ciano. Dopo averla ricostituita dal 1945, pezzo per pezzo, il «Comandante» (come lo chiamavano i suoi concittadini) era giunto a mettere in mare la più grande compagnia privata di navigazione italiana. Suoi erano molti dei piroscafi che facevano la spola con le Americhe, carichi di merci ma anche di emigranti del Sud in cerca di una sorte migliore nel Nuovo Mondo.
Non era comunque Lauro l’imprenditore più ricco d’Italia, stando almeno all’elenco dei contribuenti. Lo sopravanzavano di qualche spanna i tre fratelli Crespi (Vittorio, Mario e Aldo), titolari di un vecchio impero cotoniero e comproprietari, dal 1885, del «Corriere della Sera», il più importante quotidiano italiano e l’araldo per eccellenza (dai tempi di Luigi Albertini) della borghesia italiana economica e professionale che più contava. Tanto che il giornale di via Solferino rappresentava, insieme alla Scala e alla Banca Commerciale, il fiore all’occhiello della città ambrosiana, di quella che veniva considerata da sempre l’autentica capitale d’Italia per lustro e floridezza.
In cima alla lista dei contribuenti svettava peraltro Gaetano Marzotto. A metà degli anni Cinquanta l’industria tessile era ancora quella più diffusa dalle Prealpi fin giù nel cuore del Centro-Sud; e, in taluni casi, continuava ad assicurare lauti profitti. Con i Sella, numi tutelari del Biellese dalla metà del Settecento, i Marzotto erano una delle più antiche dinastie laniere, in quanto era giunta a quei tempi alla quarta generazione. E Valdagno era il loro regno: il conte Gaetano, nipote del fondatore, aveva creato nel 1935, attorno al suo stabilimento, un’intera città con l’ambizione di farne un modello di architettura razionalista e di vita sociale, dato che comprendeva abitazioni operaie, un giardino d’infanzia, una scuola professionale, refettori e spacci alimentari, circoli ricreativi, una casa di riposo, e persino un teatro, oltre a un campo di calcio e a una piscina. In più la famiglia possedeva vari altri opifici, una grossa tenuta agricola a Zignago, una catena di hotel Jolly, la prima compagnia alberghiera italiana quotata in Borsa, e alcuni bei palazzi a Venezia sul Canal Grande. Insomma un gran giro d’affari: ben più cospicuo rispetto a quello di altre pur ragguardevoli dinastie del settore tessile come i Visconti di Modrone, gli Zegna, i Rivetti, i De Angeli Frua.
Chi a quel tempo rivaleggiava con Marzotto, in un campo d’attività affine, era Franco Marinotti, gran patron della Snia Viscosa, l’impero creato da Riccardo Gualino e rilevato poi negli anni Trenta da Senatore Borletti (il fondatore della Rinascente e poi dell’Upim), in compartecipazione con la multinazionale inglese Courtaulds. Anche Marinotti aveva una propria città-fabbrica, Torviscosa, dove campeggiava il principale stabilimento del suo gruppo, uno dei più cospicui a livello europeo nella produzione di fibre tessili sintetiche e all’avanguardia per aver installato un procedimento di filatura in continuo, importato dagli Stati Uniti, in grado di svolgere in pochi minuti tutte le funzioni dei vari reparti chimici e tessili. E in questa località del Friuli aveva creato anche una grande riserva di caccia sui terreni riscattati dagli acquitrini, dove era solito accogliere gli ospiti di riguardo. Inoltre, era in via di compimento un progetto (in associazione con alcune imprese tessili locali) per la realizzazione in Argentina, a Platanos Hernandez, di un complesso per la lavorazione di rayon, fiocco viscosa e filo poliammidico. E dal 1951 era entrata in funzione a Torrelavega, in Spagna, una fabbrica di cellulosa, rayon, fiocco viscosa e filo poliammidico, alla quale s’erano poi affiancati tra il 1954 e il 1955 altri due stabilimenti in Sudafrica e in Messico.
L’uomo che aveva esordito alla vigilia della prima guerra mondiale come rappresentante commerciale in Polonia della Filatura Cascami Seta, e che allora sembrava tutt’al più un giovane di belle speranze, aveva voluto farsi un regalo nel 1951, in occasione dei suoi sessant’anni, e farlo nello stesso tempo a Venezia, la città dove era sbarcato da giovinetto per iscriversi alla facoltà di Economia di Ca’ Foscari. Aveva infatti pensato di creare un’istituzione internazionale per la storia della moda e del costume. E aveva scelto quale sede per questo suo progetto Palazzo Grassi, la fastosa dimora patrizia sul Canal Grande, nei cui saloni aveva provveduto a radunare una ricca collezione di manoscritti e di cimeli con vari campionari d’epoca (alcuni dei quali risalenti al XII secolo), per allestire una sontuosa mostra permanente delle arti tessili (sfociata nella creazione di un Centro internazionale delle arti e del costume).
A Marinotti aveva dedicato una corrispondenza la rivista americana «Time» in un suo numero dell’agosto 1957. E non solo perché la Snia intendeva costruire un impianto pure negli Stati Uniti per la fabbricazione di un nuovo genere di carta sintetica. Ma anche perché Marinotti stava sondando il terreno per vedere cosa si potesse realizzare in Unione Sovietica, dopo che era stato nei primi anni Venti, al tempo della «Nuova politica economica» di Lenin, uno dei primi uomini d’affari italiani, a quel tempo come direttore della Compagnia italiana per il commercio estero, ad avviare rapporti di scambio con la Russia e a sollecitare il governo fascista a ristabilire normali relazioni diplomatiche con Mosca.
All’Unione Sovietica avrebbe poi prestato crescente attenzione anche Vittorio Valletta, tanto da concludere, in virtù dell’accordo siglato nel 1965 con il governo di Mosca per la realizzazione di una grande fabbrica d’auto a Togliattigrad, quello che un giornale americano definì allora «il più importante affare del secolo». Ma la Fiat non era ancora divenuta l’ammiraglia del capitalismo italiano.
Tuttavia l’uomo a cui il senatore Giovanni Agnelli (prima della sua scomparsa nel dicembre 1945) aveva affidato il timone di comando a Mirafiori rappresentava, agli occhi dell’opinione pubblica, l’alfiere dell’industria più popolare e, insieme, l’antagonista per eccellenza della Cgil. «Il socialismo ve lo faccio io», aveva dichiarato Valletta in uno dei suoi ultimi incontri, all’inizio del 1949, con il Consiglio di gestione della Fiat. Ai suoi interlocutori era sembrata una battuta di spirito o un’affermazione provocatoria. In realtà era stata una vera e propria dichiarazione di guerra. Ma, secondo Valletta, ad aprire il conflitto erano stati gli attivisti dei partiti di sinistra, da lui accusati di sabotare la produzione e, quindi, di tradire in pratica la loro missione di migliorare le condizioni dei lavoratori.
In effetti, tra il febbraio e il maggio 1949, gli stabilimenti della Fiat erano rimasti praticamente paralizzati, dopo che la Fiom aveva adottato la tattica degli scioperi a scacchiera. Da allora, Valletta era passato all’offensiva, procedendo con risolutezza al sistematico smantellamento della principale organizzazione sindacale mediante il licenziamento dei suoi militanti più in vista e il trasferimento di altri in cosiddetti «reparti-confino», fuori dallo stabilimento di Mirafiori, in quanto da lui additati come dei «distruttori».
Ma per quanto i suoi collaboratori si fossero dati da fare con queste e altre misure discriminatorie, il Professore aveva dovuto rassicurare in continuazione, durante la guerra di Corea, politici e funzionari americani sul fatto che la Fiat fosse al sicuro tanto dallo spionaggio che da eventuali atti di sabotaggio. Ma non gli era bastato rivolgersi personalmente al presidente Eisenhower, per avere maggior lavoro dalla Nato. A quel tempo, di automobili se ne costruivano ancora poche, in quanto gli italiani si potevano permettere tutt’al più dei motoscooter, come quelli da poco comparsi, la Lambretta della Innocenti o la Vespa (prodotta a Pontedera da Armando Piaggio, erede di una dinastia imprenditoriale genovese, che, dai cantieri navali, era passata a occuparsi anche di costruzioni aeronautiche per il trasporto civile).
Oltretutto a complicare le cose alla Fiat, s’era messa di mezzo nel 1953 l’ambasciatrice americana a Roma, Clare Boothe Luce (la moglie del potente editore di «Time» e di altri importanti organi di stampa statunitensi), minacciando che non avrebbe autorizzato la benché minima commessa alla Fiat da parte del Pentagono, se il sindacato social-comunista avesse mantenuto la maggioranza nelle Commissioni interne. Si trattava, peraltro, di una norma che valeva anche per l’impresa gallaratese di Domenico Agusta, che fabbricava elicotteri su commessa americana della Bell, come per la Beretta, l’Oto Melara e altri gruppi dell’industria militare italiana. E, dato che a Mirafiori si faceva particolare assegnamento sulle ordinazioni della Nato di motori aerei e apparecchi da caccia per quadrare i conti, Valletta aveva patrocinato la formazione di un «sindacato giallo» per cercare di tagliare l’erba sotto i piedi alla Fiom; ma, sapendo che questo non sarebbe bastato a far cambiare idea ai più di 60.000 dipendenti che votavano la lista del sodalizio metalmeccanico della Cgil, era ricorso alle armi del paternalismo. La direzione dell’azienda aveva perciò moltiplicato i premi di produzione e le provvidenze assistenziali, che s’erano così aggiunti ai salari relativamente più elevati di quelli stabiliti nei contratti nazionali della categoria.
Alla fine erano state queste le carte vincenti di Valletta. Nel 1955 la Fiom era crollata dal 64 al 37 per cento dei suffragi (ridottisi due anni dopo a poco più del 21 per cento). Ma a questo collasso avevano concorso anche parecchi errori di fatto e di valutazione commessi dai sindacalisti della Cgil: dall’insistenza nella proclamazione di scioperi politici, nonostante la crescente passività degli operai; a una strategia fortemente centralistica sul piano della contrattazione e quindi più attenta a obiettivi di carattere generale che alle condizioni specifiche delle singole categorie di lavoratori, fra cui prevaleva, d’altra parte, una vasta base che non aveva convinzioni politiche o che era comunque orientata verso la Cisl e la Uil. Né la Fiom aveva tenuto in debito conto le innovazioni adottate nel frattempo nell’organizzazione del lavoro. Ammetterà Giuseppe Di Vittorio in una relazione dell’aprile 1955 al Comitato direttivo della Cgil: «Dobbiamo studiare i nuovi metodi introdotti in alcune fabbriche, in legame con gli esperimenti della produttività come viene concepita dagli americani. Di questi esperimenti noi non abbiamo sufficientemente discusso».
Valletta era così riuscito a creare una struttura perfettamente congegnata, in ogni suo ingranaggio, che aveva consentito alla Fiat nella seconda metà degli anni Cinquanta di accrescere di cinque volte la produzione di autoveicoli, di rafforzare la sua rete di officine dalla Spagna alla Francia, all’Argentina, e di estendere i propri investimenti in vari altri settori. D’altra parte, il Professore aveva sempre sostenuto due cose da quando era stato interpellato nel 1946, durante i lavori della Costituente, sul futuro dell’industria, sprizzando un ottimismo per allora sorprendente: la prima, che l’Italia era una sorta di «straordinario granaio meccanico», senza dover sottostare ai capricci del sole e della pioggia; e la seconda, che, se l’avessero lasciato fare, la Fiat avrebbe motorizzato il paese. Ciò che stava appunto cominciando ad avvenire dopo il lancio nel 1955 di un’utilitaria come la 600 (sulla cui catena di montaggio l’azienda aveva investito qualcosa come 300 miliardi di lire) e, due anni dopo, di un’altra vetturetta ancor più piccola, la 500.
A quel tempo Gianni Agnelli non era ancora comparso in scena, ed erano in molti a pensare che non avrebbe avuto la stoffa per dare il cambio a Valletta quando sarebbe venuto il momento: tanto che il nonno, se fosse stato ancora in vita, sarebbe stato, a detta dell’«Unità», «amaramente deluso» da quel suo nipote. Ma ben prima del congedo di Valletta dal vertice della Fiat, il leader sovietico Nikita Chruščëv, con il suo fiuto da vecchio contadino, aveva invece capito, incontrando Agnelli a un’Esposizione dell’industria italiana nel giugno 1962 a Mosca, che l’Avvocato (come già allora veniva chiamato) aveva tutte le qualità e le carte per imporsi alla ribalta. Perciò, voltate le spalle ai rappresentanti politici arrivati da Roma, aveva preso da parte Agnelli, dicendogli: «È con lei che voglio parlare, perché lei sarà sempre al potere, mentre quelli là cambiano continuamente».
In Italia, nel mezzo degli anni Cinquanta, l’imprenditore di cui si faceva invece un gran parlare era Adriano Olivetti, in quanto appariva assolutamente anomalo rispetto a tutti gli altri industriali: tanto da essere portato sugli scudi dalla sinistra laica e riformista. E ciò non solo in quanto fondatore di un movimento come quello di «Comunità» che coniugava il federalismo con la democrazia, e il progresso tecnologico con la cooperazione sociale.
Per spiegare il fatto che egli non solo fosse una voce del tutto fuori dal coro, rispetto all’establishment, ma professasse idee che sembravano utopie, si diceva che ciò era dovuto alle sue origini, al nonno rabbino e al padre simpatizzante a suo tempo per la causa socialista, che nel 1908 aveva creato lo stabilimento di Ivrea, e alla madre, figlia di un pastore di fede valdese. In realtà, l’ambiente familiare aveva a che fare sino a un certo punto con l’intento perseguito da Adriano Olivetti, che era quello di declinare le regole del sistema d’impresa con i principi dell’etica e della responsabilità sociale. Semmai, aveva contato di più a questo riguardo l’influenza su di lui del personalismo cattolico di Mounier e di Maritain.
Fatto sta che Adriano voleva realizzare una «fabbrica a misura d’uomo»: ossia, una comunità di lavoro al passo con le tecnologie più aggiornate, ma senza che il macchinismo avesse il sopravvento sul fattore umano; con i conti economici in attivo, ma senza che la logica del profitto fosse l’unico metro di giudizio e di condotta.
A quanti ritenevano che con questi suoi propositi così singolari Adriano Olivetti inseguisse solo dei miraggi, egli poteva opporre il fatto che era riuscito a realizzare un complesso industriale che era il primo in Europa nel settore delle macchine da scrivere e contabili, con una rete di succursali e consociate in ogni angolo dell’Europa occidentale nonché in alcuni paesi del Commonwealth britannico, in Africa e in America Latina. E tutto questo per opera di una schiera di ingegneri, di tecnici e di specialisti di particolare talento, attivi nei campi della progettazione e della ricerca applicata, dell’organizzazione aziendale, del marketing e delle relazioni pubbliche.
Inoltre, negli stabilimenti della Olivetti si respirava un’aria ben diversa rispetto a quella che di norma vigeva in altre fabbriche, e non solo per un largo ventaglio di sodalizi e servizi sociali riconosciuti per contratto, ma anche per l’esistenza di una commissione paritetica fra direzione aziendale e sindacati per la definizione e il controllo dei ritmi di lavoro, che non avrebbero dovuto riprodurre quelli ferrei del sistema fordista. Per di più, la Olivetti aveva investito varie risorse nella programmazione urbanistica quale garanzia di equilibrio ambientale e di collegamento tra i luoghi di lavoro e le sedi dei servizi culturali e sociali. Tant’è che intorno a Ivrea s’era creato un habitat per tanti versi esemplare, ben lontano in ogni caso dalla fisionomia di tanti piccoli e grandi centri industriali gonfiatisi in maniera disordinata dietro la spinta della speculazione edilizia o in deroga ai piani regolatori. D’altra parte, la figura dell’operaio allora prevalente negli stabilimenti dell’Olivetti, che non aveva interrotto del tutto i rapporti con la campagna sia in fatto di residenza che di dimestichezza con il lavoro agricolo su piccoli fondi a conduzione familiare, aveva offerto molti punti d’appoggio...

Indice dei contenuti

  1. I. Il volo del calabrone
  2. II. Sulle ali del boom
  3. III. Un capitalismo bicefalo
  4. IV. Le luci della ribalta
  5. V. Fra dilemmi e illusioni
  6. Riferimenti bibliografici