VI. Gheddafi e l’italia
Il periodo della collaborazione
Ciò che stupisce in Gheddafi è la straordinaria capacità di occuparsi simultaneamente di moltissimi problemi, e fra i più disparati. Problemi che riguardano la politica interna ed estera del suo paese, l’islam e le altre religioni monoteiste, le teorie economiche e sociali, i sistemi politici, la questione ecologica e il futuro dell’umanità.
Nei primi quindici anni del suo «regno» cerca per sette volte di avviare il processo di unificazione del mondo arabo. Si sforza di abbattere le frontiere tracciate dal colonialismo europeo nell’Africa Occidentale e Centro-Orientale e di creare nuove e più omogenee formazioni geo-politiche. Sostiene un notevole numero di movimenti di liberazione nella loro lotta per l’indipendenza. Inventa una teoria politica e cerca di applicarla nel proprio paese, in attesa di esportarla altrove. Compie una personalissima rilettura del Corano e confuta da una parte le tesi degli ulama, dall’altra quelle dei fondamentalisti. Mette insieme il più costoso, il più eterogeneo, il più superfluo esercito del continente africano, con il quale perde regolarmente tutte le sue guerre.
Finanzia, con troppa disinvoltura, buoni e cattivi su scala planetaria. Guida la lotta contro il sionismo e inventa il «fronte della fermezza». Spregiudicatamente si intromette negli affari degli altri paesi creando un vortice di contatti, intrighi, intimidazioni, di cui alla fine perde lui stesso il controllo. Nei ritagli di tempo coltiva, ben corrisposto, un odio implacabile per gli Stati Uniti. Scopre che gli antenati dei pellerossa sono libici. Scrive deliziosi racconti, nei quali alterna il paradosso all’umorismo, la riflessione alla buffonata, l’autocritica allo strale assassino. Si fa persino missionario dell’islam e converte al Corano il presidente del Gabon, Omar Bongo. Fallisce, invece, con il presidente del Congo, Marien Ngouabi, come apprendiamo da questo colloquio:
Gheddafi: – Vi ho spesso parlato dell’islam nel corso dei nostri colloqui e vi ho consigliato di abbracciare la nostra religione per dare il buon esempio al vostro popolo. Avete riflettuto, signor Presidente?
Ngouabi: – Ho riflettuto a lungo sulla vostra proposta, caro fratello. Non posso diventare musulmano perché io sono già marxista.
Gheddafi: – Ciò non ha alcuna importanza: si può essere marxisti e musulmani!
Ngouabi: – Ma io sono un marxista scientifico...
Gheddafi: – E allora? L’islam venera la scienza e la pone al di sopra di tutto.
Ngouabi: – Il fatto è... che io non sono soltanto marxista scientifico. Sono anche ateo.
Gheddafi: – (in collera per il rifiuto) Se voi siete ateo, non dovreste essere capo di Stato. Non si può essere capo di Stato ed insieme ateo...1.
Abbiamo lasciato per ultimo il rapporto di amore e odio di Gheddafi per l’Italia, perché merita un’analisi approfondita, un intero capitolo. I motivi dell’odio già li conosciamo. Il Leader ha avuto il nonno, due prozii paterni, due cuginetti uccisi dagli italiani o morti a causa dei loro ordigni di guerra. Lui stesso è rimasto ferito da una mina italiana, e suo padre ha conosciuto i guasti del piombo italiano. Ma Gheddafi si fa anche carico del dolore, della rabbia, del desiderio di vendetta delle centomila famiglie che hanno subìto torti durante il periodo dell’occupazione italiana. È sua l’idea di chiedere all’Italia i danni di guerra, in una misura maggiore di quelli già liquidati da Roma a re Idris. È sua l’idea di far eseguire dal Dipartimento della tradizione orale del Libyan Studies Centre, tra il 1978 e il 1985, la rievocazione della guerra di resistenza agli italiani attraverso decine di migliaia di interviste su nastro2. È sua l’idea di enfatizzare le gesta dei mujahidin allestendo mostre e musei, rivoluzionando la toponomastica, sfornando serie di francobolli con gli episodi più salienti della lotta anticolonialista. È sua, infine, l’idea di dedicare ad Omar al-Mukhtar, a Bengasi, un mausoleo, dove si può leggere questa epigrafe:
Hanno sprofondato il tuo corpo
nella sabbia, come una bandiera.
Eroe del beduinismo, tu hai affrontato
la morte a testa alta,
come Socrate dinanzi ai suoi giudici.
O Africa, culla e tomba dei leoni...3.
Quando si rivolge all’Italia per ricordarle il suo passato coloniale e per chiedere che i torti subìti dai libici vengano riconosciuti e risarciti, Gheddafi non parla a titolo personale. Interpreta fedelmente i sentimenti di un popolo che non può dimenticare le stragi, le deportazioni, i campi di concentramento, i soprusi, le indemaniazioni forzose, le confische e trent’anni di continuo disprezzo. Egli è quindi legittimato ogni anno, il 7 ottobre4, a pronunciare le sue arringhe contro l’Italia. Nella «Giornata della vendetta» egli incarna dunque la volontà di una nazione di ripensare al proprio passato, di celebrare l’epopea partigiana, di sollecitare una condanna dell’epoca coloniale che da Roma non è ancora giunta.
Ma Gheddafi sa anche che l’Italia di oggi non è più quella di Giolitti e di Mussolini. Uscita sconfitta dalla 2ª guerra mondiale, è la sola potenza mediterranea che non conservi brandelli di anacronistici imperi e che non nutra rivendicazioni territoriali. Per di più è il primo partner commerciale di Tripoli, e quando le è stato chiesto di contribuire allo sviluppo della Libia, lo ha fatto con il meglio della sua imprenditorialità e della sua tecnologia. Si aggiunga che Gheddafi nutre una grande simpatia per la Sicilia, quasi fosse ancora una terra araba, mentre scruta curioso il resto dell’Italia attraverso le antenne paraboliche della televisione, senza perdere una sola battuta delle vicende del popolo italiano.
Condizionati come sono da sentimenti contrapposti, i suoi rapporti con l’Italia non sono perciò costanti, ma estremamente mutevoli, senza però mai provocare una rottura. Se è vero, infatti, che nel corso del 1970 Gheddafi caccia dalla Libia gli ultimi 20 mila italiani incamerandone i beni, è anche vero che egli non taglia tutti i ponti con Roma. La prova più evidente è che si salvano dalla confisca le società dell’Eni e della Fiat che operano in Libia, e che le prime, anzi, finiranno per godere anche di certuni privilegi.
Nel corso degli anni Settanta, come vedremo, i rapporti economici fra i due paesi miglioreranno a tal punto che, per ben due volte, nel 1971 e nel 1978, Gheddafi verrà invitato a compiere una visita ufficiale in Italia. Ma entrambe le volte la visita non ci sarà, perché su di un punto il colonnello è irremovibile, egli non rinuncerà mai alle riparazioni. Lo ripeterà ogni anno il 7 ottobre. Lo ripeteranno i suoi collaboratori, in tutte le sedi.
Il primo a riaprire il contenzioso con l’Italia è stato, come si ricorderà, il ministro degli Esteri Salah Bouissir, il 30 luglio 1970. Due anni dopo Tripoli torna alla carica chiedendo all’Italia la somma di 100 milioni di dinari libici (oltre 160 miliardi di lire) quale compenso per «le terre usurpate dal governo italiano fra il 1911 e il 1943». Il 9 ottobre del 1972 viene avanzata una nuova richiesta. Parlando all’Assemblea generale dell’Onu, il nuovo ministro degli Esteri libico Mansour al-Kikhya chiede riparazioni alle nazioni che nel corso della 2ª guerra mondiale hanno disseminato di mine il deserto occidentale libico:
Quando la guerra terminò, queste mine sono state lasciate a contaminare il nostro ambiente umano, ad esplodere sul volto dei nostri uomini, donne, bambini innocenti, ostacolando così in maniera concreta il nostro progresso e il nostro sviluppo. Da un punto di vista umanitario era imperativo che gli Stati belligeranti, successivamente diventati amici, ci fornissero un’indicazione sull’esistenza di queste mine che pongono in pericolo vite innocenti. Senza però una sola eccezione, tutti si sono astenuti dal compiere questo dovere umano e giuridico5.
Le ripetute richieste di risarcimenti obbligano la Farnesina ad aprire con il governo di Tripoli dei negoziati che si protrarranno sino al 1975, senza però giungere ad alcun risultato. Ma se Roma non sembra affatto disposta a cedere su questo argomento6, rivela, invece, su altri problemi e in altre circostanze, la più marcata disponibilità. Da sottolineare, ad esempio, l’invito rivolto a Gheddafi nel 1971 a compiere una visita ufficiale in Italia, quando già il personaggio, per certe sue discutibili iniziative, ha perso lo smalto dei primi tempi della rivoluzione ed è guardato con crescente sospetto. Per non parlare, poi, del decisivo sostegno dei servizi segreti italiani al regime di Gheddafi quando, con il «Piano Hilton», alcuni oppositori del colonnello cercano nella primavera del 1971 di sbalzarlo di sella. «Si può sostenere validamente – scrivono Patrick Seale e Maureen McConville – che gli italiani confiscarono il “Conquistador” perché l’Eni e i capi della Democrazia Cristiana non volevano che qualcuno nel Mediterraneo sconvolgesse la loro politica d’amicizia con Gheddafi»7.
Di estremo interesse, a questo proposito, sono le rivelazioni fatte dal generale Ambrogio Viviani, ex capo dei servizi segreti italiani:
Dal ’70 al ’74, nel periodo in cui diressi il controspionaggio italiano...