Bella e perduta
eBook - ePub

Bella e perduta

L'Italia del Risorgimento

  1. 360 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Bella e perduta

L'Italia del Risorgimento

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

UnItalia dolente, notturna, divisa, risvegliata alla libertà. Le armi, le parole di un popolo che scopre se stesso dopo secoli di servitù. Giovani che hanno combattuto per lunità e lindipendenza della nazione. Questo è stato il Risorgimento. E questo resta lorizzonte storico insormontabile della nostra identità nazionale e del nostro Stato democratico.Dal 1796 al 1870 vi è stato un tempo della nostra storia nel quale molti italiani non hanno avuto paura della libertà, lhanno cercata e hanno dato la vita per realizzare il sogno della nazione divenuta patria. È stato il tempo del Risorgimento quando la libertà significava verità. Anzitutto sentirsi partecipi di una Italia comune, non dellItalia dei sette Stati, ostili tra loro e strettamente sorvegliati da potenze straniere. La conquista della libertà 'italiana è stata la rivendicazione dellunità culturale, storica, ideale di un popolo per secoli interdetto e separato, laffermazione della sua indipendenza politica, la fine delle molte subalternità alla Chiesa del potere temporale, lingresso nellEuropa moderna delle Costituzioni, dei diritti delluomo e del cittadino, del senso della giustizia e del valore delleguaglianza ereditati dalla rivoluzione francese.Vincitore della V edizione del Premio nazionale di cultura "Benedetto Croce", sezione saggistica.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Bella e perduta di Lucio Villari in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Storia e Storia del XXI secolo. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858103814
Argomento
Storia

Capitolo settimo.
Dai Mille a Roma

«Notte stellata, bella, tranquilla, solenne, di quella solennità che fa palpitare l’anime generose che si lanciano all’emancipazione degli schiavi!». Garibaldi ricorda così le ore tra il 5 e il 6 maggio 1860, quando l’avventura è già iniziata. Nino Bixio con una quarantina di volontari sale a bordo del Piemonte e del Lombardo, ordina di accendere le caldaie e di spostare i piroscafi dal porto di Genova «per imbarcare la gente che aspettava, divisa tra la Foce e Villa Spinola». La villa, dove Garibaldi era ospite dell’amico Augusto Vecchi, da diversi giorni era il quartiere generale dell’impresa: un andare e venire di amici, compagni di lotta, messaggeri furtivi e messaggi del prezioso telegrafo elettrico. Si fanno piani, si scrutano le carte, si pensa alle armi che dovrebbero arrivare con la sottoscrizione per «Un milione di fucili»; nervi a fior di pelle e ansia, ma si suona il pianoforte e Garibaldi, con calda voce baritonale, canta arie di opere. Ci sono tutti, a cominciare dai siciliani Crispi, La Masa, Carini. «Bixio – conferma Garibaldi – è certamente il principale attore della spedizione. Sorprendente. Il suo coraggio, la sua attività, la pratica sua nelle cose di mare e massime di Genova suo paese natio valsero immensamente ad agevolare ogni cosa». Le navi ormeggiano con le macchine sotto pressione al largo della stretta spiaggia e degli scogli di Quarto, a sei chilometri da Genova. «Davanti, larga, nitida, candida / splende la luna», scriverà Carducci. Quanti stanno per imbarcarsi abbracciano le mogli, i bambini, le fidanzate, i genitori; Garibaldi è già tra loro. «Attraversò la strada – è il ricordo di un volontario d’eccezione, il ventiduenne Giuseppe Cesare Abba – e per un vano del muricciolo rimpetto al cancello della villa, seguìto da pochi, discese franco giù per gli scogli. Allora cominciarono i commiati». I numerosi barconi che portano i volontari raggiungono man mano i piroscafi sbuffanti. Garibaldi sale sul Piemonte, Bixio guiderà il Lombardo. «Quanta gente!», esclama sorpreso il generale mescolato tra la folla dei partenti, tra i moltissimi giovani entusiasti e i veterani Cacciatori delle Alpi. «All’alba – scrive Garibaldi – tutto era a bordo. L’ilarità del pericolo, delle venture e della coscienza di servire la causa santa della patria era impronta sulla fronte dei Mille».
Si parte: rotta a Sud. Garibaldi parla di «Mille», ma questo numero, che diventerà storico, quella notte non fu detto da nessuno, né erano state contate con esattezza le persone imbarcate. Forse millecento uomini, sicuramente una sola donna, la moglie di Crispi, Rosalia. Si andava in Sicilia senza sapere in quale parte dell’isola approdare. I siciliani a bordo erano in quarantacinque; novecento e più erano lombardi, veneti, liguri e toscani. Professionisti e intellettuali in gran parte, il resto operai e artigiani. Molti i combattenti del 1848 e un gran numero i Cacciatori delle Alpi, reduci dalle recenti battaglie vittoriose della seconda guerra d’indipendenza. I meglio organizzati e armati un gruppo di carabinieri (cioè dotati di carabine ultimo modello) genovesi guidati da Antonio Mosto.
«L’ilarità del pericolo» dà l’idea dei sentimenti euforici delle prime ore di navigazione, che aleggeranno sempre, dando fiducia e ottimismo ai combattenti, anche nei momenti più difficili dell’impresa. Era la freschezza dello spirito «garibaldino», il piglio coraggioso e allegro della spedizione; stati d’animo politici, non soltanto umorali, che avranno un traslato narrativo nei precisi e piacevoli ricordi di Alberto Mario (La camicia rossa), di Giuseppe Bandi (I Mille), tutti e due vicini e preziosi collaboratori di Garibaldi, e nel gioiello letterario Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, di Abba. Le prime impressioni sui garibaldini sono di Abba, a bordo del Lombardo: «Si odono tutti i dialetti dell’alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più. All’aspetto, ai modi e anche ai discorsi la maggior parte sono gente colta». E tra la gente colta vi era lo scrittore trentenne Ippolito Nievo. Non dimentichiamo l’attiva presenza di Nievo, scomparso tragicamente un anno dopo, né l’ultima notazione di Abba, perché definiscono la qualità delle camicie rosse, la loro consapevolezza, la «coscienza di servire» il fine politico e ideale di cui parlava Garibaldi, anche con le armi della cultura e della responsabilità morale.
La navigazione è tranquilla, ma i capi sanno di avere poche armi a disposizione. Un migliaio di fucili moderni che avrebbero dovuto essere consegnati si erano perduti nella confusione dei barconi a Quarto oppure erano stati dirottati da alcuni contrabbandieri infiltrati durante l’imbarco. Bisognava procurarsi nuove armi. La mattina del 7 maggio le navi approdarono a Talamone, dove esisteva un presidio militare (dopo l’annessione della Toscana era territorio del Regno di Sardegna). Dalla vicina Orbetello Garibaldi, nella divisa di generale sardo, si fece dare armi, quintali di polvere e di piombo e viveri. Dalle navi scese anche una colonna di circa sessanta volontari al comando di Callimaco Zambianchi («uno sterminatore di monaci sanguinario», lo chiama Abba). Obiettivo della «diversione Zambianchi» penetrare nello Stato pontificio, suscitare rivolte, trovare proseliti, disorientare l’attenzione dalla rotta delle navi garibaldine. Non avrà alcun successo; quanto all’attenzione, essa è già scattata, grazie a veloci informatori e soprattutto al telegrafo elettrico.
Cavour sa già tutto. Da aprile il console sardo a Palermo, Gaetano Rocca, teneva costantemente informato il presidente del Consiglio delle insurrezioni avvenute a Palermo e nella provincia e anche della controffensiva dell’esercito e della polizia borbonica. Tredici persone, che avevano partecipato insieme con i frati del convento della Gancia all’insurrezione di aprile, erano già state fucilate a Palermo. Ma le informazioni più dettagliate Cavour le cominciò a ricevere dal comandante della pirofregata sarda Governolo, il capitano Alessandro Amero d’Aste. La nave, con istruzioni non ben precisate, aveva gettato l’ancora nella rada di Palermo. Dopo un rapporto del 25 aprile, nel quale informava Cavour delle insurrezioni e dell’arresto di molti esponenti dell’aristocrazia palermitana, il 3 maggio il capitano d’Aste dava ulteriori notizie sulla situazione politica dell’isola. C’era ormai un clima da resa dei conti tra la popolazione e la sbirraglia borbonica scatenata insieme alle truppe regolari nel controllo spionistico e nella repressione. Tra le tante manifestazioni di dissenso dal governo di Napoli vi erano continui cortei con acclamazioni a Vittorio Emanuele II, ma erano azioni spontanee e si sentiva che i movimenti liberali mancavano di guida e di organizzazione. Si spargevano voci di un possibile arrivo di Garibaldi e di arrivi clandestini di uomini e armi. Le speranze sembravano anticipare gli eventi. Ultime notizie il 6 maggio. Mentre Garibaldi salpava da Quarto il console Rocca comunicava a Cavour:
Il giorno 6 alle ore 12 meridiane vi furono due grandissime dimostrazioni, una in questa Chiesa di S. Francesco d’Assisi, ove io era per sentirmi la Messa, e si gridò da tutti Viva Maria SS.ma, Viva Vittorio Emmanuele, Viva l’Italia. L’altra nell’istessa ora nella vasta Chiesa dei PP [Padri] di S. Filippo Neri, nella quale si gridò pure Viva Iddio, Viva Vittorio Emmanuele, Viva la libertà italiana; in questa dimostrazione vi presero parte anche le Signore che si erano portate in Chiesa per sentire la Messa. Da questi fatti si vede chiaramente che la rivoluzione è moralmente compita negli ardenti petti dei Palermitani, i quali se avessero avuto armi, sarebbe stata anche compita materialmente. La polizia non ha potuto eseguire pei fatti di sopra narrati nessun arresto, e la medesima si trova in grande avvilimento perché è da tutti odiata.
Il giorno dopo, il 7 maggio, da Torino Cavour telegrafa al capitano Amero d’Aste la notizia della partenza di Garibaldi con l’invito ad astenersi da qualsiasi intervento:
Questo Ministero la rende intesa che avant’ieri notte partirono illegalmente da Genova i due piroscafi Piemonte e Lombardo della Società Rubattino e C. avendo a bordo il Generale Garibaldi ed un numero d’individui intenzionati, a quanto credesi, di recarsi in Sicilia. I due bastimenti non erano muniti delle volute carte di bordo, o quanto meno non sono queste nella dovuta regola. Premessi questi cenni per occorrente informazione di V. S. Ill.ma, le soggiungo che Ella dovrà rimanere estranea a tutto quanto può riferirsi allo scopo del loro sbarco, né prendervi la menoma ingerenza.
Questo avvertimento può far credere che Cavour volesse da subito e in modo indiretto agevolare i movimenti di Garibaldi. È in parte vero. Ma solo in parte, perché comincia la tattica abilissima di Cavour di sorvegliare gli avvenimenti, di tastare il polso dei governi europei, rappresentati dai loro ambasciatori a Torino, e di ammettere qualcosa e negare tutto di fronte alle giuste preoccupazioni e rimostranze dell’ambasciatore del Regno delle Due Sicilie, diffidente, come il suo governo, dell’ambiguità del conte. E a Napoli si era già sospettato che la presenza a Palermo della Governolo non fosse altro che una copertura e che la nave battente bandiera sarda fosse un richiamo politico per i siciliani che acclamavano Vittorio Emanuele.
In singolare coincidenza di date e senza sapere nulla dell’imbarco dei garibaldini, il 5 maggio il ministro degli Esteri napoletano inviava un preoccupato dispaccio all’ambasciatore a Torino. «La presenza della bandiera piemontese nella rada di una città i di cui moti, quantunque repressi, hanno avuto luogo in nome del Piemonte, non era da assimilarsi a quella delle altre bandiere estere, ed infatti all’apparizione del Governolo, le dimostrazioni sediziose eran ricominciate in Palermo, credendosi i malintenzionati sostenuti da quella Potenza». Il sospetto divenne certezza il 7 maggio, quando le navi di Garibaldi erano in navigazione nel Tirreno. L’ambasciatore di Napoli investe direttamente Cavour, iniziando una campagna di proteste, di rimostranze, di minacce, senza immaginare l’abilità di Cavour ad ammorbidire, neutralizzare, prendere tempo e anche cercare di capire egli stesso che cosa fare.
Col Conte Cavour, dal quale mi recai immediatamente – scrive l’ambasciatore –, ho tenuto severissimo linguaggio. Le sue risposte furono evasive, invocò la impotenza legale, dichiarò che aveva fatto sempre sconsigliar Garibaldi dall’ingiusto tentativo, che due giorni prima Garibaldi, per mezzo di La Farina, avealo assicurato non muoverebbe, e conchiuse che il partito avanzato [i democratici] spingeva a tal dimostrazione, e che il contrariarla sarebbe stato segnale per Cavour di caduta di Ministero e dell’innalzamento di Rattazzi e consorti, i quali poi avrebbero alla dimostrazione somministrato sviluppo anche maggiore.
Una risposta impeccabile che non rispondeva a nulla e faceva solo trapelare, con l’eventuale spostamento a sinistra del governo di Torino, guai peggiori per il regno napoletano. E questo atteggiamento interlocutorio Cavour lo terrà anche nei confronti dell’impresa di Garibaldi per almeno tre mesi.
La navigazione del Piemonte e del Lombardo prosegue verso sud, lenta e senza intoppi. Le navi comunicano tra loro con segnali ottici. All’alba dell’11 maggio le coste siciliane sono in vista. Garibaldi decide di sbarcare a Marsala: dei pescatori marsalesi, incrociati al largo, avevano con le mani a megafono comunicato che le truppe borboniche avevano lasciato la città e che anche due vapori da guerra erano usciti dal porto lasciandolo libero. A mezzogiorno le due navi entrarono in porto, dove erano alla fonda due piroscafi inglesi impegnati a imbarcare barili di vino marsala dai loro depositi (a Marsala vi erano due fabbriche inglesi che producevano il delizioso vino, la Ingham e la Woodhouse). I vapori borbonici, che non erano andati molto lontano, tornarono indietro mentre, precipitosamente, i garibaldini sbarcavano sul molo. L’operazione fu rapida dal Piemonte, più faticosa dal Lombardo, che era finito su una secca. I borbonici aprirono subito il fuoco. Fuoco lungo, contro la città (ma alle finestre di molte case apparvero subito bandiere inglesi), e corto contro le due navi, ma c’era il rischio di colpire gli inglesi e fu dato l’ordine di sospenderlo. Fu l’incrociarsi di queste fortuite circostanze ad agevolare lo sbarco e a segnare come in un presagio di fortuna l’inizio dell’impresa dei Mille. Ma è pur vero che la presenza nelle acque siciliane di navi inglesi, commerciali o da guerra che fossero, garantì e protesse, diplomaticamente e militarmente, tutto il corso degli avvenimenti legati alla spedizione. Di questo Garibaldi poi rese testimonianza di gratitudine all’ammiraglio britannico George Mundy.
Dunque, poco dopo le 13 dell’11 maggio 1860, a Marsala, la città che si svelava a Abba con «le sue case bianche, il verde de’ suoi giardini, il bel declivio che ha dinanzi», prendeva l’avvio la storia più bella, più avventurosa, più romantica del Risorgimento italiano, la storia che consacrerà il mito e la verità di Giuseppe Garibaldi, il «magnanimo ribelle» che, nell’Europa e nel mondo, diventerà simbolo della libertà dei popoli e di solidarietà umana.
I venti giorni che intercorrono tra lo sbarco a Marsala e la liberazione di Palermo furono la rivelazione del valore dei Mille. Solo, con il poco apporto di bande di «picciotti», con armi insufficienti, Garibaldi piegò un esercito di 25.000 uomini con l’aiuto della sua intelligenza tattica, dell’esperienza di soldato, dell’abilità diplomatica (non rifiutò mai richieste di tregua o di assistenza ai nemici feriti e tentò sempre di convincere prima di vincere), della percezione del terreno e dello straordinario entusiasmo delle popolazioni locali. Contadini, aristocratici, preti liberali e monaci come frate Pantaleo (con loro «non è perduta – dirà Garibaldi – la vera religione di Cristo»), signore borghesi, furono sedotti dalle camicie rosse ma soprattutto dal biondo, bello loro capo, che affascinava con i gesti gentili, la voce calda, la generosa attenzione per l’incolumità dei civili. E anche le monache, quando i Mille conquistarono Palermo, furono tra questi: «La figura leggendaria di Garibaldi – scrisse Alberto Mario – aveva acceso la fantasia delle monache palermitane, le quali ne diventarono santamente innamorate». Cominciava a filtrare anche nelle campagne che Garibaldi e i suoi armati attraversavano un senso di stupore religioso, di ammirazione primigenia per un eroe che «somigliava a Gesù Cristo» e che come lui portava giustizia e amore tra la gente. Non sembri retorico richiamare queste immagini e visioni in una ricostruzione storica attenta ai dettagli reali di una guerra tra l’esercito regolare di uno Stato sovrano e «la banda di filibustieri» che aveva portato lo scompiglio in Sicilia. La campagna di Sicilia e quella sul continente furono vinte da Garibaldi anche perché «in quella voce tonante e armoniosa, in quell’occhio dolce e penetrante, era come la sovranità del genio del bene, che in quanti lo udivano o lo vedevano suscitava la scintilla del dovere». Sono parole di Antonio Labriola, il più importante filosofo italiano dell’Ottocento.
Appena sbarcato, dopo una serie di incontri con le autorità locali, Garibaldi cercò di far nascere dai siciliani l’impulso alla lotta e di avere da loro la legittimazione politica dell’impresa dei Mille. Da Marsala, subito dopo lo sbarco, il primo appello fu Ai Siciliani:
Noi siamo con voi e noi non chiediamo altro che la liberazione della nostra terra. Tutti uniti, l’opera sarà facile e breve. All’armi dunque! Chi non impugna un’arma è un codardo o un traditore della patria. Noi avremo fucili, ma per ora un’arma qualunque basta, impugnata dalla destra d’un valoroso. I Municipi provvederanno ai bimbi, alle donne ed ai vecchi. All’armi tutti! e la Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera un paese dagli oppressori, colla potente volontà di un popolo unito!
La mattina del 12 riprende la marcia. Garibaldi ha un cavallo bianco che ha chiamato «Marsala». L’ordine è di inoltrarsi all’interno puntando su Palermo e di rispettare scrupolosamente i civili e i loro beni. Lungo il cammino si lotta con la fame e la sete, ma vengono a dare man forte decine di picciotti. Un’avanguardia raggiunge velocemente la prossima tappa, Salemi, per preparare vettovaglie, utensili, mezzi d’ogni genere. La popolazione attende ansiosa Garibaldi, che giungerà il 13, accolto da applausi, dalla banda che suona arie di Verdi (i Vespri siciliani, anzitutto) e dalle bandiere tricolori. È il momento di dare il primo segnale politico: Garibaldi pubblica un proclama con il quale dichiara di assumere la dittatura della Sicilia in nome dell’Italia e di Vittorio Emanuele II. Dittatura sembra quasi un paradosso storico, ma è la magistratura degli stati eccezionali (l’aveva teorizzata Mazzini e a lui l’aveva proposta Garibaldi a Roma nel 1849) che permise a Garibaldi di esercitare i pieni poteri civili e militari per oltre quattro mesi. Susciterà l’entusiasmo di tutti i rivoluzionari d’Europa e la curiosità ammirata anche dei più formali costituzionalisti e parlamentari stranieri.
Il tempo intanto è cambiato a Salemi; comincia a piovere e arrivano notizie sul concentramento di truppe borboniche per fermare i «filibustieri». Il 15 all’alba si riprende il cammino verso Calatafimi, dove sono concentrati i borbonici guidati dal vecchio generale Francesco Landi. Le truppe sono schierate sulla collina detta Pianto dei Romani, mentre i garibaldini, giunti sul posto, occupano la collina di fronte. Sono separati da un avvallamento in parte coltivato a terrazze. Le camicie rosse vengono immediatamente attaccate dai borbonici, sc...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo primo. La primavera dell’Italia
  2. Capitolo secondo. Italia romantica e ribelle
  3. Capitolo terzo. La penombra della Restaurazione
  4. Capitolo quarto. Il risveglio
  5. Capitolo quinto. La primavera dell’Europa. L’Italia risorge
  6. Capitolo sesto. I dieci anni decisivi
  7. Capitolo settimo. Dai Mille a Roma
  8. Capitolo ottavo. «Addio, del passato...»