Il teatro dei registi
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Il teatro dei registi

Scopritori di enigmi e poeti della scena

  1. 202 pagine
  2. Italian
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Il teatro dei registi

Scopritori di enigmi e poeti della scena

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Dai precursori della regia teatrale nella Parigi degli anni Trenta dell'Ottocento ai suoi padri fondatori – Stanislavskij, Mejerchol'd –, ai molti interpreti contemporanei, italiani e stranieri – da Strehler a Ronconi, da Kantor alla Mnouchkine, da Grotowski a Eugenio Barba –, Roberto Alonge presenta i grandi maestri che hanno ‘inventato' la regia, ne hanno fatto un'arte e ancora oggi ne rinnovano quotidianamente l'essenza.

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1. L’arte della fabbrica

Ma perché nasce la regia?
Perché, dopo duemila e cinquecento anni di teatro senza regia, si sente il bisogno di questa figura nuova, chiamata regista?
Quasi vent’anni fa ho cercato di dare una risposta intuitiva, ma un po’ astratta (nel senso che astraeva da una ricerca filologica più puntuale), molto ideologica. La regia è l’arte della fabbrica – mi dicevo – e sorge, dunque, nel punto esatto in cui s’impone e fiorisce la fabbrica capitalistica. L’avvento della regia esprimerebbe cioè le forme e la struttura della matura società borghese. La rivoluzione industriale è proprio questo, il salto da una tipologia lavorativa artigianale, basata sulle capacità individuali del singolo, a una tipologia appunto industriale, fondata sulla qualità del lavoro collettivo, sull’armonizzazione di un team. Il teatro del regista sta al teatro dell’attore come la fabbrica sta alla bottega di mestiere. La regia si afferma con il trionfo del capitalismo, non a caso proprio nella fase imperialistica del suo sviluppo. Accanto alla fabbrica, organizzata su una rigida gerarchia, su una disciplina, su dei compiti distinti (operai, capiofficina, ingegneri ecc.), tutta tesa alla produzione di oggetti standardizzati, uguali, intercambiabili, si colloca a poco a poco un teatro-fabbrica che obbedisce agli stessi postulati. Agli attori si chiede un buon livello professionale ma nessun reale contributo al progetto della messinscena, che è delegato interamente al regista, unico profilo dirigenziale, garante dell’assemblaggio del lavoro dei vari attori, ma anche del montaggio delle diverse prestazioni (degli attori, dello scenografo, del musicista, del datore di luci ecc.). E c’è di più. Il regista punta a realizzare un suo proprio progetto di spettacolo, ma pretende poi che questo progetto sia replicato ogni sera, identico a sé stesso. Siamo ancora a una caratteristica di fondo dell’universo capitalistico: la tecnica e la scienza al servizio della capacità di riproduzione, la ripetitività quale condizione della configurazione industriale. Se il teatro è un mercato – se è propriamente l’industria dello spettacolo –, continuo, quotidiano, allora devono valere altre leggi. À la guerre comme à la guerre. Se industria ha da essere, industria sarà. Al biglietto d’ingresso, uguale come quantità di denaro richiesto, sera dopo sera, deve corrispondere un prodotto-spettacolo similmente uguale come qualità, sera dopo sera. Ogni replica deve essere tendenzialmente identica alla prima, perché tutti gli spettatori-acquirenti che pagano lo stesso biglietto hanno diritto a vedere/acquistare lo stesso prodotto. Naturalmente, a mano a mano che il regista impone il suo dominio sulla scena, l’attore si sente progressivamente ridotto a semplice rotella di un ingranaggio, represso nella sua capacità di rinnovamento fantastico e creativo, ma questa è un’altra questione1.
Ma quando nasce, comunque, più esattamente, la regia?
Le domande impossibili sono sempre le più affascinanti. Gli studiosi rispondono solitamente che nasce con il gruppo dei Meininger, verso il 1870, e che il secondo anello della catena è rappresentato da Antoine, creatore nel 1887 del Théâtre Libre, e che il terzo e grande (e definitivo) sigillo è apportato da Stanislavskij, fondatore nel 1897 del Teatro d’Arte di Mosca, attivo a partire dal 1898. Qualche volta il buon senso si smarrisce, oppure la pigrizia culturale ci fa ripetere cose che tutti dicono, attutendo il nostro spirito critico. Ma come è possibile – uno dovrebbe chiedersi immediatamente – che la regia, cioè un modo avanzato di fare teatro, spunti come un fungo in uno staterello tardofeudale, nel cuore profondo della Germania, nel piccolo ducato di Meiningen? Ma non è più probabile che la sua origine sia da rintracciare nell’unica metropoli dell’Europa continentale dell’Ottocento, in quella Parigi che ha tanti teatri e tanti giornali specializzati (sia pure di poche pagine) che informano ogni tre giorni un pubblico evidentemente amplissimo di lettori-spettatori? (Vi potete immaginare, oggi, una pubblicazione bisettimanale per gli appassionati di teatro? Fanno fatica a resistere i mensili...).
Peraltro, qualche studio è pur stato prodotto, in questa direzione, sebbene dimenticato, quasi rimosso. Risale al 1938 un importante lavoro di Marie-Antoinette Allevy (La mise en scène en France dans la première moitié du dix-neuvième siècle) che ha richiamato giustamente l’attenzione su quei livrets scéniques o livrets de mise en scène pubblicati regolarmente a Parigi, a partire dagli anni intorno al 1830, ad uso della provincia. I francesi, si sa, sono fatti così. Anche oggi, se da Torino volete andare a Brest, non trovate un’autostrada che tagli diagonalmente il paese; dovete per forza risalire verso Parigi, e poi girare verso ovest. Da sempre, in Francia, esiste solo Parigi, e poi, accanto, secondariamente, la province, la provincia. Se qualcosa funziona e ha successo a Parigi, allora si può pensare di rifarla anche in provincia. I livrets de mise en scène sono dei libretti di istruzioni perché i teatri della provincia possano rimontare lo spettacolo, il più possibilmente uguale a quello andato in scena a Parigi. Spettacolo uguale, incasso uguale. È, questo, un punto fondamentale, che riprenderemo più avanti: il problema non è la creatività o l’arte; il problema è guadagnare soldi nel modo più sicuro e tranquillo, copiando, duplicando. Nei livrets troviamo tutto quello che serve: l’elenco dei personaggi e degli attori corrispondenti (primattore, attor giovane, padre nobile ecc.); che razza di costumi; quali scenografie ci vogliono, atto per atto; quali mobili (tavoli, sedie, armadi, quadri, appliques ai muri ecc.). Ma anche la disposizione degli attori sulla scena, con la prescrizione precisa delle loro entrate, delle loro uscite, dove devono andare, dove devono fermarsi. Esattamente come avviene nella dimensione della fabbrica e dell’industria, siamo di fronte al principio della serialità. Uno spettacolo non è un unicum, non è l’espressione di una creazione personale, ma è un prodotto, che può e deve essere riproposto in teatri diversi, in maniera il più possibile somigliante alla versione originaria che ha verificato il gradimento del pubblico. La funzione del livret de mise en scène è di garantire l’omogeneità del prodotto, e dunque l’omogeneità del successo commerciale.
Qualche rapida esemplificazione. Di un dramma in tre atti, Le collier de la reine, di Poujol e Daubigny, andato in scena nella primavera del 1831 al teatro Ambigu-Comique:
louis xvi – M. Cudot – Premier rôle (30 à 32 ans). De la dignité mêlée de bonhomie. – Costume: habit à la française richement brodé, cordon bleu en sautoir2.
luigi xvi – Signor Cudot – Primattore (fra i 30 e i 32 anni). Una certa dignità unita a una certa bonomia. – Costume: abito alla francese riccamente ricamato, cordon bleu [sorta di onorificenza] appeso al collo.
Si noti come non manchi nemmeno un’indicazione di regia, sul tipo di recitazione che si presuppone nel personaggio del re: «una certa dignità unita a una certa bonomia», un tratto dignitoso, leggermente altezzoso, come si addice a Sua Altezza, ma misto a bonarietà, a umanità cordiale. E un esempio più generico, relativo all’impianto scenografico, tratto dal quinto atto di Antony di Dumas padre, andato in scena al Teatro de la Porte Saint-Martin nello stesso 1831:
A destra tavola; sedie, poltrone; a sinistra poltrone, una bergère [poltrona stile Luigi XV]. Delle incisioni incorniciate ai muri3.
Queste informazioni sono pienamente funzionali; precisano, di volta in volta, se le indicazioni sono «prises relativement à l’acteur» (sicché destra e sinistra si intendono in riferimento alla destra e alla sinistra dell’attore) o vanno considerate dal punto di vista dello spettatore. Quando la «Revue du Théâtre», nel suo supplemento al n. 78 del 1835, pubblica la scheda relativa alla mise en scène di Chatterton di Vigny, riporta anche le coordinate – di mano dell’autore – circa il carattere e il costume che devono connotare ogni personaggio (per Chatterton: «Giovanotto di diciotto anni, pallido, energico nel volto, fragile nel corpo [...]. Abito nero, giacca nera, pantaloni grigi...», e così via per gli altri personaggi), ed ecco una nota redazionale di commento che evidenzia con compiacimento: «È un esempio che tutti gli autori dovrebbero imitare, nell’interesse delle loro opere, in occasione delle rappresentazioni in provincia»4. Di nuovo, appunto, l’ossessione del mercato della provincia, l’invito agli autori a produrre, pubblicare, farsi rappresentare, e dunque arricchirsi.
Naturalmente, è chiaro che c’è una doppia anima in questi giornaletti specializzati, che si rivolgono a un duplice pubblico di lettori, come avverte già il sottotitolo stesso della «Revue du Théâtre», che suona: «Journal des Auteurs, des Artistes et de Gens du Monde». Da un lato i professionisti del teatro (gli autori, ma anche gli artisti, cioè attori, direttori di teatro ecc.); e dall’altro lato la gente di mondo che frequenta i teatri come spettatrice, che legge le cronache teatrali in quanto appassionata di spettacoli. Di qui, a un certo punto, questa significativa e interessante presa di posizione redazionale, in un articolo intitolato Gravures et mises en scène de la Revue du Théâtre, sempre del 1835: «Le messinscene, così dettagliate quali noi le offriamo, sono la cosa del mondo più utile per i direttori e gli artisti; e la più inutile, per non dire fastidiosa, per la gente di mondo. Per conseguenza, a partire dal prossimo numero, e per due volte al mese, pubblicheremo, sotto forma di supplemento, quattro pagine a stampa, corpo piccolo e a due colonne, per offrire tutte le messinscene della quindicina. Raggiungeremo in questo modo due finalità: risparmieremo alla gente di mondo l’inconveniente di avere, nella raccolta ad essa destinata, delle parti estranee; e troveremo il modo di essere più rapidamente e più completamente utili agli artisti»5.
La Allevy segnala come più antichi, fra i livrets de mise en scène accertati, alcuni testi del 1827-18286, ma la spinta sorgiva, l’esigenza prima di un tale genere di pubblicazione, può essere riportata indietro di almeno un decennio. Infatti, sul «Courrier des Spectacles» del 20 maggio 1818, a proposito di Chateau de Paluzzi, realizzazione del Teatro dell’Ambigu-Comique, troviamo scritto:
Segnaliamo quest’opera ai signori direttori di provincia come una fortunata speculazione; già numerose città fremeranno di spavento e di orrore al Chateau de Paluzzi, e noi crediamo di servire i loro interessi, dando loro qualche indicazione. Questa pièce non esige alcuna spesa né di scenografie né di costumi, i balletti possono essere soppressi, e la musica non è assolutamente necessaria se non nelle ultime scene del secondo atto7.
La provincia, naturalmente, è meno ricca della capitale. Il giornalista – prudente, e già con la mentalità dell’agente teatrale – si è preoccupato di proporre uno spettacolo accettabile per rapporto qualità/prezzo. Qualche volta lo sconto per la provincia è assolutamente e candidamente esplicitato, per esempio a proposito del Kean di Dumas padre: «Per le compagnie di provincia poco numerose, alcune di queste parti potranno essere raddoppiate»8 (un singolo attore potrà cioè sostenere due diverse parti). Il teatro è esibito quale terra di conquista per gli animal spirits. È davvero necessario rinunciare a una visione idealistica del teatro. La nostra è storia del teatro materiale, che deve cogliere – anche, prima di tutto – la dimensione bassa, commerciale, di un’impresa che resta, appunto, un’impresa, segmento di un’organizzazione che partecipa dell’industria dello spettacolo. La nascita della regia ha a che fare con questo impasto di soldi e di appetiti, di vanità e di narcisismi, ma anche di semplici richieste di modi per sbarcare il lunario. La professione del regista è una nuova professione, indotta da questo sviluppo del teatro che stiamo descrivendo. Se occorre duplicare in provincia ciò che ha avuto successo economico a Parigi, allora occorre qualcuno che si occupi della bisogna, che sia capace di assemblare l’insieme di elementi forniti dai livrets de mise en scène, cioè ordinare le scenografie a una ditta specializzata, chiedere a un sarto di preparare i costumi ecc. Un professionista della mediazione, in grado di tradurre in una sintesi spettacolare...

Indice dei contenuti

  1. Prologo accademico
  2. 1. L’arte della fabbrica
  3. 2. E se il primo regista fosse l’autore?
  4. 3. Un opportuno militarismo teutonico: i Meininger
  5. 4. La macchina del testo: Antoine
  6. 5. Il grande padre della regia: Stanislavskij
  7. 6. Il regista con la pistola: Mejerchol’d
  8. 7. Brecht, la nuova tecnica dello straniamento
  9. 8. La regia critica: la via italiana al realismo (da Strehler a Castri)
  10. 9. Luca Ronconi, genialità e insoddisfazione
  11. 10. La perdurante efficacia dei «classici»: Ariane Mnouchkine
  12. 11. Sciamani e poeti della scena: la linea Grotowski-Barba
  13. 12. Kantor, il regista è in palcoscenico
  14. 13. Breve epilogo sul dito di Dio