Riforma costituzionale: le ragioni del No
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Riforma costituzionale: le ragioni del No

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Riforma costituzionale: le ragioni del No

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Un'interpretazione controcorrente del dibattito sulla riforma costituzionale ed elettorale che sotto la propaganda a favore del nuovo smaschera la vecchia politica. Non si ode, forse, la voce della più antica sapienza italica – se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi – dietro le concitate promesse e le velate minacce che incitano ad abbracciare entusiasti il futuro istituzionale che avanza? Sul grande dramma inscenato sulle spoglie della Costituzione si staglia l'insegna araldica del Gattopardo.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858127148

1. Riforme: un po’ di chiarezza

Prima del presunto Armageddon di dicembre è opportuno riflettere sulla principale fonte di legittimità che la XVII legislatura si è attribuita con un ininterrotto mantra narrativo: le “riforme” e in particolare la revisione costituzionale e la nuova legge elettorale.
Le riforme hanno in realtà una storia un po’ più complessa e una valenza più articolata rispetto al significato tra il mistico e lo sloganistico che il discorso pubblico attribuisce loro. Nella storia del pensiero politico si conoscono infatti diversi tipi di riforma: quelle razionalistiche dell’assolutismo illuminato, quelle progressiste della borghesia nascente, quelle socialiste della Seconda Internazionale che, lasciando immutato il fine della socializzazione dei mezzi di produzione, ovvero della radicale trasformazione delle forme politiche e dell’instaurazione di una società senza classi, si concentravano sul metodo democratico, sul rifiuto della rivoluzione ma anche della teoria del “crollo” del capitalismo. Nel XX secolo si sono avute le riforme organicistiche e corporativiste degli autoritarismi, e quelle democratiche dell’ordoliberalismo. Soprattutto, hanno fatto epoca quelle della socialdemocrazia europea del secondo dopoguerra (in particolare in Germania, dopo il congresso di Bad Godesberg nel 1959), volte non più a superare il capitalismo, ma a civilizzarlo, a democratizzarlo, a stabilire una convivenza tra forze socialiste e capitalismo, al quale si trattava di far assumere configurazioni compatibili con l’estensione dell’inclusione sociale e dell’uguaglianza civile, guidata e garantita dalla politica. È il “compromesso socialdemocratico” dei “Trenta gloriosi”, che nella storia d’Italia si manifesta – almeno nelle intenzioni – con il primo centrosinistra e con le sue “riforme di struttura”, ma anche con la lunga esperienza amministrativa comunista in Emilia-Romagna.
Ci sono poi le riforme del capitale, quelle che il neoliberismo esige per porsi e conservarsi come unica forza capace di agire nella società: le riforme di Thatcher e Reagan, e poi della sinistra europea che ha importato sul Vecchio Continente le esigenze del neoliberismo. In Italia quelle di Monti, di Letta e di Renzi, che hanno come obiettivo di modernizzare il Paese nel senso di eliminare le rigidità politiche, giuridiche e istituzionali costituite dai diritti acquisiti e dalle legislazioni sociali, per consegnarlo, divenuto liquido, fluido, flessibile, alle dinamiche e alle potenze del neoliberismo. Riforme di de-regolazione, quindi, non di regolazione in senso progressivo, imposte da destra da parte di Monti e giustificate da sinistra da Letta e soprattutto da Renzi, con l’argomento che c’è più giustizia sociale nell’eliminare difese disuguali e nell’armonizzarle al ribasso piuttosto che nel mantenerle – l’ipotesi di renderle uguali estendendole a tutti ai massimi livelli non è presa in considerazione. Oppure, nel caso delle riforme istituzionali, con l’argomento che sconfiggere il potere delle caste politiche (cioè del Parlamento) e affidarlo al leader eletto è più democratico che non conservare lo status quo; di ri-democratizzare il sistema politico italiano ripristinando la centralità reale del Parlamento non si discute neppure; quello che interessa è la flessibilità del lavoro e l’incremento della governabilità, funzionali all’aumento del Pil, nella convinzione che ciò che aumenta il Pil aumenta anche il benessere sociale e la democrazia. Il che forse sarebbe vero se la ricchezza prodotta venisse ri-distribuita, cosa che all’interno del modello neoliberista e anche di quello ordoliberista non può avvenire, sia perché di ricchezza ormai se ne produce poca, sia perché il modo di produzione reale vede il lavoro del tutto subalterno, cosicché i profitti vanno prevalentemente a fasce sempre più ristrette della popolazione.
Queste riforme sono presentate come urgenti e necessarie per sbloccare l’Italia e metterla al passo della modernità, ovvero di ciò che ci chiedono i mercati e l’Europa, al punto che chi vi si oppone è additato alla pubblica esecrazione come irresponsabile conservatore, nemico della Patria, mentre sono palesemente il prodotto di una politica al servizio dei poteri economici, che vuole rafforzare se stessa per meglio obbedirli. La loro urgenza e necessità è sostenuta da ciò che resta della sinistra in Italia – in linea teorica, il Pd – con una sicurezza sconfinante nella fede, frutto della introiezione delle logiche del neoliberismo avvenuta a sinistra dopo la fine del comunismo reale. In realtà, ciò che la sinistra di governo oggi definisce “riformismo” è la presa d’atto che gli istituti sociali e giuridici elaborati durante la Prima Repubblica sono entrati progressivamente in crisi sotto la spinta delle esigenze del nuovo modello economico e della società che esso plasma; esigenze che per essere pienamente e razionalmente soddisfatte richiedono ormai un riassetto profondo dell’esistente, non già per ri-democratizzare la società e le istituzioni quanto piuttosto per assecondare i cambiamenti intercorsi e per liberarli dagli impicci che i resti dell’antico sistema potrebbero arrecare al pieno sviluppo di una società in cui il neoliberismo vuole dominare incontrastato.
Le riforme spaziano in ogni ambito della vita pubblica e dell’esperienza sociale, ma evidentemente le due principali sono quella costituzionale e quella elettorale.

2. La revisione della Costituzione

La caduta del governo Letta nel febbraio 2014 ha messo fine al tentativo di gestire la riforma della Costituzione attraverso la modifica dell’art. 138 e ha posto le basi per l’iniziativa di Renzi. Un’iniziativa governativa discussa sì in Parlamento secondo le procedure costituzionalmente previste, ma nella sostanza blindata dall’esecutivo.

Il cosiddetto “merito”

Poiché si invoca a gran voce che la discussione della nuova Costituzione avvenga “sul merito”, si tratta di capire dove questo risieda, al di là delle strategie di depistaggio cognitivo messe all’opera, con la consueta forza mediatica, da parte della maggioranza. Le argomentazioni che provengono dal fronte del Sì sostengono che il merito della riforma sta, quanto all’oggetto, nel...

Indice dei contenuti

  1. 1. Riforme: un po’ di chiarezza
  2. 2. La revisione della Costituzione
  3. 3. La legge elettorale
  4. 4. Per concludere, e per ricominciare
  5. L’autore