Il midollo del leone
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Il midollo del leone

Riflessioni sulla crisi della politica

  1. 154 pagine
  2. Italian
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Il midollo del leone

Riflessioni sulla crisi della politica

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Bisogna avere orgoglio e umiltà insieme. È con la crisi della politica che dobbiamo misurarci. Dove va la sinistra se non riusciamo a ristabilire un rapporto nuovo tra politica e popolo?Ho molto esitato prima di scrivere queste note. È acuta in me la consapevolezza della cesura tra il mio tempo e quello che stiamo vivendo. Sono in atto mutamenti profondi, fino a ieri impensabili, anche nella antropologia umana. Al centro di tutto c'è la crisi della democrazia moderna e il nuovo rapporto tra l'economia e la società. La sinistra non ha futuro se non esprime un nuovo umanesimo.«Non ho la pretesa di scrivere la storia della sinistra e non voglio nascondere i suoi errori. Mi sembra giusto, però, dire ai giovani di oggi che non partono da zero. È bene che agiscano in modi molto diversi da noi, ma non è sul nulla che poggiano i piedi. Sappiano che la lotta che noi affrontammo nei decenni passati non può essere ridotta a uno scontro tra libertà e totalitarismo. In Italia, almeno, fu una lotta per la democrazia». È così, alla luce di questi pensieri, che Alfredo Reichlin ricorda le vicende della sua generazione. Dalla Resistenza alla ricostruzione, dalla svolta atlantica di Berlinguer allo sfaldamento del Pci, Reichlin racconta le sue esperienze come direttore de "l'Unità" nel '56 e di segretario della federazione pugliese del Pci negli anni Sessanta, le discussioni accese sui movimenti del '68 e del '69, la nuova stagione della sinistra negli anni di D'Alema e di Prodi fino ad arrivare a oggi, alla critica netta al 'riformismo' dall'alto che contraddistingue l'attuale dirigenza del PD, sempre meno capace di ascoltare il paese. Con una speranza: che la società italiana ritrovi il 'midollo del leone', come Italo Calvino definì il nutrimento di una morale rigorosa e di una padronanza della storia.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102503
Argomento
Economia

Il tempo lungo che ho vissuto

Se parlare della mia vita ha un senso è per la ragione che ho vissuto dentro un tempo molto lungo, più lungo degli anni del calendario. Sono nato nell’altro secolo che non fu “breve” perché non cominciò con la rivoluzione russa e non finì col crollo del comunismo. E sono ancora qui a ragionare insieme con gli amici e i compagni in un altro millennio. Ed è questo che mi colpisce. Ho pensato, agito, lottato in epoche profondamente diverse. E ho voglia di lottare ancora.
Ho fatto in tempo a vedere l’Italia del fascismo: l’Italia della piccola borghesia meschina, tardodannunziana, col suo “duce” travestito da antico romano, costretta a risparmiare il centesimo. Ho conosciuto i paesi della povertà estrema. Un popolo di contadini nella grande maggioranza analfabeti i quali vivevano ai limiti della fame in veri e propri tuguri, con in fondo alla stanza gli animali. Mangiavano la sera tornati dalla campagna pane e cicoria conditi con una “croce d’olio” e sopravvivevano cercando ogni giorno nella piazza del paese la “giornata”. Erano una cosa diversa da una categoria di lavoratori dipendenti. Il loro era, di fatto, uno stato servile. Lavoravano “da sole a sole” a disposizione del padrone. Al posto dei contratti valevano gli antichi usi fissati nel tempo. Così io li ho conosciuti nella masseria pugliese di mio nonno. Ed è così che ho scoperto la grandezza e la potenza della politica, la forza di una nuova soggettività. Il fatto che una diversa combinazione delle forze può rimettere tutto in discussione.
È questo che accadde allora. Io vidi come in pochissimo tempo quella povera gente che era vissuta in quel modo per secoli, d’improvviso, con la caduta del fascismo e l’avvento dei partiti di sinistra, cambiò perfino antropologicamente. Di colpo, quegli stessi uomini da servi si trasformarono in lavoratori, chiesero i contratti, scioperarono, elessero i loro rappresentanti in Parlamento. Qualcuno leggeva addirittura «l’Unità». E la stessa cosa si è ripetuta col “miracolo economico”. A Barletta – il mio paese – fino agli anni ’40 non c’erano nemmeno i negozi. Le donne facevano il pane e il resto veniva dalla campagna, i bambini giravano scalzi e la carne era quasi sconosciuta. Poi, in pochi anni, Barletta è diventata una città moderna che esporta scarpe da riposo in tutto il mondo, e i nuovi ricchi girano in Mercedes.
Ho vissuto la guerra: i bombardamenti, le macerie, la catastrofe dell’8 settembre; il re e i generali in fuga, la totale dissoluzione dello Stato anche nei suoi gangli più elementari; il mercato nero, le SS tedesche padrone della città; e i ragazzi come me, appena diciottenni, che reagivano prendendo le armi. E mi è ancora oggi penoso ricordare l’angoscia di quei mesi, gappista a Roma: i rifugi, la fame, la paura di finire in via Tasso in una camera di tortura.
Ma ho conosciuto anche la felicità. L’immensa felicità della politica che si fa popolo, che riscrive la storia e ricostruisce la nazione. La Repubblica. E, insieme, la profonda emozione di riscoprire gli italiani, il Paese vero: le borgate, le fabbriche, i braccianti. Ricordo quando arrivai a Bari da Roma una sera di tanto tempo fa (erano i primi anni ’60) per assumere la direzione dei comunisti pugliesi. Non conoscevo nessuno. Cenai in una squallida trattoria con Tommaso Sicolo, il mio vice, un operaio di Giovinazzo di straordinaria intelligenza. Stazza 110 chili. Non avevo mai visto mangiare un piatto così grande di pastasciutta. Mi comunicò che il giorno dopo dovevo fare un comizio a Corato. Era la prima volta che parlavo in piazza. Non so quello che dissi. Ricordo solo una piazza immensa e un mare di coppole. Gli zappatori.
E ovviamente ho conosciuto il PCI quando era ancora una straordinaria comunità umana (i compagni) e ho lavorato con gente che mi ha profondamente segnato: Togliatti, Ingrao, Berlinguer. E se penso alle persone che ho amato e da cui sono stato riamato e alla mia famiglia, e agli amici, e se aggiungo che ho frequentato quella che fu la grande stagione della cultura italiana e che ho scritto su riviste e giornali e ne ho diretti, non posso dire di aver fatto una brutta vita.
Poi il comunismo è crollato e nello stesso tempo è finito il Novecento. E così è cambiato non lo scenario della politica soltanto, ma l’epoca storica. Un’altra volta. È scomparso tutto un mondo di relazioni, di idee, di cose (le classi, lo Stato-nazione, il partito di massa, i sindacati) che ci avevano plasmato. Sono saltate le coordinate del nostro pensare e gli strumenti della nostra lotta. E fu lì che io – lo voglio dire – sperai molto in una nuova leadership giovane la quale fosse capace di leggere la vera natura della crisi italiana. E di farlo in modo autonomo, cioè oltre la chiacchiera dominante che raccontava la Repubblica come quarant’anni di consociativismo e di soffocamento della società civile da parte della “partitocrazia”: quella chiacchiera micidiale dell’antipolitica che ha aperto la strada a Berlusconi. Insomma, avvertivo la necessità di una nuova dirigenza dopo la generazione nostra e di Berlinguer, in grado di leggere i segni di quella che non era solo la fine di un sistema politico, ma anche una crisi dello Stato storico (altro che i giudici e la corruzione!); di una Costituzione materiale, cioè del modo di stare insieme degli italiani. E tutto questo per una ragione: per ritrovare là, in quel grumo di problemi irrisolti, una rinnovata funzione nazionale della sinistra (quale che fosse il suo nuovo nome) e quindi una nuova identità e una nuova certezza di sé (dopo il crollo della vecchia armatura ideologica). Una identità storicamente fondata che derivasse dal porsi come forza riformatrice non del comunismo ma della democrazia italiana, una democrazia che, come tanti segni indicavano, tornava ad essere a rischio.
È stato questo il mio assillo: l’Italia. Ma in ciò sta anche il peso che io sento per il passato, e per il lato tragico della singolare vicenda del PCI. Un partito il quale si pose il compito storico di conciliare per la prima volta la classe con la nazione e di insegnare alle masse povere intrise di sovversivismo che cos’è la democrazia e perché è interesse degli sfruttati e dei ceti subalterni difendere lo Stato democratico (e questo compito in parte assolse); che tuttavia è lo stesso partito che per il suo legame con l’URSS ha contribuito a rendere incompiuta la democrazia italiana. E questa responsabilità pesa su di me e sulla mia generazione.
Nella sostanza è per questa ragione che mi è sembrato necessario e perfino naturale uscire dai vecchi confini del comunismo italiano. Era questo il passaggio. Era arrivato il tempo di scegliere – per dirla con Vittorio Foa – tra il mondo dei fallimenti e il mondo delle possibilità. E tra queste possibilità bisognava puntare su quella che il PCI non aveva avuto mai: la possibilità di governare l’Italia.
La decisione di uscire dai vecchi confini del PCI era non solo giusta, ma inevitabile. Vorrei però capire se fosse inevitabile che quella scelta comportasse quella sorta di “svuotamento” della sinistra cui si è assistito. E dico sinistra non come partito politico (che anch’io ho rimesso in discussione), ma come quella corrente profonda che scorre da più di un secolo nelle vene del Paese, la quale anche oggi continua a esistere ed è, nonostante tutto, una cosa vivente giacché si tratta di quell’insieme di lotte, di aspirazioni alla giustizia e di speranze in un mondo migliore che si perpetuano e che danno un fondamento ai processi di “civilizzazione”. Solo degli sciocchi possono pensare che per conquistare il “centro” bisogna abolire la sinistra. Del resto, guardiamo a come la sinistra sta rivivendo non solo in Asia e in America Latina, ma anche negli stessi Stati Uniti.
Perciò sono inquieto. Perché chi come me viene dalla sinistra storica non può sentirsi innocente se il nuovo soggetto politico in cui siamo confluiti sembra così incerto, quasi senza un’anima e privo di un pensiero lungo sul futuro. Pesa molto, io credo, la debolezza del modo in cui abbiamo gestito la crisi del PCI e la confluenza in un nuovo partito, il PD, di quella che, dopotutto, era la corrente maggioritaria della sinistra italiana, la sua forza più strutturata, la quale aveva segnato tutto il corso della storia repubblicana. Non si trattava di chiudere bottega ma di inverare un grande patrimonio anche morale, non solo per conservarlo, ma per ricavare da esso materiale per la costruzione di una casa nuova. Certo, era una operazione molto difficile, che per riuscire avrebbe richiesto da parte del gruppo dirigente un impegno molto più grande e serio nell’elaborare un nuovo pensiero politico. Non bastava sommare vecchie cose, bisognava elaborare una nuova sintesi. Questo non c’è stato. Avevamo dietro di noi la catastrofe del comunismo e di fronte a noi un mondo nuovo, con cambiamenti tali da modificare le stesse categorie concettuali e configurare una vera e propria cesura nel corso della storia. Bisognava, quindi, avere orgoglio e umiltà insieme. Non nascondersi che la gran parte delle esperienze da cui venivamo erano anacronistiche e su di esse non si poteva più far leva per costruire una casa comune. Ma non illudersi di aggirare la portata della svolta pensando di poterla governare con un po’ di riformismo “tecnocratico” e un po’ di sindaci. Era con la crisi della politica che dovevamo misurarci. Una crisi che non veniva solo dalla pochezza degli uomini, ma da un vero e proprio mutamento in senso oligarchico della democrazia. E ciò non solo in Italia.
È per questo che considero essenziale un radicale spostamento della politica dal terreno attuale – dove essa è pressoché destinata a subire un declassamento se le grandi decisioni vengono prese (come oggi accade) in centri di potere molto lontani – al terreno della lotta per una nuova democrazia capace di rimettere in gioco le energie popolari. Dove va la sinistra se non riusciamo a ristabilire un rapporto nuovo, non passivo, tra masse e potere, tra politica e popolo? Qui sta il centro delle mie riflessioni.
È molto acuta in me la consapevolezza della distanza tra il mio tempo e quello che stiamo vivendo. Penso che siamo di fronte non più solo a grandi cambiamenti, sempre avvenuti nel corso della storia, ma a una vera e propria cesura. Ce lo dicono tante cose, dalla crescente mutazione del rapporto tra l’uomo e la natura a una condizione nuova del vivere, conoscere, comunicare. Pensiamo a come muta la stessa presenza umana in conseguenza dell’uscita di miliardi di persone dal buio millenario di vite primitive. Pensiamo al nuovo posto della donna nel mondo. Cambia l’idea di sé delle persone. Ed è inevitabile che tutto ciò sia destinato a cambiare il significato stesso della politica. Quando la sostanza dei nuovi processi in atto e delle contraddizioni che si creano attinge l’estrema frontiera della salvaguardia della specie umana e dell’ecosfera, allora le risposte non possono esaurirsi in misure di governo. Devono assumere i caratteri di un impegno politico che si eleva a riforma intellettuale e morale.
Ho consapevolezza delle forme così diverse dal passato assunte oggi dalla milizia politica e vedo la straordinaria novità di un mondo dove i movimenti sociali e le aspirazioni a trasformazioni anche profonde della vita e dei rapporti umani si manifestano sempre più attraverso quella sorta di nuova “agorà” elettronica globale che è la Rete. È evidente che la soglia d’ingresso delle masse sulla scena pubblica si è abbassata. È un grande fatto. Ma ciò non attenua il rischio di un “pensiero unico” se non c’è a monte una guida politica e un confronto reale tra idee, progetti ed esperienze diverse. Del resto, siamo in un Paese dove questi rischi si toccano con mano. La “tirannide della maggioranza” è sempre in agguato. La democrazia vive se sono forti i suoi presupposti: la partecipazione delle masse subalterne alla vita statale, la possibilità dei “diretti” di diventare “dirigenti”.
La sinistra non è più di moda. Eppure c’è qui un deposito profondo di valori, di esperienze e di culture che non si può cancellare. Non nego faziosità e illusioni, ma di quel passato restano tante cose. Tra queste il fatto tanto semplice quanto fondamentale che prima dell’avvento della Repubblica mai le classi subalterne avevano avuto un posto così grande nella vita nazionale. E parlo di un posto non solo economico, ma anche etico-politico, culturale, di dignità e influenza sociale. Avvenne un salto che condizionò tutto il corso della vicenda italiana. Ed è questo che mi spinge a collocare le vecchie dispute che divisero la sinistra in uno scenario storico più ampio, il quale ci consenta di riflettere più pacatamente sul paradosso di un partito che non può essere ridotto solo alla sua ideologia e al suo rapporto con la rivoluzione russa, perché era anche un movimento reale. Esplose con quella forza alla caduta del fascismo perché veniva da più lontano. Teniamo conto che fin dagli anni ’30 si avvicinarono ad esso forze che non venivano più dai vecchi schieramenti prefascisti ma riflettevano i grandi cambiamenti che stavano avvenendo in Italia in quegli anni. Il caso dei giovani che fecero dei Littoriali il luogo di confronto con altre idee rispetto al fascismo è esemplare. Ma più indietro ancora bisognerebbe andare.
Del resto, solo così si spiega come mai un partito che assegnò a se stesso un compito (il comunismo) del tutto irreale e che, ovviamente, non fu mai in grado di raggiungere, diventò nondimeno un soggetto protagonista della storia nazionale. La sostanza della spiegazione di questo paradosso sta (io credo) non tanto e non solo nelle capacità dei suoi dirigenti, quanto nella peculiare vicenda italiana precedente il fascismo, nell’epoca della difficile formazione dello Stato unitario. Al fondo, il PCI incarnò, anche grazie al suo mito rivoluzionario, l’opposizione che fermentava da tempo in ampie masse di popolo (ma anche di intellettuali) rispetto a classi dirigenti che in realtà erano sentite come nemiche. E che, in effetti, tali erano, come dimostra la storia d’Italia anche dopo l’Unità: da quella vera e propria guerra che fu la lotta contro il brigantaggio, agli stati d’assedio, agli eccidi dei contadini, alla miseria indicibile di vaste plaghe, all’analfabetismo di massa, e, poi, alla violenza degli squadristi e del fascismo. Di qui il bisogno reale (e quindi la fortuna) di un partito che, forte anche dell’utopia che lo animava, apparve a queste masse come il più credibile strumento di lotta per un cambiamento radicale. Su ciò fece leva la sapienza dei suoi capi, che questa spinta radicale tradussero nella costruzione di una democrazia di massa e in una Repubblica retta da una Costituzione molto avanzata.
È così che la vecchia e aspra disputa ideologica mi appare sempre meno feconda. Non è il PCI che spiega la storia d’Italia (ivi compresa la debolezza del riformismo), ma viceversa. Del resto, Togliatti era ancora un bambino quando i generali del re presero a cannonate gli operai di Milano e misero Turati in galera. Ho già ricordato gli stati d’assedio, il regicidio, gli eccidi dei contadini. E la Chiesa era talmente dominata dalla preoccupazione di una convergenza tra le masse cattoliche e quelle socialiste da imporre a don Sturzo l’esilio. Queste sono le classi dirigenti italiane. Poi, certo, ci sono tutti gli errori della sinistra.
Scopro così che il mio animo si allontana sempre di più dalle dispute ideologiche che hanno lacerato la sinistra per tanto tempo. Guardo le cose alla luce delle nuove prove che ci attendono e mi sembra che i nomi (comunisti, socialisti, riformisti, rivoluzionari) corrispondano sempre meno alle cose reali. Del resto, di queste dispute che cosa rimane? Tra la politica e il sentire del Paese si è creata una distanza così grande che l’Italia appare illeggibile, e non si sa bene su quali risorse possiamo far leva.
Il mio intento non è quindi la difesa delle memorie. Il PCI – come ho detto – è storia conclusa. Il suo progetto politico era insostenibile. Però resta in me la consapevolezza di aver vissuto una vicenda che era parte di un grandioso movimento mondiale che, nel bene e nel male, ha cambiato l’epoca, e di aver partecipato, al tempo stesso, a una storia più profonda e di più lungo periodo delle masse popolari italiane. Fare questa storia non è facile, intrisa com’è di vicende anche sanguinose e tragiche. Ma non intendo far finta di ignorarla. È alla luce dei problemi di oggi che mi limito a ripensare la politica (come in certi periodi e per certi aspetti personalmente l’ho vissuta) in quanto lotta per una democrazia nuova volta a rimettere in gioco le forze popolari più profonde. “Creare un nuovo protagonismo delle masse”, si sarebbe detto un tempo. Ma senza illudersi che ciò possa avvenire senza affrontare scontri molto aspri.
Ne feci l’esperienza quando venni spedito a Bari agli inizi degli anni ’60. Venivo da quel mondo intellettuale un po’ ciarliero che ruotava intorno anche a un giornale come «l’Unità» e, di colpo, mi trovai buttato in una lotta molto dura, anche fisica. Mi colpì l’impressionante rapporto di fiducia (quasi una fede) del proletariato agricolo nel suo “Partito”. E la ragione era evidente. In quella lotta non si scherzava. Tutto il vecchio assetto del mondo agricolo meridionale era in movimento e gli scontri erano segnati ovunque – in Puglia come in Sicilia e in Calabria, come in Basilicata – da morti e feriti. Allora la polizia sparava. E non scherzava nemmeno la vecchia magistratura, che mandava in galera la povera gente a centinaia. Ma neppure noi scherzavamo. Ricordo quando durante un lungo sciopero dei braccianti si arrivò a interrompere la ferrovia e a bloccare coi picchetti gli accessi ai campi per impedire ai crumiri di raccogliere la frutta. La Lega dei braccianti non era solo un sindacato, ma anche un organismo di mutuo soccorso con la sua disciplina e i suoi capi. A notte fonda passava a prendermi il suo segretario per fare il giro dei paesi e salutare, a nome del “Partito”, i picchetti riuniti intorno ai falò. Era gente ridotta alla fame. Resisteva con orgoglio ma voleva vedere in faccia i suoi capi. Tornavo a casa all’alba, mangiavo un boccone e mi gettavo nel mare immobile vicino alla casa dove abitavo: l’ultima prima della campagna. Alla fine vincemmo. Ma a Cerignola non erano soddisfatti. Del sindacato non si fidavano, e dovetti andare a parlare in piazza per dire che anche per il “Partito” era giunto il tempo di tornare al lavoro. Ammetto che è difficile sostenere che, almeno lì e in quel tempo, fosse stata superata la “cinghia di trasmissione” tra partito e sindacato.
Storie di altri tempi, ormai lontanissimi. Primitivismi, certo. Ma io ho sentito in quella fiducia della gente nel “Partito” il bisogno non solo di un mito poli...

Indice dei contenuti

  1. Il tempo lungo che ho vissuto
  2. Credevamo nella rivoluzione?
  3. Come eravamo
  4. In Puglia
  5. Fame di Italia vera
  6. Il «Corriere della Sera» del proletariato
  7. Un Paese diviso. DC e PCI
  8. Il ’68 e la rivoluzione conservatrice
  9. Il riformismo dall’alto e il nuovo Sovrano
  10. Enrico Berlinguer
  11. La crisi della democrazia
  12. Un nuovo umanesimo
  13. Epilogo. Il midollo del leone