Apocalypse town
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Apocalypse town

Cronache dalla fine della civiltà urbana

  1. 248 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Apocalypse town

Cronache dalla fine della civiltà urbana

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Dalle praterie urbane di Youngstown, dove l'amministrazione comunale si è ormai ridotta a pianificare con zelo l'autodistruzione della città, all'industria del riciclo e della decostruzione di Buffalo, in cui attivisti visionari smontano con dovizia e con amore ciò che resta della città; dai deserti alimentari di Detroit e Philadelphia, dove sono scomparsi negozi e supermercati e gli abitanti si organizzano con geniali intraprese agricole, agli esperimenti di Cleveland dove fra le macerie della città sta prendendo forma un nuovo paesaggio de-urbanizzato: Alessandro Coppola racconta territori e popolazioni di un'America che non conosciamo, storie di persone che inventano nuovi modi di vita, perché da quelle parti sono in molti «a credere che il trovarsi ai margini dei grandi flussi dell'economia globale non sia più il problema da risolvere, ma la grande occasione da non sprecare».Ad Alessandro Coppola è stato assegnato il Premio Lo Straniero 2012

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858100028

IX. Da un’utopia all’altra

I conti salati dello «shrinkage»

A guardarli con gli occhi di chi è abituato a leggere il mondo attraverso le lenti della crescita, il decennio appena trascorso è stato un altro decennio perduto per la Rust Belt. Basta guardare a cosa è accaduto in Ohio, anzi «the failed state of Ohio», come lo ha definito un suo impietoso osservatore1. Fra il 1999 e il 2005, qui sono andati perduti quasi 300.000 posti di lavoro manifatturiero, e solo in poche città l’occupazione creata nel frattempo nel settore dei servizi ha compensato la perdita di quella spazzata via dalla chiusura delle fabbriche. In alcuni casi, la perdita di posti di lavoro è stata disastrosa: a Irontown, in sei anni, è scomparso il 60% dell’occupazione operaia. Poi, come abbiamo visto, è arrivata anche la grande recessione, che ha aggredito molte economie urbane sul versante immobiliare, lasciando dietro di sé nuove macerie andate a sovrapporsi a quelle depositate dalle precedenti ondate di distruzione2.
L’insostenibilità crescente dei costi di gestione di questo paesaggio costituisce uno dei moventi fondamentali di quel cambiamento culturale che sta spingendo molte amministrazioni a immaginare un modo diverso di governare la crisi delle loro città. Pianificare – e quindi accettare – il declino ne comprimerebbe i costi, oggi insostenibili. Come abbiamo visto nel caso di Youngstown, fin dai primi segni di abbandono, i servizi comunali devono innalzare i livelli di sorveglianza del territorio3. La vita di molti funzionari comunali si trasforma così in una guerriglia quotidiana combattuta fra le rovine della città abbandonata. «Lo staff degli uffici urbanistici deve rispondere alle lamentele dei cittadini, condurre le ispezioni, lavorare con proprietari non collaborativi o spesso inesistenti e monitorare l’applicazione delle norme», si legge in un recente rapporto. «Si tratta di un lavoro estremamente frustrante, descritto da un impiegato come ’il correre dietro a morti e poveracci’»4. E poi c’è la spesa pubblica indotta dalle patologie scatenate dall’abbandono. In particolare, da quando George L. Kelling e James Q. Wilson hanno elaborato la loro popolare «broken window theory», l’allarme nei confronti delle proprietà dimenticate ha cessato di essere di natura meramente finanziaria. Secondo i due studiosi, «se in un palazzo una finestra rotta non viene riparata, la gente cui piace rompere i vetri assumerà che a nessuno importa di quel palazzo. Altre finestre verranno rotte, con il disordine che eventualmente diventerà crimine vero e proprio»5. Una ricerca condotta qualche anno fa a Richmond, in Virginia, sottolineava come fra tutte le variabili considerate la presenza di proprietà abbandonate o vacanti fosse quella con la più forte correlazione con il crimine6. Questo assorbe ovviamente le attività delle forze di polizia che, con un personale sempre più scarso, spendono una porzione importante del loro tempo in un’estenuante esplorazione del territorio alla caccia dei crimini reali e potenziali che vi si generano. Prima ancora ci sono però i costi di gestione diretta della città abbandonata da parte dell’amministrazione comunale: inventariare e ripulire i lotti vuoti, sigillare o demolire gli edifici dimenticati7. Le demolizioni poi hanno costi esorbitanti: non si tratta solo di distruggere, il terreno liberato deve essere poi ripulito e convertito a un qualsiasi altro uso. Se non fosse per i finanziamenti federali che ora l’amministrazione Obama ha concesso a molte delle shrinking-cities per liberarsi degli edifici in eccesso – paradosso doloroso: parte degli stanziamenti arrivati da Washington per stimolare la ripresa economica sono finiti in discariche e pale meccaniche8 –, di demolizioni neppure si parlerebbe. Insomma, la distruzione costa – e molto – in termini di maggiore spesa, ma anche in termini di minori entrate. In un sistema federale nel quale le città finanziano una parte importante dei propri servizi fondamentali per mezzo della tassazione sugli immobili, un mercato locale debole e sfregiato da troppe proprietà inutilizzate è forse la peggiore delle iatture. Proprietà vacanti e abbandonate riducono, infatti, il gettito fiscale perché sono spesso associate all’evasione, perche il loro ridotto valore genera tasse altrettanto basse e perché – stando a un gran numero di ricerche – la loro stessa presenza ha un effetto deprimente sul valore degli immobili che le circondano9. A Cleveland, nel solo 2006, si stima che siano andati perduti, a causa dell’abbandono, oltre 30 milioni di dollari in tasse mai pagate. Mentre uno studio del 2001 dimostrava come in un quartiere di Philadelphia il valore delle case poste a una distanza di circa cinquanta metri da immobili vuoti o abbandonati si riducesse di quasi 8000 dollari: più la distanza aumentava, minore era la perdita di valore10. Chi rimane in un quartiere in declino deve quindi fronteggiare un calo del valore dell’immobile di cui è in possesso, con tutto quello che può comportare: da una maggiore difficoltà a ottenere prestiti da parte degli istituti di credito fino ad arrivare a un aumento dei premi assicurativi. Inoltre, ritornando sul fronte della spesa pubblica, anche i costi dei servizi fondamentali impennano, ricadendo sulle spalle dei residenti11. La questione, come sottolinea lo studioso Thomas Dye, è molto semplice: le reti infrastrutturali sono fisse e, quindi, difficili da adattare al variare del numero dei loro utilizzatori. Servizi di base quali la fornitura di acqua, di energia e di trasposto pubblico costano di più in città in declino, dotate di infrastrutture in via di veloce logoramento. Con meno persone a sostenere questi costi, la loro incidenza pro-capite aumenta12. In molte città della Rust Belt sta accadendo esattamente quanto si è potuto osservare in alcune città della Germania orientale, con la differenza che da queste parti il governo federale e i governi statali sono decisamente meno generosi nell’assistere le città in crisi. Il sottoutilizzo del sistema delle acque pubbliche, per esempio, ha costi molto elevati. Sembra un paradosso, ma consumare di meno, quantomeno in questo caso, non aiuta l’efficienza. Gli impianti di trattamento delle acque, se oggetto di manutenzione adeguata, possono durare venti o venticinque anni prima di richiedere un intervento di ristrutturazione, mentre una condotta può resistere per un lasso di tempo che varia dai quindici agli oltre cento anni. L’aspettativa di vita di un acquedotto può, però, mutare significativamente col ridursi del flusso delle acque13. In molte città dei Länder orientali della Germania, è la riduzione della densità abitativa media da tre a meno di due persone per alloggio, con il relativo ridimensionamento dei consumi, ad essere all’origine di un aumento – alla lunga insostenibile – dei costi pro-capite. In molte zone, il consumo di acqua potabile si è contratto ad appena il 30% della capacità produttiva disponibile, un livello davvero troppo basso. Da questo dipendono rischi di contaminazione e di generazione di odori, che implicano costi più elevati in termini di monitoraggio, ma anche la corrosione degli elementi di cemento dei bacini e delle condotte, con il conseguente aumento del fabbisogno di manutenzione. Semplificando, per due ricercatori tedeschi, l’abbandono diffuso o la demolizione di circa il 50% degli immobili costituisce una soglia critica non valicabile, che in molte aree della Rust Belt è però pericolosamente vicina14. Anche sul fronte dei sistemi di approvvigionamento energetico emergono nuovi problemi. Nonostante la situazione non sia egualmente grave, la domanda declinante conduce ad un aumento della capacità in eccesso nelle centrali elettriche e, quindi, a una complessiva riduzione di efficienza ed economicità del sistema.
Inoltre, anche altri servizi indispensabili alla sopravvivenza di una città, come l’asfaltatura e la manutenzione delle strade, la rimozione della spazzatura e della neve o la difesa anti-incendio, sono destinati ad essere drasticamente ridimensionati a causa, ancora una volta, dell’aumento dei costi pro-capite. Le stesse reti di trasporto pubblico – già storicamente sottodotate in molte città della Rust Belt – diventano sempre più insostenibili dal punto di vista finanziario. Secondo una ricerca di Brookings Institution, ci vuole una media di almeno 4000 residenti al miglio quadrato per rendere sostenibile il passaggio di un mezzo pubblico15. Purtroppo però in diverse aree di Cleveland o Detroit siamo ormai lontani da quelle densità, in un contesto nel quale l’automobilismo di massa è per moltissimi un miraggio: a Motor City il 30% dei residenti non ha accesso a un veicolo privato16. In sintesi, l’incubo di città spopolate e con servizi scarsi, costosi e inefficienti sta spingendo un numero crescente di amministratori, urbanisti e attivisti locali a immaginare una forma radicalmente nuova di urbanità. L’idea non è più quella di attirare ad ogni costo nuovi abitanti e capitali per colmare i vuoti e lenire le ferite delle città, ma di manipolarne il territorio in modo da renderlo più abitabile per chi, a differenza dei tanti, ha resistito all’istinto della fuga. Che cosa fare, dunque, di tutti quei terreni e di tutte quelle case che il mercato non vuole? Che cosa fare di reti infrastrutturali costose ed eccedenti, perché costruite per città con una popolazione spesso doppia di quella attuale? Sono soprattutto queste le domande che tengono occupate le menti di chi – attivisti, planner, amministratori locali – le città in crisi della Rust Belt vorrebbe ancora tentare di salvarle.

Rarefare la città

In America, i riflessi anti-urbani sono da sempre molto potenti, tanto da assurgere a uno dei miti fondativi della nazione. Per Thomas Jefferson la città era l’origine di tutti i mali mentre la stessa democrazia americana, per essere vitale, doveva fondarsi su di un accesso di massa alla proprietà agricola: coltivare un pezzo di terra proprio equivaleva ad onorare le virtù del lavoro e della partecipazione civ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. L’agonia della città giovane
  3. II. L’assassinio delle città
  4. III. Eutanasia o resurrezione?
  5. IV. La città che riciclò se stessa
  6. V. Combattere lo «shrinkage»
  7. VI. Il ghetto ha fame, anzi mangia male
  8. VII. La rinascita dell’agricoltura urbana
  9. VIII. Un nuovo metabolismo urbano
  10. IX. Da un’utopia all’altra