1. Sessant’anni senza risultati?
Bisogna onestamente ammettere che l’antica questione meridionale pare ai più alquanto noiosa.
Su di essa sembra che si sia detto e scritto tutto e che, nonostante mille programmi e mille proclami, nulla sia davvero cambiato. Di conseguenza, quando si parla di politiche per il Sud, ormai da tempo lo si fa con scarsa spinta ideale, senza progetto politico e, soprattutto, non credendo che la questione possa essere realmente risolta: un diffuso scetticismo e disinteresse nell’opinione pubblica e negli opinion leaders, una forte frustrazione in quanti generosamente hanno provato a fare qualcosa. Chi, ai livelli istituzionali e ai livelli apicali delle grandi organizzazioni, “deve” occuparsi del problema mostra di credere che la soluzione sia possibile; tutti gli altri semplicemente non ci credono più e si comportano di conseguenza. Di tanto in tanto si manifesta qualche spinta di protagonismo che spesso ha lo scopo di ottenere un posizionamento “efficace” nell’auspicato trasferimento di risorse pubbliche.
In questi ultimi anni si è ripetuto sempre più spesso che lo sviluppo del Sud è condizione essenziale per lo sviluppo del Paese: ma questa affermazione, innegabilmente vera, non riesce a determinare uno scatto di interesse e di motivazione nella pubblica opinione, né di coerenza e di impegno nelle classi dirigenti. In effetti una ripresa di tensione positiva nell’argomento sarà possibile quando sarà rilanciato su basi diverse, e soprattutto con una strategia politica degna di questo nome, il tema della solidarietà, della necessità di superare distanze così pronunciate nelle condizioni di vita di cittadini dello stesso Paese.
Ma tale strada è oggi fortemente in salita: essa richiama immediatamente il tema delle responsabilità, con un Paese che si spacca in due: chi dice che le risorse date al Sud sono state enormi, ma sostanzialmente sprecate dai meridionali, e chi, pur riconoscendo che c’è stata una gestione delle risorse non particolarmente efficace, denuncia che i trasferimenti sono stati largamente insufficienti. Non si tratta di una contrapposizione nuova: di nuovo c’è un’evidente maggiore forza polemica, una maggiore diffusione di un certo “antimeridionalismo”, anche perché su di esso hanno apertamente ed irresponsabilmente investito alcune forze politiche.
Penso che affrontare il tema a partire da un giudizio sulle responsabilità sia apparentemente doveroso, ma in realtà inconcludente, nel senso letterale: uso lo stesso termine che adopera Benedetto Croce sull’argomento, in uno straordinario passaggio della sua Storia del Regno di Napoli (1924).
Più volte si sono udite querele e accuse contro il Mezzogiorno: che senz’esso l’Italia sarebbe stata più omogenea nella ricchezza e nel grado di civiltà; che avrebbe segnato una media più bassa nelle statistiche dell’analfabetismo; che i suoi governi non avrebbero potuto disporre di voti guadagnati con facile corruttela; che la monarchia vi avrebbe ceduto il luogo alla repubblica, o che si sarebbe potuto evitare l’eccessivo accentramento e serbare o introdurre una sorta di autonomia regionale; che la politica italiana sarebbe stata più liberale o più democratica, e perfino non avrebbe avuto impedimenti di grave mora a svolgersi verso forme sociali ultrademocratiche e comunistiche; e simili. Ai quali detti sono state opposte le difese e le controffese: che, senza l’Italia meridionale, quella del settentrione e media si sarebbe ristretta a una vita angusta e piccina; che nel Mezzogiorno l’industria del settentrione ha trovato il suo mercato, mentre esso, con l’unità ha visto sparire quanto possedeva d’industrie locali; che l’efficacia del robusto pensiero meridionale ha assai innalzato la scienza e gli studi italiani; che è stata fortuna che l’Italia possedesse nel Mezzogiorno un contrappeso o una zavorra da ritenerla in certe follie, e che quella zavorra non era tutta gravità materiale, ma anche freno di buon senso, e l’ideale dello stato forte e della monarchia non rispondeva semplicemente a tradizionale disposizione verso il governo dall’alto, ma anche, come si vede nei maggiori uomini di questa terra, a percezione realistica e a seria meditazione politica e storica; e via di seguito. Accuse e difese che, in quanto tali, si dimostrano inconcludenti, perché è chiaro che in una unione si hanno sempre vantaggi e perdite reciproche, e che nondimeno il guadagno totale (e non s’intende solo di quello economico nel senso empirico e quantitativo, ma anche di guadagno spirituale e qualitativo) deve essere assai superiore alle perdite particolari, se l’unione si è formata e se, invece di dissolversi e di allentarsi, dura e si rinsalda.
In questa fase seguo con interesse le riflessioni di Carlo Trigilia e di Gianfranco Viesti che hanno maturato posizioni non del tutto sintoniche: Viesti certifica il clamoroso calo nei trasferimenti verso il Sud, esplicito nella riduzione degli stanziamenti, ed implicito come conseguenza cioè di scelte politiche e programmatiche che penalizzano il Mezzogiorno; Trigilia accentua una riflessione critica circa l’utilità dei trasferimenti, ed in particolare degli incentivi alle imprese, in mancanza di un quadro istituzionale locale adeguato.
Entrambi sviluppano posizioni fondate, ma penso che in termini politici sia da approfondire maggiormente la posizione di Trigilia, e che anzi essa, come tenterò di dimostrare nelle pagine seguenti, vada ulteriormente “stressata”.
Ritengo infatti che la pur conclamata e riconosciuta insufficienza dei trasferimenti al Mezzogiorno – argomento peraltro inevitabilmente e non del tutto strumentalmente indebolito dall’incapacità delle istituzioni meridionali a spendere – non sarebbe sufficiente a dare uno scossone all’antica questione. Il gioco del rimpallo delle responsabilità, delle reciproche accuse, è stato a lungo protagonista del dibattito sul Sud: ma non ha portato a grandi risultati. In tempi meno “ostili” al Sud, nelle stagioni politiche in cui la questione aveva maggior peso, tale confronto ha portato a qualche occasionale decisione di aumenti delle risorse stanziate (risorse rivelatesi, peraltro, spesso virtuali). Ma, pur riconoscendo il valore di “verità” alla questione, penso che essa non sia decisiva, come constato che rischiano di cadere nel vuoto i tradizionali richiami della svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) alla persistenza ed anzi all’aggravamento del divario.
Su questo punto voglio essere chiaro ed evitare fraintendimenti. Il mio ragionamento non porta a considerare irrilevanti o inutili i trasferimenti al Sud; anzi mi associo a quanti sostengono che la quota di interventi “aggiuntivi” è ormai poca cosa. Penso, tuttavia, che la quantità di risorse stanziate non sia l’indicatore dell’efficacia delle politiche e, soprattutto, che trasferire “comunque” risorse, con obiettivi generici e quindi ambigui, procedure opache e controlli approssimativi, sia un danno effettivo.
Bisogna partire dalla constatazione che dopo oltre sessant’anni di intervento straordinario la questione è ancora irrisolta. Certamente vi sono stati significativi cambiamenti ed una generale crescita del livello di vita, almeno sul versante dei consumi privati. Una crescita, comunque, relativamente insufficiente. Una crescita diseguale e spesso non lineare. Alcuni territori hanno registrato a lungo trend positivi, altri percorsi intermittenti. La felicissima immagine di De Rita di un Sud “a macchia di leopardo” ha efficacemente sensibilizzato ed orientato il dibattito, ma forse oggi vi è una diversa gerarchia territoriale.
Il Sud che conosciamo è molto diverso al suo interno per la combinazione dei fattori di ricchezza, di occupazione, di tenuta istituzionale, di qualità della vita, di densità delle relazioni comunitarie, di presenza della criminalità organizzata.
Anche al Sud vi sono aree di relativa ricchezza senza sviluppo e spesso i territori peggiori non sono quelli più poveri, ma quelli in cui il degrado delle relazioni sociali ha sostituito la comunità virtuosa con quella perversa. Sembra concretizzarsi, in tanti territori, quella che Elinor Ostrom, Nobel per l’economia nel 2009, nel suo libro Governare i beni collettivi, chiama la “tragedia dei beni collettivi”: l’incapacità, cioè, delle comunità locali di valorizzare i beni comuni. E tuttavia vi sono indicatori abbastanza omogenei che ci fanno legittimamente parlare di un’Italia divisa in due con forti divari in termini di pil, occupazione e soprattutto, anche se il dato è rappresentato in modo marginale, in termini di diritti di cittadinanza. Al Sud si è più poveri; c’è meno lavoro, ma soprattutto, come vedremo in seguito, vi sono condizioni di vita e qualità delle relazioni sociali molto più basse.
Vi è una possibile spiegazione di questo evidente insuccesso? Esso va attribuito a interventi sbagliati, a leggi fatte male e gestite peggio? È andata male perché ci sono stati sprechi?
La colpa è nella classe politica meridionale incapace e corrotta? O vogliamo aggrapparci a spiegazioni, che hanno una parte di verità, ma che sono palesemente insufficienti a motivare questo fallimento, come quella, fortemente ideologica, che tutto riconduce ad uno scambio politico complessivo tra centro e ceto politico meridionale, ad un persistente modello crispino? O infine vogliamo scivolare su improbabili e patetiche, ancorché pericolosamente vive, motivazioni antropologiche che fanno dei meridionali (ma solo quelli che restano al Sud) dei cialtroni o dei “lazzaroni”?
Queste spiegazioni non convincono. Se invece ci chiedessimo con una riflessione più vasta, più “laica”, se la impostazione culturale e politica sia stata sbagliata? Non la attuazione, non le modalità, non i singoli strumenti, ma la strategia? Non è forse vero che dopo la fase iniziale della Cassa per il Mezzogiorno, sostenuta da un disegno politico molto lineare, è proprio mancata la capacità di definire un progetto politico, una strategia di sviluppo complessiva?
Un interrogativo del genere è certamente almeno legittimo guardando ai risultati raggiunti in questi sessant’anni.
La mia tesi è che, dopo l’avvio della Cassa per il Mezzogiorno, impegnata in una straordinaria opera di infrastrutturazione primaria, che aveva carattere di vera e propria emergenza, vi sono stati molti soldi, molti tentativi di spallate ed interventi “risolutivi”, molte innovazioni negli strumenti, ma poche scelte politico-strategiche degne di questo nome e tutte sostanzialmente sbagliate compresa quella, potente ed affascinante, della grande industrializzazione di base, ispirata e governata da Saraceno. L’iniziativa è stata prevalentemente orientata ad assicurare risorse, a trasferire modelli, a spostare al Sud soggetti e processi di sviluppo, in una logica strettamente quantitativa e con una sostanziale sottovalutazione dei soggetti, delle potenzialità, delle esperienze meridionali, considerate di fatto marginali, a partire dall’agricoltura.
È forse opportuna una riflessione culturale e politica nel segno di una forte discontinuità: si tratta in sostanza di superare la cultura del “divario” del pil come motivazione di fondo, base di riferimento e parametro di misurazione dell’efficacia delle politiche, per affrontare le vere questioni del ritardo del nostro Sud che, specie in alcune aree, è soprattutto in ritardo in termini di comunità, di ruolo delle istituzioni, di infrastrutturazione sociale. Sono temi che si avvertono anche a livello nazionale, ovviamente, ma sarebbe profondamente sbagliato non vedere che al Sud tale aspetto è decisivo.
Questa è oggi la grande questione: certamente sono gravissimi la mancanza di lavoro, il reddito relativamente basso, la carenza di infrastrutture (al netto di quelle inutili realizzate per “spendere”); ma il punto vero è la crisi delle relazioni sociali, la mancanza di regole, la diffusa illegalità, il rafforzamento delle mafie.
Ed è da qui che bisogna ripartire; è in questa direzione che bisogna definire la gerarchia degli interventi: la coesione sociale premessa dello sviluppo, la qualità delle relazioni sociali e la valorizzazione del capitale umano come condizioni dello sviluppo. Si tratta di una forte discontinuità culturale, prima ancora che politica: ma, a mio avviso, indispensabile.
E tengo a sottolineare che questa convinzione non è solo alimentata dalla evidente e sempre più rapida evoluzione delle teorie sullo sviluppo che privilegiano i “diritti” rispetto alla ricchezza e che invertono il rapporto tra ricchezza e istituzioni.
Cercherò di dimostrare che un’altra impostazione, un’altra linea era presente già negli anni ’50 nel dibattito sul Sud; ma semplicemente fu ritenuta sbagliata da chi ispirava e decideva le scelte di politica meridionalistica: e fu una sconfitta senza l’onore delle armi.